Sono anticomunista perché sono e voglio rimanere una persona, con i diritti e la dignità che le provengono dalla saggezza antica, dalla spiritualità cristiana e dalle rivoluzioni liberali come quella americana.
Stefano Doroni
Ragionpolitica 9 aprile 2004
Nella Costituzione di quel grande paese è scritto il diritto del singolo uomo al perseguimento della felicità: ed essa consiste, su questa terra, nella libertà di esprimere le proprie idee e i propri sentimenti, disponendo almeno dei beni necessari per provvedere a se stessi e soddisfare i proprî desideri. Questa disponibilità nei regimi totalitari ispirati da sistemi utopici, come il comunismo, non esiste perché il collettivismo che li ispira non è fatto per aprirsi alle esigenze del singolo. I sistemi utopici egualitari sono in realtà regimi terribili dove l’uniformità è garantita dall’impossibilità della differenza: la personalità individuale si annulla e la persona risulta svuotata delle sue prerogative intellettuali e spirituali.
Nella famosa Utopia di Tommaso Moro (1516) troviamo un modello regressivo rispetto a quello della società borghese emergente in quel periodo. La mancanza di specializzazione nelle attività umane, così che la città non debba dipendere troppo strettamente da nessuno, rende gli uomini non più utili di semplici ingranaggi in un meccanismo. Rotto uno, se ne utilizza un altro. L’essere umano si definisce in quanto parte di un tutto, non in quanto portatore di dignità e diritti per se stesso. La perfetta uguaglianza perfino delle dimore annulla i desiderî e le scelte individuali: la persona non esiste. Il modello di Tommaso Moro è il traguardo di ogni società che si pretende fondata su principî egualitari. Il comunismo, profetizzando l’avvento di una società senza classi dove tutti possano essere contadini, pescatori e critici, propone una spersonalizzazione dell’umanità.
L’uomo sociale che tanto piace a Marx è l’individuo alienato da se stesso, che non conosce il privato, che pensa e desidera ciò che l’ideologia gli ha imposto di credere e volere. Un uomo così ridotto non sarà più in grado di ribellarsi e nemmeno di dissentire, perché non avrà pensieri suoi: questo è l’uomo “rieducato” dal comunismo. Se si dovesse realizzare una simile atrocità la storia avrebbe davvero fine: non perché si realizzerebbe la società giusta all’insegna della pace universale, ma piuttosto perché l’uomo sarebbe cancellato dalla faccia del pianeta, lasciando al suo posto burattini senza cervello. Sono, dunque, anticomunista perché se il comunismo avesse trionfato nel mondo io non mi sentirei più una persona; il pianeta sarebbe, infatti, pieno di marionette ubbidienti. Se il comunismo si fosse affermato non ci sarebbe più la forma dello Stato come oggi la conosciamo, ma questo non significherebbe il raggiungimento della completa libertà del genere umano; sarebbe, invece, diffusa una cultura autoritaria, un totalitarismo assoluto che avrebbe completamente assoggettato le coscienze e gli spiriti, cancellando da essi perfino l’idea del pensiero autonomo; un totalitarismo che, per conservare il potere, non avrebbe nemmeno bisogno di uno Stato di polizia, di un governo terrorista e assassino come in Unione Sovietica o a Cuba, perché ciascuno, con il suo cervello condizionato dal dogma dell’ideologia, sarebbe il gendarme di se stesso e degli altri.
L’affermazione completa del comunismo presuppone, dunque, la cancellazione dell’idea stessa di libertà dalle menti umane, dopo averle convinte che l’apparente equità dell’utopia egualitaria sia una reale forma di liberazione. In sostanza l’ubbidienza non avrebbe alternativa, ma non sembrerebbe imposta, in quanto la comunità sarebbe perfettamente concorde perché la dissidenza, presupposto della libertà, non sarebbe concepita. Il comunismo rappresenta dunque il più grande inganno che si possa ordire ai danni degli uomini perché promette loro l’avvento di una giustizia perfetta mentre li riduce nella più umiliante delle schiavitù.
Il comunismo è il pensiero totalitario per eccellenza perché, grazie al condizionamento della coscienza, tende alla realizzazione del consenso totale: cioè un accordo che non è soltanto obbedienza esteriore, ma allineamento dei pensieri e dei desideri delle persone ai dogmi dell’ideologia. Il male del comunismo è proprio qui: nel presentarsi come dottrina morale, pensata per il bene dell’uomo, per la giustizia, per la libertà; mentre invece è causa del suo annichilimento, è la negazione stessa della giustizia e della libertà. Il comunismo viene proposto agli uomini come un “Bene” assoluto, messo a contrasto con le forme del “Male”, cioè il mercato, l’individualismo, i beni privati, la religione. Mentre è proprio questa ideologia ad essere portatrice del Male, poiché priva il soggetto umano della libertà di far fruttare le proprie qualità individuali, di possedere qualcosa, di coltivare la propria spiritualità.
Il comunismo si sostituisce perfino a Dio, di cui rimuove il bisogno perché promette il paradiso sulla terra. Ha ragione chi ha detto che il comunismo è una “religione senza dio”. Non è un caso che queste siano parole di Silvio Berlusconi, cioè l’uomo che ha rotto ai comunisti italiani il giocattolino del potere che sembrava ormai nelle loro mani, dopo la rivoluzione giustizialista di Mani pulite, che aveva rimosso dalla scena politica un’intera classe dirigente a favore di una sinistra orfana dell’URSS. Il comunismo è una religione proprio perché cerca il dominio sulle coscienze e sugli spiriti; perché ambisce a diventare un imperativo morale, a superare i confini della politica per penetrare la vita degli uomini in ogni suo aspetto e tenerli così incatenati ai propri dogmi, privandoli della capacità di rimanere soggetti autonomi.
Nel Manifesto del Partito Comunista Karl Marx e Friedrich Engels scrissero che «la teoria del comunismo può essere riassunta dalle sole parole: abolizione della proprietà privata». Limpido, vero: l’abolizione della proprietà privata significa alienare l’uomo da una delle caratteristiche che lo fanno tale, cioè la capacità di possedere qualcosa, di guadagnare con il proprio impegno e le proprie capacità un premio tangibile. Ma, in modo più estensivo, possiamo dire che il comunismo ottiene il massimo potere alienando l’uomo da se stesso. Possiamo fare un piccolo esempio con una citazione, per dir così, “leggera”. Poiché non sto fra gli intellettualoidi puzzoni e radical-chic da cineforum morettiano, mi permetto di citare un film come “Il compagno Don Camillo”, frutto di quella letteratura di “serie B” che a scuola non ti fanno studiare perché politicamente scorretta (sia lode al buon Giovanni Guareschi). Dice dunque il rude prete della bassa padana, rivolto al Sindaco comunista Peppone, che vuole rimandare in Russia due sospetti tecnici sovietici rifugiati in Italia, riconsegnandoli ai “legittimi proprietari”, cioè i capi comunisti: «Ogni essere umano ha un solo leggittimo proprietario: se stesso». Ecco: il comunismo, uniformando le coscienze e svuotando gli spiriti, diventa il proprietario dell’essere umano.
In questo senso il comunismo è antiumano, perché rapisce l’uomo a se stesso, lo snatura, ne prosciuga la linfa vitale, ne reprime gli slanci nell’omologazione del collettivismo, lo indebolisce, lo svuota per renderlo puro involucro obbediente ad un’autorità che non sarà mai più in grado di contestare. Le manifestazioni storiche del comunismo, dovunque esso s’è affermato, sono state e sono tuttora disumane, criminali; ma l’idea comunista, il comunismo come pensiero è criminale perché è antiumano, vale a dire contrario ai diritti e ai desideri naturali dell’umanità. L’idea è dunque criminale quanto la forma concreta perché pianifica l’annientamento dell’uomo come persona. Il pensiero è criminale quanto il fatto perché Marx è il mandante dei crimini di Lenin, di Stalin, di Mao, di Pol Pot, di Castro, di Tito, di Ceaucescu, di Milosevic.
Io sono anticomunista perché ho paura di un pensiero antiumano; ho paura delle menzogne del comunismo. Perché esse raccontano di false liberazioni e falsi paradisi, false perfezioni, false armonie sociali. Il comunismo, anche in Italia, è riuscito a far breccia in tante coscienze animate da buona fede grazie alla maschera del buonismo e del pacifismo ideologico (che in realtà nasconde una guerra contro l’Occidente e le sue forme di vita) e grazie all’alleanza blasfema con quella parte di cristianesimo, che si è abbandonata alla deriva eretica della fede in un Cristo a una dimensione sola: quella del perdono senza quella del giudizio.
Il comunismo è perfino peggiore del nazismo, perché il delirio di onnipotenza di Hitler era un folle grido di sopraffazione, che predicava la violenza e la distruzione per la costruzione di una società dominata dai “migliori”. Non dissimulava, però, la sua natura violenta e criminale. Il comunismo vuole in sostanza la stessa cosa, ma finge di volere il contrario, predicando la non violenza, la pace, l’uguaglianza, la concordia. Il comunismo possiede la caratteristica diabolica della menzogna. Il comunismo e il nazismo sono razzisti entrambi, ed entrambi sterminatori: tutti e due tendono alla distruzione di una parte di umanità a favore di quella ritenuta “privilegiata”, l’unica ad avere il diritto di vivere e prosperare (gli ariani o i proletari); che il nazismo si regga su basi razziali e il comunismo su fondamenta socio-economiche non cambia la sostanza delle cose. Io sono antinazista e, perciò, non posso non essere anticomunista.
Credo che l’esecrazione riservata al nazismo dovrebbe spettare al comunismo; credo che la gente dovrebbe avere paura del pensiero comunista, così come dovrebbe provare terrore delle sue manifestazioni storiche. Finché il comunismo come pensiero non sarà relegato fra i crimini contro l’umanità non potremo stare tranquilli: perché il mostro potrà risorgere in ogni momento, come sta facendo in questo periodo ammantato delle bandiere arcobaleno, volando sulle parole alate di preti imbonitori o spinto dalle iniziative di caporioni di piazza solidali con il terrorismo internazionale.
Sono anticomunista perché non credo alla cultura degli slogan di facile presa. La massima marxista “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni” è il più vile degli inganni che si possano immaginare. Questa perfetta equità nasconde, infatti, una sostanziale ingiustizia. In sostanza vuol dire che nella società comunista si prende e si offre “quel che passa il convento”. Nella società comunista non esiste infatti la divisione del lavoro, non esiste la specializzazione, non esiste quindi la possibilità di esprimere al massimo le proprie capacità. Non c’è nessuna cultura dell’eccellenza, che possa consentire di riconoscere i veri artisti, i medici migliori, gli artigiani più abili. Non c’è, dunque, la possibilità di migliorare il benessere usufruendo di servizi migliori grazie all’impiego delle persone nei campi in cui ciascuno può dare il meglio di sé. La cultura della specializzazione è un termometro del progresso. Quella comunista è una cultura regressiva.
I bisogni intanto rimangono. Il comunismo pensa di soddisfarli con una forma di assistenzialismo di base. Marx sostiene che gli uomini, prima di occuparsi di arte o di politica, devono poter sfamarsi e vestirsi. E con ciò pretende di aver risolto ogni problema. Ma non basta. L’uomo sfamato e coperto ha garantita solo la sopravvivenza. E i desideri dove stanno? L’uomo non vive di soli bisogni; la loro soddisfazione non basta per la felicità, e nemmeno per la giustizia. Ma non è sufficiente nemmeno per far sorgere negli uomini la scintilla dell’arte o della scienza. Ci vuole la cultura, un’istruzione davvero libera, ma soprattutto la libertà di esprimersi e di cercare una verità ciascuno per se stesso. Ci vuole il contrario del comunismo per fare di una persona un uomo autentico. La società comunista non è né libera né giusta: è solo addomesticata.
Sono anticomunista perché sono cristiano. Il comunismo, infatti, prevede l’ateismo; anzi, prevede il disprezzo della religione in quanto essa viene considerata una specie di inganno, di miraggio nel quale l’uomo si rifugia, illudendosi nella speranza ultraterrena lasciando che la storia del mondo prosegua fra ingiustizie e soprusi. Il comunismo ha necessità di rimuovere la religione perché vuole prendere il suo posto nelle coscienze degli uomini; esso vuole imporsi prima della politica, come principio morale, da accettare come regola di vita. Per questo è duro a morire: perché ha la diabolica capacità di annidarsi negli spiriti umani come un progetto salvifico e non come una strategia politica.
Sotto le mentite spoglie di una legge di giustizia il comunismo può illudere le persone e garantirsi un consenso politico che non teme le oscillazioni delle preferenze, perché si forma fuori dalla politica, nel terreno della moralità e della speranza. Qui sta l’inganno: nel presentare un’idea antiumana (e perciò criminale) come un progetto morale e salvifico. Un cristiano, che crede in un essere superiore e creatore, ch’è insieme provvidente e giudice, che vive nella certezza di una dimensione di carità e giustizia che non appartiene alle misure terrene della vita, che crede all’esistenza del Male come essere personale dedito all’insidia e alla tentazione. Un cristiano deve dunque difendersi dal pericolo comunista, cioè di una religione senza spirito.
Per un cristiano, che crede nei Vangeli, appare evidente che la menzogna comunista è tratteggiata nelle parole di Gesù quando dipinge agli apostoli il male del mondo futuro: «Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti» (Matteo 24,11). Il comunismo infatti inganna, profetizzando il cammino della storia verso l’avvento inevitabile della società perfetta: un’eternità immobile popolata di uomini disumanizzati che hanno alle spalle un “giudizio universale” fatto di violenze e distruzioni. Ma il Cristo continua: «Per il dilagare dell’iniquità, l’amore di molti si raffredderà» (Matteo 24,12). L’iniquità è dilagata con l’idea comunista e con le sue manifestazioni storiche; l’adesione sincera di molti al Verbo di Dio si è raffreddata poiché è stata sviata dall’eresia. Molti hanno, infatti, cominciato a credere in un Cristo il cui Verbo sembra imparentato con il pauperismo marxista: da qui nasce quel cristianesimo sociale che privilegia l’impegno politico rispetto alla tensione mistica e trasforma in banale populismo l’ardore della carità cristiana. Questo è il cattocomunismo: un successo del marxismo, perché la fede è indebolita, privata dello spessore individualistico del contatto personale dell’anima con Dio.
Sono anticomunista perché vedo il pericolo che sovrasta oggi l’umanità. Il comunismo sembra morto sotto le macerie del Muro di Berlino, sepolto dal crollo del mostro sovietico. E invece no! Il comunismo non è morto: il suo fuoco distruttore sta covando sotto la cenere. L’orco sta studiando nuove strategie per riemergere. Oggi si nasconde dietro le bandiere arcobaleno che sventolano nelle piazze in un’orgia di tifo per il terrorismo internazionale, per il nemico islamico con cui condivide il progetto di distruzione dell’intera civiltà occidentale fondata sulle libertà individuali e sui diritti umani. Il comunismo non è morto. Oggi scende in piazza per manifestare contro la globalizzazione, cioè contro l’unico mezzo a disposizione dell’umanità per diffondere benessere e opportunità di ricchezza a tutto il pianeta: serpeggiando fra i no-global invasati, il comunismo cerca di mantenere sulla terra il sottosviluppo e l’arretratezza, di cui ha bisogno per alimentare la rabbia, l’odio e la violenza con cui forzare il cammino della storia. Il comunismo oggi sta dichiarando una nuova guerra al mondo libero e civile.
Nascosto dietro spoglie miti, pacifiste, sorridenti, dietro vesti talari, dietro sorrisi appiccicosi atteggiati ad una benevolenza imparaticcia e superficiale, oggi, il comunismo ordisce il suo ennesimo inganno. Per molti cattivi maestri che tessono diabolicamente la loro tela, moltissimi sono gli indottrinati che hanno abboccato all’esca. Oggi è necessario diffondere una cultura alternativa a quella marxista; è necessario dare alla gente la possibilità di sentire punti di vista fuori dal coro, fuori dall’ortodossia culturale troppo spesso genuflessa agli schemi marxisti.
Per questo cercheremo di delineare una breve storia dell’idea comunista, contrapposta allo sviluppo della libertà nell’Occidente; cercheremo di chiarire la natura antiumana dell’ideologia comunista; e ricorderemo infine il carattere criminale dei regimi comunisti. A questi regimi sono stati legati i comunisti italiani: magari quegli stessi che oggi si affrettano a indossare il costume del riformista e del moderato, fingendo che il loro passato non li riguardi.
Sono anticomunista perché amo la libertà; perché credo nella dignità della persona; perché so che la società migliore è quella dove regna l’amore e non l’uguaglianza imposta dall’umiliazione dei talenti umani. Ma la società dell’amore non è di questo mondo; mentre quella comunista è un sogno del diavolo.
Il problema è l’utopia
L’idea comunista non nasce con Marx ed Engels: essi l’hanno perfezionata, hanno costruito una strategia per la realizzazione di una società egualitaria. Ma l’idea di un mondo retto dal principio dell’uguaglianza assoluta, senza classi e senza proprietà privata, è molto più antica.
All’origine di tutto c’è dunque un’utopia: il mito di una società perfetta, ricalcata sul modello di una favoleggiata età originaria in cui l’uomo non conosceva divisioni secio-economiche né proprietà individuale. Questa età leggendaria era considerata lo stato migliore dell’umanità, uno stato di completa giustizia.
Inoltre l’utopia non è soltanto una condizione di giustizia sociale assoluta che recupera l’equità perfetta di un passato originario. È anche – e qui sta l’altro aspetto del problema – la tendenza a rifarsi alla dimensione del sogno e dell’ideale, in particolare nelle questioni della politica e della giustizia. Si paragona cioè continuamente l’ingiustizia della realtà all’equità del mondo “risanato” dall’applicazione dell’ideologia; e si insiste nel presentare questa applicazione come effettivamente realizzabile. Il comunismo racconta di una favola che può diventare vera, ma è una favola cattiva: perché l’utopia egualitaria è un modello antiumano. Il mondo perfetto dei comunisti è quello in cui gli uomini sanno essere «pescatori al mattino e filosofi alla sera», come diceva Marx, e quindi non essere mai veramente né gli uni né gli altri: se non sei abbastanza pescatore né abbastanza filosofo non servi né come l’uno né come l’altro. Sei solo una pedina anonima, un ingranaggio del grande meccanismo totalitario dell’uguaglianza assoluta. Tutti uguali perché tutti oggetti. Questa è la società comunista.
Un simile progetto di annichilimento della natura umana ha bisogno della negazione di Dio, di un Dio creatore. I comunisti e chi oggi è travolto dalla fiumana del nichilismo e del relativismo (frutti degli eccessi materialistici del pensiero illuminista), sono portati a sostenere che la “disumanità” della natura, la ferocia e la mancanza di senso morale che c’è in essa, negherebbero la presenza di una mente creatrice a monte di tutto, di un’intelligenza benevola che ha voluto l’esistenza della vita sulla terra.
Ma in realtà la natura è semplicemente quella che è: non ha senso cercare in lei principi morali e nemmeno accusarla di disumanità. La natura non è umana, non è fatta a immagine dell’uomo. Per un credente è l’uomo che è fatto a immagine di Dio, e perciò il senso morale non può venirgli dalla natura, anch’essa organismo nato dal Creatore. Per un non credente l’uomo è dotato di intelligenza, per cui può dominare la natura per migliorare la sua condizione, per aumentare il suo benessere. Inoltre, la presenza del dolore non può essere usata come argomento dell’inesistenza di Dio. Il dolore infatti o viene dal male, o è parte del male che c’è nell’uomo. Per i credenti il Male è un essere personale che insidia gli individui e ispira in essi pensieri cattivi e brutte azioni. Per i non credenti il male è presente nell’uomo stesso, come impulso anche se non come presenza personale. Cristo non viene comunque a togliere il male dal mondo, viene a riconoscere il bene e a premiarlo. Dice infatti, sulla croce, al ladrone pentito: «Amen dico tibi hodie mecum eris in paradiso», «In verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso». Dio non è responsabile del male del mondo: lo è l’uomo con le sue debolezze. Questo è semmai il segno che Dio lascia l’uomo libero di scegliere la sua strada. Se non permettesse ciò sarebbe una sorta di burattinaio che tira i fili dei suoi inanimati servi; se avesse tracciato una via obbligata per gli uomini, senza lasciare ad essi la possibilità di intraprendere altri percorsi, guidandoli verso una perfezione inevitabile, sarebbe stato un capo comunista. Ma questo argomento lo riprenderemo in seguito.
Torniamo dunque all’utopia intesa come mito della società perfetta senza disuguaglianze sociali né proprietà privata. Dobbiamo innanzitutto dire che questo stato di cose non è mai esistito nella storia dell’uomo: non c’è mai stato un periodo o un posto del mondo in cui le attività produttive o i mezzi di produzione fossero di proprietà collettiva, almeno prima dell’avvento del comunismo storico. Ogni uomo, così come ogni animale, ha bisogno di procurarsi il cibo e perciò deve rivendicare il possesso di un territorio. I membri delle tribù nomadi della più remota antichità avevano l’accesso esclusivo al territorio che avevano occupato e scacciavano senza mezzi termini qualsiasi intruso. È una necessità naturale, che non riguarda soltanto gli esseri umani. C’è un gatto, nella tenuta di campagna di mio suocero, che fa scappare di gran carriera qualsiasi altro felino che si infiltra nei dintorni della casa: solo lui, abitante fisso di quei prati, rivendica il diritto a mangiare le piccole talpe e i topini che lì si aggirano.
Quando, circa diecimila anni fa, l’uomo passò all’agricoltura e abbandonò lo stato nomade, aumentarono le rivendicazioni della proprietà privata: curare la terra richiede tempo e fatica, far maturare i frutti significa aspettare molto tempo. Per questo la proprietà privata venne formalizzata in maniera sempre più precisa. Il popolo di Israele è il primo presso cui ritroviamo il possesso privato della terra. Nel libro del Deuteronomio (27,17) leggiamo: «Maledictus qui transfert terminos proximi sui», «Sia maledetto chi sposta le pietre di confine del suo vicino».
L’idea comunista è dunque antiumana fin dalle sue basi poiché va contro la fondamentale necessità dell’individuo di disporre di beni propri utili per procurarsi di che vivere, si tratti di poderi, macchinari, o di un semplice strumento per scrivere libri. Questa idea, che possiede il fascino della perfetta giustizia e nasconde la terribile insidia della disumanizzazione, è molto antica. Possiamo cominciare dal IV secolo a.C. Nelle Leggi, Platone immaginava una società in cui fossero in comune i beni, le mogli, i figli e perfino il concetto stesso di privato e individuale fosse cancellato; egli sperava che anche gli occhi, gli orecchi e le mani – quanto di più personale un individuo possieda – diventassero cose comuni, e perfino che «tutti gli uomini lodassero e biasimassero, gioissero e si dolessero nelle stesse occasioni». Attenzione. Questa non è un’immagine laica del Cristianesimo: è un’aberrazione, un delitto contro l’umanità. Infatti è la negazione dell’individualità umana, l’umiliazione dell’intelligenza della persona, la disumanizzazione della coscienza, l’omologazione perfetta, il nocciolo del più feroce e pericoloso totalitarismo.
Aristotele – diversamente dal suo maestro – dubitava della capacità dell’utopia comunista di portare la giustizia sociale, poiché chi ha in comune i beni è facilmente spinto a litigare con i suoi concorrenti nell’accesso a questi beni, mentre chi dispone di proprietà privata non corre rischi del genere. Inoltre egli sosteneva che l’origine della discordia non fosse da ricercare nella proprietà individuale, ma nel desiderio di possesso: «i desideri dell’umanità devono essere equamente distribuiti». È dunque la brama smodata di ricchezza il problema, non la ricchezza in sé. In questo Aristotele è decisamente vicino al Cristianesimo; mentre l’utopia comunista, oltre ad essere antiumana, è del tutto anticristiana.
È opinione fin troppo diffusa – ma erronea – che l’idea comunista abbia fondamenti condivisi con il Cristianesimo: ennesima menzogna dei comunisti, troppo facilmente presa per buona. A parte il fatto che Gesù invitava chi volesse seguirlo a liberarsi dei propri beni per non mantenere legami terreni che fossero di ostacolo alla missione di evangelizzazione, mentre il comunismo pretende di distruibuire i beni altrui, cioè le proprietà della classe sociale che detiene capitali o mezzi di produzione; a parte quindi una tale premessa, Cristo non ha mai fatto della povertà una condizione necessaria e sufficiente per la salvezza. La ricchezza può essere di qualche impedimento, ma non viene demonizzata: ciò che è pericoloso sono le cattive inclinazioni, le cadute nelle tentazioni che questa offre agli uomini. «Quod autem in spinis cecidit, hii sunt qui audierunt et a sollicitudinibus et divitiis et voluptatibus vitae euntes soffocantur et non referunt fructum», cioè «[il seme] che cade in mezzo ai rovi sono quelli che dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano trascinare dalle preoccupazioni, dalla ricchezza e dai piaceri della vita, così da non giungere a maturazione», leggiamo nel Vangelo secondo Luca (8,14). Non è la ricchezza di per sé ad essere fonte di male, è semmai il ricco che può essere stolto, come spiega Gesù: «Dixitque ad illos: “Videte et cavete ab omni avaritia, quia non in abundantiam cuiusquam vita eius est ex his quae possidet”», vale a dire «E disse loro: “Guardatevi e state lontani da ogni cupidigia, perché pur se uno si trova nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni”» (Luca 12,15).
È dunque l’avarizia, la cupidigia, la causa delle colpe dei ricchi, non tutti necessariamente stolti né dannati. San Paolo conferma a chiare lettere questa verità cristiana: «Radix enim omnium malorum est cupiditas, quam quidam appetentes erraverunt a fide et inseruerunt se doloribus multis», quindi «è l’attaccamento al denaro la radice di tutti i mali: per il suo sfrenato desiderio c’è chi ha deviato dalla fede e si è tormentato da se stesso con molte sofferenze» (Prima Lettera a Timoteo 6,10).
La proprietà può in sostanza rivelarsi perfino morale, se usata per fini buoni. La Chiesa, in armonia con questi principi che emergono dalla Sacra Scrittura, non ha predicato l’assoluta povertà, né demonizzato la proprietà privata o il possesso di ricchezze; magari ha perseguitato chi – fraintendendo volontariamente o meno la Parola di Dio – predicava un’eresia comunistoide, aspirando a una società egualitaria che abolisse la proprietà privata, come i Catari: un movimento di massa diffuso nella Francia meridionale, nelle Fiandre e in Lombardia nella seconda metà del XII secolo.
Da Rousseau a Marx: storia liberticida
Il pensiero egualitario raggiunge la sua forma più organizzata prima del marxismo con Jean-Jacques Rousseau. Egli nega che il progresso nelle arti e nella scienza abbia giovato agli uomini. La civilizzazione va quindi condannata perché ha allontanato gli uomini dall’originaria purezza. Il suo pensiero anti-razionalista lo porta a ritenere che lo stato perfetto dell’umanità sia stato quello della natura originaria, dove regnava la perfetta uguaglianza. L’uomo è infatti di per sé buono ed è la società che lo corrompe (questa è l’origine del famoso «mito del buon selvaggio»). In particolare la responsabilità delle disuguaglianze, delle ingiustizie e delle sopraffazioni è da imputare al riconoscimento della proprietà privata.
Per ripristinare la giustizia e l’uguaglianza Rousseau propone un nuovo contratto sociale (il titolo della sua opera maggiore, del 1762) che sostituisca alla volontà del più forte la volontà generale, per favorire il benessere di tutti e non di pochi. Questa volontà generale sarebbe espressa dall’assemblea di tutti i cittadini secondo un modello di democrazia diretta. Un simile modello sociale, che sembra garantire una vera democrazia e una giustizia autentica, è in realtà il primo grande inganno comunista prima dell’avvento del marxismo. Parla, infatti, di virtù e di bene collettivo mentre insegna il vizio del totalitarismo e nega i diritti della persona. Innanzitutto mancano gli elementi fondamentali della libertà degli uomini, che sono tipici della tradizione liberale: non ci sono infatti i diritti dell’individuo (fra i quali quello a possedere) e non c’è la separazione dei poteri, caratteristica di ogni vero stato democratico. Il modello di Rousseau è intimamente totalitario e liberticida perché questa esaltata volontà generale non coincide con la volontà dei singoli, ma è un’espressione collettiva che travalica i desideri degli individui in vista di un bene superiore. Per ottenere questa unanimità non servono le elezioni perché dalle urne emergono tanti singoli pareri, cioè tanti piccoli egoismi. La volontà generale si costruisce perciò facendo interiorizzare le regole sociali agli individui, così da farle vivere come un dovere etico e non come imposizioni. Questo interesse collettivo verrebbe così realizzato tramite l’adesione libera di ogni cittadino ai dogmi politicamente corretti, con un vero e proprio indottrinamento. Lo Stato ha quindi il diritto di sottomettere i cittadini perché questo atto di autorità è giustificato dalla ricerca del bene della collettività. L’individuo non ha alcun rilievo, quindi, nell’egualitarismo di Rousseau: le sue esigenze e i suoi desideri sono superati dall’interesse generale; la persona è schiacciata, annullata dal peso della collettività. Il soggetto personale non ha spessore, non ha diritti individuali. Il sistema sociale di Russeau è antiumano, proprio come il comunismo.
Questa teoria collettivista contiene gli embrioni dell’egualitarismo comunista e del buonismo che oggi pervade la nostra società post-moderna occidentale, impedendole spesso di distinguere fra il bene e il male, e condannandola ad un relativismo culturale che la rende incapace di difendersi dai nemici che la insidiano. Tutto ciò che è esotico – in particolare islamico – è buono, affascinante, magari migliore: in nome del mito suicida della multiculturalità l’Europa si sta preparando a diventare una provincia islamica. Naturalmente nemmeno questo è cristiano: il buonismo comunistoide è la forma patologica, degenerata, della bontà evangelica, che vuol dire comprensione e disponibilità, non asservimento. Il buonismo e i sistemi egualitari rappresentano la desolante deriva della decandenza di un’intera civiltà che aveva trovato nella saggezza antica e nell’identità cristiana le basi di una straordinaria cultura umanistica.
Nel radicalismo del pensiero illuminista francese troviamo dunque le origini delle follie totalitarie che hanno insanguinato gli ultimi secoli della storia umana. A cominciare dal regime giacobino, frutto degenerato della Rivoluzione Francese, per continuare con la violenta dottrina razziale del nazismo, fino al crimine comunista, tentativo scientifico di cancellazione della dignità umana. Il pensiero di Marx deve molto al collettivismo di Rousseau: anzi lo porta alle estreme conseguenze realizzando un progetto scientifico di distruzione della libertà degli uomini. Il comunismo è un sistema antiumano che si basa su tre negazioni: della proprietà privata, del libero pensiero, del cammino aperto della storia. A queste tre negazioni corrispondono tre atteggiamenti dell’ideologia: il collettivismo, l’autoritarismo e il fatalismo, dato che il percorso della storia è destinato a concludersi con l’inevitabile approdo alla perfetta società comunista, senza classi e senza Stato. Alla base di tutto ciò stanno la negazione della dimensione spirituale della persona e il rifiuto della religione, così da permettere all’ideologia di sostituirsi ad essa ottenendo dagli uomini la stessa devozione, alla quale far corrispondere come premio la conquista di un illusorio paradiso tutto materiale e terreno. La grande menzogna, che diabolicamente ha fatto considerare buono a tanti uomini ciò che era semplicemente criminale, ha attraversato i sogni utopici dei secoli passati; ma è stata elevata a sistema scientifico antiumano da un pensatore tedesco che si fece paladino di una rivelazione mortifera e ha sparso nella contemporaneità un tumore che si manifesta nelle vesti ingannevoli di una medicina che cura tutti i mali dell’umanità: Karl Marx. È questa infezione che dobbiamo curare, conoscendola per quello che è veramente. Per liberarcene.
Il marxismo è un errore atroce
Marx ha sbagliato tutto. A cominciare dalle previsioni sugli esiti certi della storia, sulla crisi inevitabile e l’altrettanto sicuro crollo della società borghese in favore dell’avvento del mondo comunista senza classi retto da un improbabile collettivismo. I difensori di Marx giungono a rendersi ridicoli di fronte a qualunque lettore o ascoltatore dotato di dieci grammi di intelligenza. Riescono perfino a sostenere che Marx sia stato un umanista, che abbia voluto liberare il mondo dalle catene del capitalismo, accusato di spingere, con la sua accumulazione progressiva, la classe lavoratrice fino alla rivoluzione.
Qualcuno ha perfino detto che, siccome in lui individuale e collettivo coinciderebbero, la proprietà collettiva dei mezzi di produzione salverebbe l’individualità della persona umana (Manacorda). Si giunge perfino a dire che nella negazione della religione ci sia una grande pietà umana verso gli individui, ridotti a rimandare le loro aspirazioni di giustizia e riscatto ad una dimensione escatologica spirituale. In realtà per la persona umana Marx non ha nessun sentimento, nessuna attenzione: per lui l’individuo è un oggetto della produzione, è irrimediabilmente legato alla dimensione del lavoro, unico elemento che dà senso alla storia e alla vita. Il demone della produzione.
Marx ha un concetto «dialettico» dello sviluppo della storia; e qui ci viene in aiuto Hegel, un tizio che, per chi ha studiato filosofia negli anni della scuola, ha significato ore di sudore che gocciola sul libro. Secondo Hegel ogni cosa si definisce passando per una sua negazione, dando inizio così a un processo di trasformazione che la porterà ad essere qualcosa di diverso alla fine. È il movimento perenne della storia, la vita stessa del mondo.
Il fatto è che per Hegel al centro dell’esistenza dell’universo c’è lo Spirito, cioè la ragione ultima delle cose finite, concrete. Ogni oggetto si definisce quindi in quanto parte di un tutto, si concepisce il finito giungendo all’infinito. Per Marx tutto questo è inutile. Per lui esiste solo il finito, il materiale, l’organico, l’oggetto. Gli ideali, l’attività spirituale, la religione, l’arte, la metafisica, il diritto sono infatti solo «sovrastrutture», elementi secondari dell’attività umana, orpelli, lussi.
Quello che conta è la «struttura», cioè l’attività produttiva, il lavoro. Perciò i rapporti umani che hanno un senso sono soltanto quelli economici, che si instaurano nel ciclo della produzione. La società ha sempre avuto una struttura derivata dai rapporti economici e, in base a questa sua natura, un carattere conflittuale. Si sono cioè sempre scontrate diverse «classi sociali», gruppi umani individuati in base alla loro attività e al loro ruolo. Sovrani e schiavi, nobili e borghesi, feudatari e servi della gleba, borghesi e proletari.
Il movimento dialettico della storia (in senso hegeliano) sta nel fatto che una classe dominante (sul piano economico e quindi sociale), dopo la sua affermazione (momento della «tesi»), viene messa in crisi dal sorgere di una nuova classe figlia di un diverso contesto produttivo e capace di sconvolgere i preesistenti rapporti sociali (momento della «antitesi»), fino all’affermazione di un nuovo modello socio-economico (momento della «sintesi») che rappresenta un ulteriore gradino dell’evoluzione storica. La dialettica di Hegel, che si rifaceva ad un movimento spirituale, viene ridotta a dimensioni esclusivamente materiali ed economiche.
Il pensiero di Marx è anche debitore della teoria dell’evoluzionismo di Charles Darwin (formulata nel 1859 nell’Origine della specie), secondo la quale la natura favorisce quegli organismi che meglio di altri si adattano a sopravvivere in determinate condizioni ambientali superando le difficoltà che tali condizioni presentano. In questo modo la natura «seleziona» gli organismi migliori, cioè più evoluti. Marx legge dunque la storia come un processo evolutivo «per gradi», da forme inferiori a forme superiori. Frederich Engels, compagno inseparabile di Marx per tutta una vita, nel suo discorso al funerale dell’amico, disse: «Come Darwin ha scoperto le leggi dell’evoluzione della natura organica, così Marx ha scoperto le leggi della storia umana».
Ma queste leggi, nel marxismo, non regolano un evoluzionismo aperto, cioè praticabile all’infinito. Il cammino della storia per Marx ha un punto di arrivo: l’ultima trasformazione dialettica sarà infatti quella che, in seguito alla crisi definitiva del capitalismo, darà la stura alla rivoluzione proletaria. In seguito a questa sollevazione si instaurerà un periodo di governo autoritario, definito «dittatura del proletariato», che sfocierà nell’avvento della società comunista vera e propria: senza classi sociali, senza Stato. Una società, dunque, nella quale il principio stesso dell’autorità, il concetto delle istituzioni e delle leggi, della legalità stessa, sarà interiorizzato dagli uomini, che non avranno più bisogno di un ordinamento giuridico che ne disciplini la vita sociale. Tutti proprietari dei mezzi di produzione, per cui ciascuno padrone. L’uomo sarà libero, non ci saranno più sfruttati né sfruttatori; il paradiso sarà in terra, tutti godranno non secondo i propri meriti, ma secondo i propri bisogni.
Insidioso inganno, richiamo pericoloso, meschino tranello per chi ha sete di giustizia. Non sarà infatti dissetato, ma ulteriormente tartassato proprio da quel nuovo sistema oppressivo nel quale aveva riposto le sue speranze. Senza conflitti la storia si ferma: i contrasti e le problematiche mettono infatti alla prova l’ingegno umano e l’impegno per risolvere i problemi fa progredire l’umanità. Ci sono miglioramenti e regressioni, progressi e infamie, successi e sconfitte, nella storia umana: ma questo cammino non ha fine, perché il suo traguardo è la perfezione, il cui possesso – in misure umane – è la sua ricerca.
Qualcuno ha il coraggio di dire che l’avvento del comunismo è la nascita e non la morte della storia, mentre quella in cui viviamo adesso sarebbe una sorta di preistoria. E invece no. Il mondo comunista è la perfezione ridotta a dimensioni materiali: e nella perfezione, in cui tutti sono giustamente trattati e non subiscono torti da altri, non ci può essere sviluppo ma solo la ripetizione e l’autocompiacimento. Non è il paradiso ma l’ultima, la definitiva prigione della persona umana, intrappolata nelle maglie dell’egualitarismo che non propone più sfide all’uomo, ma lo costringe all’immobilismo, all’atrofizzazione dei suoi slanci vitali. L’«uomo sociale» marxiano è un fossile, è un uomo morto. La dottrina di Marx distrugge la persona, la nega nel momento in cui le promette l’inserimento in un paradiso artificiale in cui non potrà più riconoscersi per se stessa.
Stefano Doroni
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