Vaticano, appuntamento atteso
di Vittorio E. Parsi
Può la verità fare da cardine in un discorso di «politica estera» destinato agli ambasciatori del mondo? Certo che può, e l’esito risultare di assoluto interesse per la causa dei popoli e della pace. Ecco ciò che è avvenuto ieri in Vaticano, dove Benedetto XVI ha tenuto – ed era un appuntamento molto atteso – il suo primo discorso al Corpo diplomatico.
L’orizzonte papale va oltre l’attualità, senza tuttavia saltarla. Le vicende della cronaca politica sono paragrafi nell’ordito di un tessuto la cui trama è prodotta dalla verità, declinata con i valori ad essa «gemellari» della giustizia, della libertà e della riconciliazione. Eppure, proprio per questo, la politica si staglia nella sua più chiara nobiltà, per una pace che non si limiti ad essere “solo il silenzio delle armi”, ma si proponga invece come una concordia resa persuasiva dalla solidarietà.
Con le sue parole decise, Benedetto XVI ha voluto anche affermare la responsabilità della comunità internazionale nei confronti del cammino comune, perché nessuno può illudersi che la verità non lo riguardi. La verità infatti non può coincidere con la sopraffazione insita nella “legge del più forte”; deve anzi riconoscere ciò che accomuna ogni essere umano, pur nel rispetto delle peculiarità che contraddistinguono popoli e culture. Ove “uguaglianza” e “diversità” sono negate subentrano incomprensione e dissidi. La preoccupazione per evitare il pericolo “non a torto ravvisato” dello scontro delle civiltà, non può d’altronde indurre a timidezze nel contrastare il terrorismo organizzato, che rende questo pericolo tanto più acuto e che mai è giustificabile, tanto più quando si fa scudo di una religione. La ricerca e l’affermazione della verità quindi non possono essere addotte a pretesto per la violenza e per l’intolleranza. Non possono esserlo nell’arena internazionale, ma non devono neppure esserlo nell’ambito interno, poiché “la verità può essere raggiunta solo nella libertà”. Ecco che allora, proprio perchè esiste un nesso tra religione e verità, proprio perché l’una è strumento per ascendere all’altra, la questione della libertà religiosa dispiega la propria centralità, a garanzia e tutela di ogni altra libertà. In tal senso, i governi di quegli Stati nei quali essa è gravemente violata finiscono col “pregiudicare per ciò stesso la propria credibilità come interlocutore nelle questioni internazionali”. Ci sembra che qui il Pontefice offra una perorazione quanto mai autorevole della superiorità etica dei sistemi liberali e democratici e una concezione per nulla formalistica della valenza propria del diritto internazionale.
Forte ed esplicito è il richiamo alla comunità internazionale, affinché essa manifesti concretamente la propria solidarietà alla ricostruzione di convivenza e fruttuosa collaborazione tra entità di diversa fede (dal Libano all’Iraq, al Darfur ai Grandi Laghi), poiché perdono e riconciliazione devono essere costruiti con l’aiuto di tutti e non possono essere scambiati con l’acquiescenza di fronte alla sopraffazione.
Se il Medio Oriente è il filo conduttore per nulla nascosto delle diverse tappe in cui si articola il cammino verso la pace indicato dal Papa, l’Africa è l’altro grande orizzonte a cui egli rivolge il suo sguardo, preoccupato di fronte al cronicizzarsi di emergenze umanitarie che uccidono, insieme all’uomo, anche la sua dignità. Si dirà che ciò avviene nel solco della tradizione; ma innegabilmente lo stile e i contenuti sono fortemen te “ratzingeriani”. Il diritto di Israele a un’esistenza nella sicurezza, così come quello del popolo palestinese allo sviluppo di proprie istituzioni democratiche è la prima menzione che ricorre nel discorso di ieri. La denuncia inflessibile dell’impossibilità di una pace senza giustizia e senza verità è il monito conclusivo, perentorio e accattivante.
Da Avvenire Online
del 10 gennaio 2006