Dibattito sull’eutanasia, ambiguità senza precedenti
di Roberto Colombo
La domanda sull’eutanasia è una delle più antiche che il pensiero occidentale si è posto interrogandosi sul destino e la disponibilità della vita dell’uomo e sul dramma del dolore e dell’abbandono (volontario o familiare e sociale) nella solitudine della malattia cronica e degenerativa. Una domanda che costituisce da sempre un centro di gravità della filosofia morale e del diritto, attira a sé intelligenze credenti e “laiche” e inquieta la coscienza di chi vive – nella propria persona o in quella altrui – l’esperienza che la suscita. Nel dibattito contemporaneo, la questione dell’eutanasia ha però assunto un carattere di ambiguità senza precedenti, alimentato dall’uso ideologico di distinzioni nominalistiche aventi pretesa di normatività. Parole che sembrano foriere di soluzioni condivisibili ma rivelano, ad un esame critico, la loro debolezza di ragione. Senza ragioni adeguate, il consenso è fragile e ingannevole.
Un esempio è la riproposizione, in un’intervista de “La Repubblica”, della «differenza tra l’eutanasia passiva e quella attiva», differenza «profonda» che consentirebbe di distinguere eticamente lo «staccare una spina che tiene in qualche modo artificialmente in vita« dal «fare un’iniezione letale». Mentre la seconda azione manifesta ai più il suo carattere di inammissibilità in quanto palesemente uccisiva, l’omissione di un supporto medico-strumentale (“artificiale”) si configurerebbe invece di per sé come lecita. A ben vedere, la malizia o la bontà di un atto umano non dipende dal solo fatto di consistere rispettivamente in un’azione o in una omissione: vi sono azioni buone (come dare un bicchiere d’acqua ad un assetato) ed omissioni illecite (come non soccorrere un ferito dopo un incidente). Occorrerà dunque precisare se il comportamento dei sanitari che si intende legalizzare (sia esso un’azione o un’omissione) ha per scopo la cura della persona o la sua morte anticipata ed è medicalmente indicato per sostenere la vita del paziente fino al suo esito, senza mai per provocarne intenzionalmente la morte. Per questo è necessario tenere conto dello “proporzionalità” di tale comportamento rispetto allo stato fisico e psicologico dell’ammalato, al decorso della malattia, all’efficacia della terapia, alla risposta individuale dell’organismo e, non ultimo, all’informato e deliberato consenso del soggetto stesso o di chi, in sua vece, agisce per il suo vero bene. Inoltre, il ricorso al concetto di “artificiosità” non contribuisce alla semplificazione del dibattito: ben pochi sono gli interventi farmacologici, anestesiologici, rianimatori o chirurgici moderni che non creano nei pazienti stati fisici o psicologici “artificiali” ed il confine clinico della “naturalità” è sempre più difficile da tracciare.
Il criterio della “proporzionalità” o “ragionevolezza” delle cure da prestare al paziente per tutelare e promuovere sempre il bene della sua vita, e non quello dell’azione o dell’omissione, apre la strada ad un dibattito limpido che consenta di evitare sia l’accanimento terapeutico che quello tanatologico, ma anche di scongiurare il pericolo di un abbandono della cura dei malati negli ultimi passi della loro vita. Un abbandono clinico, affettivo e spirituale che è all’origine della questione sociale dell’eutanasia e affonda le sue radici nella debolezza della coscienza del valore fondamentale della vita dell’uomo, nonostante le sue circostanze drammatiche, perché dolcemente amata e abbracciata da Dio anche nell’ora della sofferenza e della morte.
AVVENIRE, Mercoledi 27 settembre 2006