Mussolini, Gramsci, l’Italia e il mito della violenza salvifica

L’ITALIA E IL MITO DELLA VIOLENZA “BUONA”

Socialismo massimalista, nazional-fascismo, comunismo gramsciano, azionismo: le moderne culture politiche sorte in Italia hanno ammesso liceità e necessità della violenza. Solo la cultura cattolica é esente da questa grave colpa. Lo ha riconosciuto uno studioso laico, Ernesto Galli della Loggia…

di Angela Pellicciari



In un editoriale del 27 aprile sul Corriere della Sera, Ernesto Galli della Loggia individua un filo rosso nella storia dell’Italia unita: la propensione alla violenza radicata nel mito della rivoluzione. Galli della Loggia non fa sconti alla storia patria ed afferma che la violenza è stata ritenuta «ammissibile (addirittura necessaria)» da «tutte le moderne culture politiche che hanno visto la luce nella penisola… : il socialismo massimalista, il nazional-fascismo, il comunismo gramsciano, l’azionismo».

A cominciare, come ovvio, dal momento dell’unificazione: quel Risorgimento che Galli della Loggia così descrive: «Sorti alla statualità da un moto rivoluzionario con alcuni tratti di guerra civile». Come i lettori del Timone sanno, il Risorgimento è stato proprio una guerra rivoluzionaria, giustificata all’estero e presso le élites liberali dei vari Stati preunitari, in nome della lotta al cattolicesimo nelle sua sede di elezione: Roma e l’Italia.

Si trattava di rifare gli italiani secondo criteri illuminati, condivisi all’incirca dall’1 % della popolazione e da questa imposti al restante 99. Rispetto a socialismo, fascismo e comunismo, il liberalismo ha però una peculiarità tutta propria: non rivendica mai il ricorso alla violenza. Ne fa uso sistematico e su larga scala, ma nega con decisione di praticarla. La rivoluzione liberale, vale la pena di ricordarlo, sopprime tutti gli ordini religiosi in nome della Costituzione. Ma la Costituzione stabilisce che la religione cattolica e l’unica religione di Stato. Il liberalismo toglie la libertà alla Chiesa, cioè agli italiani tutti, ma lo fa in nome della libertà.

Se il liberalismo pratica la violenza rivoluzionaria di fatto e non di diritto (Cavour organizza l’invasione di tutti gli Stati preunitari proprio per impedire -così sostiene -lo scoppio della rivoluzione), Socialismo, fascismo e comunismo teorizzano apertamente la bontà della violenza rivoluzionaria. Da questo punto di vista Mussolini e Gramsci sono fratelli gemelli.

Che le cose stiano così lo mostra in modo chiarissimo un dibattito che si svolge al la Camera dei deputati il 26 maggio 1925. È in discussione una legge fortemente voluta da Mussolini per abolire le associazioni segrete, prima fra tutte la massoneria. Quella seduta è l’unica che vede protagonisti Mussolini e Gramsci e riveste di per sé un estremo interesse. Interesse che diventa vivissimo se si entra nel merito degli argomenti affrontati, in particolare quello relativo all’uso rivoluzionario della violenza.

Ecco lo scambio di battute Mussolini-Gramsci: Mussolini: «A proposito di violenze elettorali io le ricordo [a Gramsci] un articolo di Bordiga [alto dirigente comunista] che le giustifica a pieno!».

Gramsci: «Non le violenze fasciste, le nostre. Noi si amo sicuri di rappresentare la maggioranza della popolazione, di rappresentare gli interessi più essenziali della maggioranza del popolo italiano; la violenza proletaria è perciò progressiva e non può essere sistematica. La vostra violenza è sistematica e sistematicamente arbitraria perché voi rappresentate una minoranza destinata a scomparire».

Prosegue Gramsci: «È molto probabile che anche noi ci troveremo costretti ad usare gli stessi vostri sistemi, ma come transizione, saltuariamente. Sicuro: ad adottare gli stessi vostri sistemi, con la differenza che voi rappresentate la minoranza della popolazione, mentre noi rappresentiamo la maggioranza».

Per Gramsci insomma c’è violenza e violenza: la sua e sicuramente buona. Quella degli altri, viceversa, cattiva. Perché? Perché la violenza comunista, cioè quella che rivendica, è, per definizione, progressista. Perché i comunisti, a suo dire, rappresentano «gli interessi più essenziali della maggioranza». Insomma, un atto di fede. Si è tanto parlato e scritto della violenza fascista, si è spesso taciuto di quella rivendicata da Antonio Gramsci, mitico fondatore del Partito Comunista italiano.

Per fede nella bontà dei propri ideali (e dei propri interessi) i liberali mettono a soqquadro l’Italia. Lo fanno nel nome della Costituzione e della libertà, negando la violenza di cui si rendono responsabili. Mussolini e Gramsci esplicitano le cose: l’uso della violenza è giustificato (ad onor del vero va specificato che la violenza fascista non è nemmeno lontanamente paragonabile a quella praticata dai comunisti ovunque sono andati al potere).

Come profetizza papa Pio IX fin dalla prima enciclica, il disprezzo liberale per le norme fondamentali dello Stato di diritto avrebbe inevitabilmente condotto ad un disprezzo ancora maggiore di tutti i principi del vivere civile: quello teorizzato dalla dottrina comunista. Pio IX scrive nella Nostis et nobiscum dell’8 dicembre 1849: «abusando dei nomi di libertà e di uguaglianza» i rivoluzionari «[…] cercano di insinuare nel volgo i funesti principi del socialismo e del comunismo. È evidente poi che gli stessi maestri del comunismo e del socialismo, sebbene agiscano per strada e con metodo diversi, hanno infine quel comune proposito di far sì che gli operai e gli altri uomini soprattutto di condizione inferiore, ingannati dalle loro menzogne e illusi dalla promessa di una vita migliore, si agitino in continue turbolenze e a poco a poco si addestrino a più gravi misfatti; intendono poi valersi dell’opera loro al fine di abbattere il governo di qualunque superiore autorità, di rubare, saccheggiare, invadere dapprima le proprietà della
chiesa e poi quelle di chiunque altro; di violare infine tutti i diritti divini e umani, distruggendo il culto divino e sovvertendo l’intera struttura delle società civili”. Pio IX cosi prosegue: «[…] da quella cospirazione non potrà derivare la benché minima utilità temporale per il popolo ma piuttosto nuovi aumenti di miserie e di sventure. Infatti non è concesso agli uomini fondare nuove società e comunioni in contrasto con la naturale condizione delle cose umane; perciò l’esito di tali cospirazioni, qualora si diffondessero per l’Italia, non potrebbe essere altro che questo: indebolito e sgretolato dalle fondamenta l’odierno ordinamento pubblico per le reciproche aggressioni, usurpazioni e stragi, di cittadini contro cittadini, alla fine alcuni pochi, arricchiti con le spoglie di molti, prenderebbero il sommo potere a comune rovina”.

Galli della Loggia ha ragione: tutte le «moderne culture politiche che hanno visto la luce nella penisola», sono intrise del mito della violenza salvifica: la violenza rivoluzionaria. Ad esse fa eccezione la cultura cattolica, che è la cultura della maggioranza della popolazione: «A livello di massa, in pratica, ha fatto eccezione solo la cultura politica cattolica. Se non ci fosse stata la quale, come si sa, è probabile che non ci sarebbe stata neppure l’Italia democratica che invece abbiamo avuto».

Galli della Loggia descrive un dato di fatto. Chissà se qualcuno ne prenderà atto.

IL TIMONE, anno IX – Luglio-Agosto 2007