Moschea a Bologna: non solo luogo di culto, c’è anche la politica

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Intervista a P. Samir Khalil Samir

CITTÀ E MOSCHEE


La prima domanda è perché si fa una moschea: per permettere ai fedeli di pregare e ritrovarsi, o è piuttosto per una questione di prestigio? In questo secondo caso, infatti, lo scopo diventa politico…

Il problema non è la moschea, ma ciò che sta dietro ad essa. Lo scopo è che la moschea (e l’imam che la guida) aiutino i fedeli musulmani a costruire, insieme alla gente circostante (cristiani, ebrei, non-credenti), una comunità civile cittadina. Tutto ciò che va in questo senso è benvenuto, ciò che va in un’altro senso è da scartare». Lo afferma il professor Samir Khalil Samir.

A Bologna si sta discutendo la costruzione di una moschea richiesta dall’Ucoii. Cosa ne pensa di strutture di questo genere nel nostro Paese?

La prima domanda è perché si fa una moschea: per permettere ai fedeli di pregare e ritrovarsi, o è piuttosto per una questione di prestigio? In questo secondo caso, infatti, lo scopo diventa politico. Lo dico perché attraverso le moschee si tende oggi ad affermare la propria presenza, a dire «siamo potenti, visibili». Questo è tanto più verosimile quando dietro alla richiesta sta l’Ucoii, associazione sostenuta da un’organizzazione internazionale lautamente finanziata dall’Arabia Saudita. In Egitto ogni cosa riconducibile all’ Arabia Saudita è fatta per il prestigio. Alla necessità di un luogo di culto e preghiera rispondono meglio non una moschea di 6 mila metri quadrati, ma piccole cappelle (musallâ) nei quartieri, vicine alle persone, come già si fa in molte città dei Paesi musulmani. Se l’interesse è «pastorale», la prima cosa da fare sarebbe un’indagine statistica per sapere dove è necessaria la moschea e quanto deve essere grande.

La moschea può favorire l’integrazione nel tessuto sociale e culturale locale?

Questo impegno dovrebbe essere condizione indispensabile per la realizzazione del progetto di una moschea. La difficoltà che vedo nei miei amici musulmani è, infatti, quella di trovare un’armonia tra l’essere musulmani e l’essere italiani, di imparare a vivere la propria fede nel contesto europeo, nella mentalità e nella cultura europea. Un compito delicato che spetta all’imam, il responsabile della moschea aiutare a realizzare.

Quali consigli dà alle amministrazioni locali per gestire la richiesta di una moschea?

La prima cosa è informarsi su chi fa la richiesta: se questa viene dalla comunità locale è segno di un’esigenza più sentita, se è invece fatta da un’organizzazione nazionale o sovranazionale allora sottende un progetto più ampio che non guarda all’interesse concreto delle persone del posto. La seconda cosa è informarsi sull’imam. Se questi non ha assimilato la lingua e la cultura del paese in cui vive, come farà a guidare la comunità verso un’integrazione? Spesso, purtroppo, ho notato che l’imam sa poco la lingua del Paese, o se la conosce rigetta comunque di questi la cultura, definendola anti-musulmana oppure atea. In questo caso non sarà la persona giusta per aiutare i giovani a vivere la doppia realtà spirituale e civile che sono invece chiamati a gestire. Se lo scopo è aiutare i musulmani a «diventare» italiani, non credo che l’Ucoii sia tra le organizzazioni più adatte, in quanto ha un progetto politico molto diverso.

E il parere dei cittadini?

Il confronto con la cittadinanza è indispensabile. Se la gente del luogo, per qualche motivo, è contraria alla moschea, non la si può liquidare, semplicisticamente, come fanatica. Nell’attuale realtà sociale, la comunità autoctona è di fronte a gruppi nuovi, ciascuno dei quali suscita ad essa una difficoltà. Agire con progetti calati dall’alto significa esporsi ad una più che verosimile crisi di rigetto. L’amministrazione deve tenere in conto la reazione della popolazione, anche se questa dovesse sbagliare, e prendere sul serio le obiezioni. Suo compito sarà creare una comunità ben integrata, creare le condizioni per un dibatto sereno. Dal canto mio penso che piccoli progetti di vicinanza a livello di quartiere, le «cappelle» cui prima accennavo, funzionino meglio di una moschea: vengono viste meglio dalla gente rispetto a una grande costruzione finanziata da una realtà esterna.

Lei ha affermato più volte che nella cultura musulmana, dove non c’è distinzione tra fede e politica, le moschee sono anche luoghi di confronto e azione sociale. Ci sono dei rischi?

Tutte le guerre e le ribellioni nel mondo musulmano sono partite dalla moschea, il venerdì, giorno di raduno dei musulmani, dopo la khutba, il «discorso del mezzogiorno». Per questo è necessario un comitato di garanzia esterno, previsto peraltro dal governo in quasi tutti i paesi musulmani. Al Cairo, che è il più popoloso Paese musulmano arabo, tutte le moschee sono sorvegliate, e le più importanti circondate dalla polizia speciale; nelle moschee dei «barbuti», sono posizionate persino delle televisioni a circuito chiuso. Il controllo è necessario e deve aiutare via via le persone ad entrare nella mentalità italiana relativa ai luoghi di culto, dove c’è una netta distinzione tra azione politica e atto religioso.

Quali caratteristiche deve avere il comitato di garanzia?

Il comitato di garanzia previsto dovrà anche vigilare sulla discriminazione nei confronti delle donne, derivata da una certa lettura del Corano. E’ assolutamente necessario che del Comitato facciano parte anche donne musulmane, purché non siano di formazione salafita (tradizionalista), un ambito culturale che ha come presupposto proprio un’ammissione di inferiorità rispetto all’uomo.

Non solo luogo di culto: c’è anche la politica

La moschea non è una «chiesa» musulmana; è il luogo dove la comunità si raduna, per esaminare tutto ciò che la riguarda: questioni sociali, culturali, politiche, come anche per pregare. Tutte le decisioni della comunità si prendono nella moschea. Volerla limitare a «un luogo di preghiera» è fare violenza alla tradizione musulmana. Il venerdì è il giorno in cui la comunità si ritrova. Si raduna a mezzogiorno per la preghiera pubblica, seguita dalla khutbah, cioè il discorso, che non è una predica. Nella khutbah vengono approfondite la questioni dell’ora presente: politiche, sociali, morali ecc. Le decisioni politiche partono dalla moschea, durante la khutbah del venerdì. Lo jihâd, cioè «la guerra sul cammino di Dio», è proclamata sempre nella moschea, alla khutbah del venerdì. In alcuni Paesi musulmani il testo della khutbah dev’essere presentato prima alle autorità civili visto che gli imâm sono funzionari statali. È dunque scorretto, parlando della libertà di costruire moschee, farlo in nome della libertà religiosa, visto che la moschea è una realtà multivalente. Non si deve poi dimenticare che il luogo dedicato alla preghiera del venerdì è considerato dai musulmani spazio sacro e rimane per sempre appannaggio della comunità, la quale decide chi ha facoltà di esservi ammesso e chi invece lo profanerebbe. Per questo motivo non si può prestare un terreno per 50 anni, per esempio, per edificarvi una moschea; questo terreno non potrà mai più essere reso.
Samir Khalil Samir su «La Civiltà Cattolica » (17 marzo 2001)

di Stefano Andrini
Avvenire – Bologna7 Venerdì 29 giugno 2007 Numero 26