PAPA e gli EBREI

«Sono io l’orfano ebreo salvato da Wojtyla»


Come tanti orfani ebrei della Shoah adottati da genitori cattolici durante la guerra, anche il polacco Stanley Berger sembrava destinato a essere battezzato e a non fare mai più ritorno alla propria fede e cultura.

Ma a cambiare il suo già tragico destino fu un giovane prete della natia Cracovia, che si rifiutò di battezzarlo e ordinò ai genitori adottivi di restituirlo al suo ambiente d’origine. Quel sacerdote si chiamava Karol Wojtyla. Questa è una storia che ha rischiato di non essere mai raccontata perché, come tanti sopravvissuti all’Olocausto, anche Berger aveva cercato di seppellire il suo straziante segreto nei meandri più reconditi della propria coscienza. Tutto inizia nell’autunno del 1942, quando Helen e Moses Hiller, genitori di Berger, decisero di affidare il loro unico figlio (che allora si chiamava Shachne e aveva 2 anni) a una coppia cattolica senza figli che viveva nella zona tedesca della cittadina di Dombrowa. «Si chiamavano Yachowitch ed erano amici intimi dei miei» spiega Berger, che dopo anni di silenzio ha deciso di raccontare la sua storia al Corriere della Sera , tra i libri e documenti ingialliti della Shtetl Foundation di New York. Dopo l’irruzione nazista del 28 ottobre nel ghetto di Cracovia, quando migliaia di ebrei furono deportati nel campo di sterminio di Belzec e i malati degli ospedali e 300 bimbi degli orfanotrofi furono uccisi sul posto, gli Hiller si erano decisi ad agire.


«Il 15 novembre mamma era riuscita a portarmi fuori dal ghetto e ad affidarmi ai suoi amici cristiani, insieme a due grandi buste – incalza Berger -. La prima conteneva tutti i suoi oggetti di valore, l’altra tre lettere». La prima era indirizzata ai signori Yachowitch, ai quali dava in consegna il piccolo Shachne, istruendoli di educarlo come ebreo e di restituirlo al suo popolo in caso di morte dei genitori. La seconda lettera era indirizzata allo stesso Shachne: gli spiegava che era stato un amore profondo a indurre mamma e papà a metterlo in salvo presso estranei e gli rivelava le sue origini, augurandosi che crescesse orgoglioso di essere ebreo. La terza lettera, infine, conteneva il testamento di Reizel Wurtzel, madre di Helen, indirizzato alla cognata Jenny Berger a Washington.
«Nostro nipote Shachne Hiller, nato il 18 del mese di Av (il penultimo mese del calendario ebraico, ndr ), il 22 agosto del 1940, è stato affidato a brave persone – recita il documento -. Se nessuno di noi farà ritorno, ti prego di prenderlo con te ed educarlo rettamente. Queste sono le mie ultime volontà». Prima di congedarsi dagli Yachowitch, Helen consegnò loro i nomi e indirizzi di parenti – gli Aaron e i Berger – che abitavano a Montreal e a Washington. «Se non faremo ritorno, quando sarà finita questa follia – Helen istruì l’amica – spedisci loro queste lettere».


Il suo tragico presagio doveva avverarsi di lì a poco. Nel marzo del ’43 il ghetto di Cracovia fu liquidato. La città col primo insediamento di ebrei sul suolo polacco, risalente al XIII secolo, venne dichiarata Judenrein («libera da ebrei») e anche il destino dei genitori del piccolo Shachne si consumò poco dopo nei forni crematori di Auschwitz. Nello stesso periodo, anche gli Yachowitch dovettero fare i conti con la loro rischiosissima scelta. «Dal ’42 al ’45 eravamo costantemente in fuga, da una casa all’altra e da una città a un nuovo villaggio – rievoca Berger -. Molti polacchi ostili e antisemiti sospettavano, dal mio aspetto, che fossi ebreo e se ci avessero denunciati i miei genitori adottivi rischiavano la morte».
Un giorno, mentre si nascondevano in un silos, il piccolo riuscì a spiare, dalle crepe nelle pareti, due agenti della Gestapo che facevano razzia nella fattoria accanto, in cerca di ebrei. «Ero talmente paralizzato dalla paura che trattenni il respiro – rievoca -. Mia “madre” mi strinse forte al petto e riuscimmo a superare anche quell’ennesimo incubo». Sì, perché, nel frattempo, la signora Yachowitch si era affezionata tantissimo al bimbo e lo considerava come un figlio. E così pure suo marito che, nonostante fosse alcolizzato, non gli usò mai il minimo sgarbo o violenza. «Dopo la fine della guerra andavamo tutte le domeniche alla messa insieme – rievoca Berger – io non avevo la più pallida idea di essere ebreo e avevo imparato a memoria tutti gli inni cattolici».


Quell’amore materno, incondizionato ed eccessivo, di una donna che nonostante mille tentativi non era mai riuscita ad avere figli, si rivelò ancora più forte dell’amicizia. La Yachowitch dimenticò ben presto le promesse fatte a Helen e decise di far battezzare il bimbo, che voleva adottare ufficialmente e trasformare in un buon cattolico.
Andò da un giovane prete della sua parrocchia, ordinato da poco ma già con una reputazione di uomo saggio e giusto, e gli rivelò il terribile segreto sulla vera identità del piccolo e sul tragico destino dei suoi genitori. «Mamma, come la chiamavo allora, espresse il desiderio di farmi battezzare – spiega Berger – affinché potessi diventare un cattolico vero e devoto come lei». Il giovane parroco ascoltò con attenzione la donna e quando ebbe finito il suo racconto le domandò: «Qual era il desiderio dei genitori, quando affidarono il loro unico figlio a te e a tuo marito?». Quando la Yachowitch rivelò il contenuto del testamento, il giovane prete si rifiutò di eseguire la cerimonia. «Questo avveniva nel ’46 – spiega la professoressa Yaffa Eliach, storica e scrittrice, nonché fondatrice della Shtetl Foundation e una delle massime esperte mondiali di cultura ebraica – quando dal Vaticano giungevano indicazioni ben diverse per la sorte dei tantissimi orfani ebrei battezzati, che sono vissuti e morti senza mai conoscere le proprie origini, il futuro Papa ebbe il coraggio di dire no».
La Eliach è stata la prima a rivelare al mondo la storia di Berger. Che ha dato poi il via alla grande e inedita branca di studi che approfondiscono ciò che la Eliach definisce «lo straordinario filosemitismo di Wojtyla: il miglior amico degli ebrei negli ultimi duemila anni». Grazie al rigore morale del futuro Papa, il piccolo Shachne poté intanto partire per il Nord America, dove l’aspettavano i parenti materni. «Non fu un’impresa facile – racconta Berger -. La legge polacca proibiva agli orfani di lasciare il Paese e le norme sull’emigrazione canadesi e statunitensi non mi concedevano il visto. Così fui palleggiato per altri tre anni da un parente all’altro. Imparai a non affezionarmi mai ai posti e alle persone. Perché niente durava più di sei mesi». Alla fine, nel 1949, il Consiglio ebraico canadese riuscì a ottenere dal governo di Ottawa il permesso di fare entrare nel Paese 1.210 orfani. Tra questi c’era Shachne, l’unico polacco. Il 3 luglio del ’49, il transatlantico «Batory» getta l’ancora nel porto di New York. Dalla cabina numero 228, in prima classe, emerge il piccolo che non ha ancora compiuto nove anni e ignora ancora di essere ebreo. «Da questo momento in poi la mia odissea si è fatta ancora più rocambolesca. Senza visto americano fui costretto ad andare a vivere dalla zia Aaron a Montreal. Ma quando suo marito morì di cancro, finii in orfanotrofio e poi a casa di ricchissimi industriali, i Kertz, che mi ospitarono in attesa dei visto Usa».



Il 19 dicembre del ’50, dopo due anni di pressioni da parte di Jenny Berger, il presidente americano Harry Truman firmò un decreto speciale che assegnava Shachne Hiller ai Berger. «Erano passati più di otto anni da quando, nel ghetto di Cracovia, mia nonna aveva scritto il testamento. Alla fine il suo desiderio si era realizzato». Ma il giovane Shachne, che nel frattempo si era educato nelle migliori università ebraiche americane ed era diventato un ebreo osservante, marito devoto e padre di due gemelli, ignorava ancora un piccolo, grande dettaglio della sua storia. A rivelarglielo, nell’ottobre del ’78, fu la signora Yachowitch, con cui era rimasto in rapporti epistolari. «Per la prima volta, mi rivelava che aveva cercato di battezzarmi ed educarmi come cattolico. Ma che era stata fermata da un giovane prete, futuro cardinale di Cracovia, Karol Wojtyla, da poco eletto Papa».Quando il rabbino capo di Bluzhov, rabbi Israel Spira, apprese dalla professoressa Eliach questa storia, disse: «Le vie di Dio sono misteriose, meravigliose, sconosciute agli uomini. Forse è stato il merito di aver salvato quell’anima ebrea che lo ha condotto a essere Papa. È una storia che deve essere raccontata».


 di Alessandra Farkas (da Il Corriere della Sera 18.1.2005)