Intervento presso il Centro Congressi dell’Unione Industriale di Torino alla presentazione del libro di Joseph Ratzinger ora S.S. Benedetto XVI
“L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture”
1. Inizio la mia riflessione da una domanda che trovo formulata a pag. 95, e che mi sembra attraversa tutte le pagine del libro: «In che modo possiamo raggiungere il nostro destino realizzando cos’è la nostra umanità?». Fu Socrate a piantare per primo questa domanda nell’humus della coscienza occidentale: «non il vivere è da tenere in sommo conto, ma il vivere bene».
La cultura occidentale alla domanda suddetta aveva risposto; realizziamo la nostra umanità vivendo secondo regione; viviamo bene se viviamo ragionevolmente.
Il problema vero, reale, inizia però quando iniziamo a dare un contenuto alla parola “ragione” e corrispondentemente alla formula “vivere ragionevolmente”. Che cosa significano realmente? Secondo la diagnosi offerta alla nostra riflessione nel libro che stiamo discutendo, quelle parole veicolano due significati fondamentali.
Il primo significato denota quell’approccio alla realtà che definisce il sapere scientifico moderno: la ragionevolezza scientifica – la modalità con cui la ragione umana si esercita nell’impresa scientifica – tende ad esaurire l’intero campo semantico della ragionevolezza come tale. Il tempo a nostra disposizione e il carattere di questo nostro incontro non ci consentono di fermarci lungamente ad approfondire questa “curvatura di significato” avvenuta nell’esercizio della ragione, propria della cultura occidentale. Mi limito solo a dire che questa ragione si pensa come dotata di due proprietà fondamentali così indicate nel testo: «Fa parte della sua natura, in quanto cultura di una ragione che ha finalmente completa coscienza di se stessa, vantare una pretesa universale e concepirsi come compiuta in se stessa, non bisognosa di alcun completamento attraverso altri fattori culturali» [pag. 43-44]. In breve: una razionalità che genera una cultura finalmente universale; una razionalità così compiuta in se stessa da non aver bisogno di alcuna radice fuori di sé [cfr. pag. 46].
Il secondo significato veicolato dal termine “ragione” e corrispondentemente dalla formula “vivere ragionevolmente” è di più difficile individuazione e formulazione. Forse ciò è dovuto al fatto che esso ha a che fare col nostro vivere quotidiano in maniera più diretta e profonda. Nella sua individuazione mi distacco per un momento dal testo, ma per ritornarci subito.
Richiamo la vostra attenzione su due fatti, uno che accade nella nostra vita personale, l’altro nella nostra vita sociale.
Di fronte ad una malattia grave che può colpirci, noi possiamo farci e normalmente ci facciamo due domande fondamentali che sono profondamente diverse. La prima è del tipo: perché mi sono ammalato? Nel senso che ricerco le cause del fenomeno morboso in ordine ad una terapia efficace. La seconda è del tipo: che senso ha il fatto che io sia ammalato? È la domanda se e come un fatto come la malattia possa essere vissuta dentro ad un progetto di vita buona.
Proviamo per un momento a confrontare brevemente le due domande e le due risposte corrispondenti. Mi limito ad alcuni elementi del confronto. La ricerca della risposta alla prima domanda è tendenzialmente orientata verso una separazione del fatto morboso dalla persona che ne è colpita. Al punto tale che la risposta oggi è sempre più cercata attraverso una strumentazione tecnica assolutamente impersonale. La ricerca invece della risposta alla seconda domanda coinvolge profondamente la persona che la pone, poiché ciò che è “questionato” è la persona stessa che domanda; è il senso della sua vita.
La prima domanda è un problema; la seconda è un mistero. Proviamo ora a chiederci: ogni domanda sensata è un problema? Oppure esistono domande sensate che introducono nel mistero? Si faccia bene attenzione che ho detto «sensate». Per domanda sensata intendo una domanda la cui risposta può essere giudicata vera o falsa [e non semplicemente: utile, interessante, e così via].
All’interno di quella “curvatura di significato” subita dalla ragione nella cultura occidentale non c’è dubbio che solo il primo tipo di domanda è ritenuta sensata [nel senso suddetto]; che le risposte alle altre domande non possono essere né vere, né false: sono mere convinzioni soggettive inverificabili; che esiste una tendenza a considerare le domande umane sempre più come problemi da risolvere che misteri da investigare e venerare.
E vengo al secondo fatto, quello che accade nella vostra vita associata. Dire che in ogni società umana, dal matrimonio alla società internazionale, ci sono conflitti , è dire un’ovvietà. Le cose si fanno meno ovvie quando cominciano a notare che esistono tre tipi di conflitto: di interessi; di identità; di valori. Fra il primo tipo di conflitto e gli altri due esiste una differenza essenziale: il primo accade sul piano dell’avere; il secondo e il terzo accadono sul piano dell’essere. Di conseguenza, mentre il conflitto di interessi viene risolto, ed in linea almeno di principio è sempre risolvibile, attraverso la negoziazione; i conflitti di identità e di valori non possono essere risolti attraverso la negoziazione, non sono affatto di sicura soluzione e possono portare a veri e propri conflitti e scontri di civiltà. Non procedo oltre, per ragioni di tempo, nella descrizione di questo fatto.
All’interno di quella “curvatura di significato” subita dalla ragione nella cultura dell’Occidente, la soluzione dei conflitti di secondo e terzo tipo è andata nel senso – né poteva essere diversamente – di quella che potremmo chiamare la neutralizzazione del concetto di giustizia.
La soluzione è stata: viviamo la nostra vita associata come se non avessimo e non ci fossero fra noi conflitti di identità e di valori. Ma per questo, le proprie [del singolo e/o della comunità] concezioni di vita buona devono essere escluse dalla vita pubblica e rinchiuse nel privato; così che la vita associata sia costituita da regole che si giustifichino neutralmente nei confronti di qualsiasi visione della vita: al limite, regole meramente procedurali.
Se confrontiamo ora l’esito cui ci ha condotta la sia pur breve riflessione sul primo e sul secondo fatto, vediamo che in fondo è identico.
È la “cifra” fondamentale della condizione spirituale dell’uomo contemporaneo: lo sradicamento [nella densa prefazione al libro il prof. Pera parla di separazione]. L’uomo contemporaneo è un uomo sradicato perché non più fondato sulla realtà; perché privato progressivamente di ogni fondamento veritativo circa “la possibilità di raggiungere il proprio destino realizzando ciò che è la sua umanità”. Si è realizzata la constatazione di T. S. Eliot: «il genere umano non sopporta troppa realtà». E l’itineranza umana – homo viator – ha assunto sempre più la figura del vagabondaggio perdendo progressivamente quella del pellegrinaggio.
L’Europa aveva iniziato il suo pellegrinaggio attraversando Atene verso la Gerusalemme dei profeti, e da questa verso la Gerusalemme del Golgota e del giardino della Risurrezione. Non camminando più lungo questa strada, l’identità della persona si è dissolta: l’identità del matrimonio, della famiglia, della società.
Ora penso che siamo in grado di completare la nostra risposta alla domanda da cui siamo partiti [e così ritorniamo al libro che stiamo commentando], e che era la seguente: quali sono i significati veicolati realmente da parole come “ragione” e “vivere ragionevolmente”? Ed abbiamo detto: se non andiamo errati, le pagine che stiamo meditando rispondono che sono due
Il primo: “ragione” significa l’approccio alla realtà realizzato dall’impresa scientifica; il secondo: “vivere ragionevolmente” significa accettare di progettare il proprio vivere «tamquam si veritas non daretur», di esercitare la propria libertà «tamquam si bonum non daretur», di convivere con gli altri «tamquam si unum non daretur».
2. Vorrei ora, sempre alla luce delle pagine che sto commentando, pormi una seconda domanda, che mi sembra sia costantemente presente nel libro: la proposta fatta dalla “cultura illuministica” è praticabile? È una risposta praticabile alla domanda che abbiamo posto fin dall’inizio, “in che modo possiamo raggiungere il nostro destino realizzando ciò che è la nostra umanità”?
Non pongo la domanda radicale sulla sua verità/falsità della risposta, ma sulla sua praticabilità. Cioè: traduciamo quel concetto di razionalità in principio e fondamento del vivere personale e sociale, e vediamo che cosa accade, anzi ci accade. Questo intendo quando parlo di praticabilità/impraticabilità [è la prospettiva che troviamo a pag. 18-20 (contributo Pera) e a pag. 32-33 (contributo Ratzinger)]. Mi limito a rispondere con due serie di considerazioni, ambedue ispiratemi dal libro in esame.
La prima nasce dalla seguente profonda constatazione: «Egli [= l’uomo] non è più altro che immagine dell’uomo – di quale uomo?» (pag. 31). Ecco: questa è la domanda di fondo.
La “cultura illuministica” divenendo progetto di vita, implica l’elevazione della libertà a valore assoluto ed incondizionato “quo maior cogitare nequit”. Assoluto, cioè slegato ed indipendente da qualsiasi pre-supposto; la misura dell’agire dell’uomo è data dalla sua capacità, verso una tendenziale coincidenza del “saper fare” col “poter fare”. Ma come ne esce l’esercizio della propria libertà praticando questa prospettiva? Che ne è della propria libertà quando si rende impensabile qualsiasi criterio assoluto di giudizio delle sue scelte?
La verità circa il bene della persona, la possibilità di scriminare fra il “vivere” ed il “vivere bene” può essere negata in due modalità toto coelo diverse. Posso negare la verità sul bene della persona quando colla mia scelta libera la respingo dopo averla riconosciuta. Posso negarla semplicemente perché mi attribuisco il potere di decidere io ciò che significa “vivere bene”.
Nel primo caso l’esercizio della libertà è un esercizio di grande intensità drammatica; nel secondo caso la libertà si riduce ad essere un esperimento continuo, non “al di là”, la “al di qua” del bene e del male. Questa affermazione della libertà non finisce col privare la persona di ogni gusto di esercitarla?
Vorrei ora fermarmi sulla seconda considerazione, poiché essa è presente in vari modi in quasi tutte le pagine del libro. Ne trovo una formulazione particolarmente felice nel contributo di Pera «Qui si sconta il limite della “grande divisione”. Non è vero che la separazione delle sfere – scientifica, giuridica, morale, religiosa – garantisca sempre equilibrio e non produca mai contrasti fra esse. È vero il contrario: che spesso la libera azione in una sfera interagisce negativamente con la libera azione in un’altra. Se Dio è espunto dalla sfera scientifica, la religione è espunta dalla vita dell’uomo. Se la morale è espunta dal diritto, i valori sono espunti dalle nostre leggi. Se la scienza e la tecnica sono garantite senza limiti, il progresso può essere cieco e distruttivo» [pag. 19-20]. Mi limito a considerare l’espunzione della morale dal diritto, col permanente pericolo di espellere i valori dalle nostre leggi.
Devo fare un premessa di importanza fondamentale. La critica che farò non significa critica ed ancor meno rifiuto di quei valori e principi che la proposta criticata intende tutelare e promuovere. Quei valori e principi sono indiscutibili: il valore delle libertà civili, religiose, economiche, di ricerca scientifica ed artistica; il valore della distinzione netta fra reato e peccato: non si deve sanzionare la legge morale colla legge penale statale, se non là dove ciò è richiesto dalla sussistenza stessa della società [es. omicidio, furto …]; il valore della pacifica convivenza fra opposte concezioni di vita buona; il valore del ricorso al criterio maggioritario. La prospettiva della mia riflessione è un’altra.
Quando I. Berlin scrive che nessuna società, per quanto pluralista voglia essere, non può essere ugualmente ospitale verso tutte le concezioni di vita buona, pone o non pone un problema reale? Quei valori saranno salvaguardati a lungo termine dalla “grande divisione”, dalla radicale neutralizzazione del concetto di giustizia?
La mia risposta è negativa, a causa dell’inconsistenza teoretica e della impraticabilità esistenziale della dottrina della neutralità completa dello Stato verso ogni concezione di vita buona.
Inizio dal mostrarvi l’inconsistenza teoretica. È teoreticamente inconsistente una proposta quando è in se stessa contraddittoria, nel senso che non è in grado di accogliere in sé tutta la portata dei suoi assiomi. Più brevemente: la neutralità – imparzialità può essere più affermata che mantenuta.
(a) Essa implica una precisa concezione di vita buona che trova nell’autonomia dell’individuo, come ho già detto, il suo valore di base. La proposta cioè non è neutrale – imparziale fino al punto da giudicare imparzialmente, da essere neutrale di fronte alla proposta autonoma o alla proposta eteronoma [la proposta cristiana ed ultimamente quella ebraica non è né di auto-nomia né di etero-nomia].
Il concetto-valore di autonomia è un concetto da usare con molta cautela critica in questo contesto, poiché nel momento in cui lo si afferma come “metodo”, non raramente lo si propone di fatto come “contenuto”. Si pensi alla giuridica equiparazione fra matrimonio e convivenza omosessuale, per fare solo un esempio. Essa viene non raramente giustificata colla teoria che stiamo discutendo. In realtà l’equiparazione è surrettiziamente la scelta di una precisa concezione di matrimonio e famiglia.
(b) All’interno di questa proposta è stata elaborata la categoria di tolleranza. Ora il concetto stesso di tolleranza connota un atteggiamento non di neutralità imparziale verso le concezioni di vita buona tollerate. La tolleranza connota un giudizio negativo o comunque non favorevole nei confronti di concezioni, soprattutto se aggressive, in contrasto con i valori della vita giusta intesa come sopra.
Se si vuole parlare-pensare coerentemente di neutralità ed imparzialità della condotta pubblica nei confronti di tutti, bisognerebbe bandire l’idea che esista, e possa/debba esistere un gruppo tollerante di cittadini ed un gruppo tollerato, discriminati in base alle loro concezioni di vita buona. Le seconde in sostanza non sarebbero più trattate imparzialmente.
Come si vede, quindi, la neutralità proposta finisce col contraddirsi.
(c) Perché la separazione di cui stiamo parlando sia pensabile, è necessario che la giustificazione razionale delle norme di giustizia non sia desunta da nessuna concezione particolare di vita buona: neutralità nelle giustificazioni.
Ma una tale posizione è impossibile in quanto qualsiasi tipo di giustificazione, di argomentazione deve far riferimento ad un quadro ideale d’insieme, ad una visione dell’uomo. Solo un “sistema etico” particolare e quindi “parziale” può essere alla base di questa proposta, che stiamo discutendo, contro i suoi presupposti fondamentali.
(d) Resta, e lascio intenzionalmente inevaso il problema in realtà di base, e cioè la tesi dell’agnosticismo etico e quindi il giudizio dato sulle concezioni della vita buona come razionalmente ingiudicabili.
Ma ora vorrei mostrare che non solo questa proposta è teoreticamente inconsistente, ma è anche non praticabile. In un duplice senso: di fatto nessuno Stato la pratica “allo stato puro”; non è augurabile che sia praticata.
Riguardo al primo significato di impraticabilità rimando semplicemente all’argomentazione c) di sopra. Ed aggiungo che la nostra Costituzione, il patto fondamentale cioè della nostra convivenza civile e politica, veicola un preciso quadro di valori e di principi. E non può che essere così. La Costituzione deve trascendere la politica, altrimenti come potrebbe orientarla?
Vorrei invece fermarmi più a lungo sul secondo significato. L’idea di fondo, la tesi che sostengo, è la seguente: tra le diverse forme di vita sociale e i diversi stili di vita personale lo Stato deve privilegiare e favorire quelli che creano e custodiscono valori sociali [«capitali sociali»: Donati – Zamagni – Belardinelli], a preferenza di quelle forme e stili che non li costituiscono o li usurano.
Questa tesi, come risulta chiaro da quanto ho detto finora, è recisamente contraria alla teoria e alla pratica della neutralità come principio guida di qualsiasi azione che abbia rilievo pubblico. In questo senso dico che non è da augurarsi che la neutralità sia praticata. E «sono propri i problemi che dobbiamo fronteggiare a seguito della crisi del Welfare State e dell’asse individuo-Stato a spingerci verso il superamento del principio di neutralità e dell’idea che sta alla base, secondo la quale i diritti sarebbero da intendere esclusivamente come diritti individuali» [S. Belardinelli, L’idea di Welfare community, in (a cura di) S. Belardinelli, Welfare community e sussidiarietà, Egea ed., Milano 2005, pag. 18].
3. Concludo. Penso che la più grande metafora della condizione attuale – di ciò che essa è, e delle sue prospettive – sia stata creata da T.S. Eliot nel dramma The rock – La roccia.
È la descrizione della costruzione di una/della Chiesa nella terra desolata: opera costruttiva in controtendenza in uno spazio dove regna la sterilità del pensare e dell’agire, tanto grande che anche aprile è divenuto «il più crudele dei mesi». È in fondo la metafora dell’utilità della Chiesa nella società contemporanea.
Ad un certo punto uno dei costruttori dice al suo compagno di lavoro: «tu non hai bisogno di credere in Dio, hai bisogno di credere nella costruzione». Non è la negazione dell’esistenza di Dio che qui si propone, ma la necessità di una Sua vera collocazione nell’esistenza umana: se il Signore non ha nulla a che fare, non è causa della ricostruzione del vivere umano, è vana la fede in Lui. Se il cristianesimo è un “dopo-lavoro”, è insignificante.
In che modo Dio può diventare il fattore della ricostruttività dell’agire umano rendendo fecondi anche i grembi sterili della nostra post-modernità? Almeno in due modi, che presento assai brevemente.
Il primo modo consiste in un grande lavoro educativo. La più grave emergenza è quello sfacelo educativo in cui ci troviamo. Ma non esiste nessun impegno educativo serio che non parta da una tradizione culturale da proporre come interpretazione della realtà al rischio della scelta di chi è educato; che non proponga una forte identità capace di interrogare l’uomo che si vuole educare. Lo sfacelo educativo consiste nell’aver reso impossibile la domanda sul mistero, è possibile solo porre problemi. Pensare di poter educare azzerando ogni identità, è semplicemente pensare che il deserto sia il terreno dove può fiorire la vita. I vigili possono regolare il traffico, ma non ti possono dire da dove vieni e dove hai intenzione d’andare.
Il secondo modo è più profondo. La nostra identità culturale è in larga misura generata dal cristianesimo: Francesco è stato inviato a ricostruire the Rock all’interno di un incontro con Cristo.
Solo uomini e donne che hanno vissuto quest’esperienza, sapranno dare il coraggio di continuare a credere nella costruzione, perfino a chi non crede ancora al Costruttore. Come scrive C. Milosz: Abbiate comprensione per gli uomini dalla fede debole./ Io un giorno credo, e l’altro non credo./ Ma per me è bene nella folla che prega./ Poiché essi credono mi aiutano a credere/ in loro proprio l’esistenza di esseri insondabili. «Soltanto attraverso uomini toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini».
Mons. Caffarra, Arcivescovo di Bologna
16 gennaio 2006