Modernità dirompente erode i vincoli più Sacri

MADRI CHE UCCIDONO I FIGLI

Di Marina Corradi

Questa volta è accaduto a Roasio, in provincia di Vercelli. Matilda, due anni, è morta, e sua madre Elena è accusata di omicidio volontario. Qualche mese, fa, era toccato a Casatenovo, in Brianza. Mentre l’eco di Cogne non si è ancora del tutto spenta. A intervalli sempre più brevi compaiono sulle cronache i nomi di tranquilli e spesso sconosciuti paesi, angoli di provincia dove non è successo mai niente e la gente vive in pace: dove un bambino ora è morto, e i giudici, di quella morte, accusano la madre.

Che a volte crolla subito, e confessa, come non reggendo un istante di più quel ricordo da sola – e allora le cronache s’interrompono subito, il caso è chiuso, e non c’è più niente da raccontare – almeno, sulle pagine di un giornale. A volte invece queste madri si difendono tenacemente, la famiglia arroccata in difesa: non sono state loro, è stata una rapina, un predatore, è stato insomma il Male, venuto da fuori, a prendere il bambino. Anche la madre di Matilda, una giovane hostess, nega disperatamente. Da poco separata, nel week end della tragedia era con un amico. La bambina era nervosa e intrattabile. L’autopsia le ha trovato fegato e reni spappolati. Sulla schiena, l’impronta di una scarpa, come di un calcio. Secondo gli inquirenti, coinciderebbe con la suola di quelle che portava quel giorno la madre.
E qui si resta muti. Forse è un errore, magari non è vero, si spera. Scatta lo stesso istinto che per Cogne: non volere credere. Le madri che uccidono i figli non esistono, o, se esistono, sono in quel momento in preda ad altro da sé, anime oscure di cui nulla sanno. Una folle, una depressa può uccidere un figlio, ma una donna sana di mente mai, andrebbe contro la sua stessa natura. Così ragioniamo, difendendo quelle madri, e in realtà anche noi stessi dall’angoscia che morti come queste sollevano.
Ma ci sono elementi che è venuto il tempo di guardare in faccia. Il numero degli infanticidi è in Italia aumentato, dal 1993 al 2003, del 41%. Un incremento che per un grande navigatore della psiche umana come Vittorino Andreoli non si può sempre mettere in conto alla malattia mentale, ma alla crescente incapacità di alcune donne di fare fronte alla fatica della maternità, in famiglie precarie, o isolate, o divise. Genitori magari adulti, ma intimamente “bambini” e narcisi, in cui il bambino vero viene visto solo come un ostacolo alla vita di “prima”: niente più vacanze dell’ultimo minuto, cene fuori, molti soldi in meno, e finita la libertà, finita quell’adolescenza che altrimenti dura ben oltre i trent’anni. E soprattutto per la madre, che è in difficoltà col lavoro, perde – e lei sola – terreno e competività. Perde in bellezza: si lamentava, la mamma di Casatenovo, di ritrovarsi sformata, lei che prima andava in tv.

Accade sempre a donne sole in casa, a pensarci. Oppure, come a Roasio, a donne rimaste sole nella vita. Belle, giovani, col desiderio di ricominciare. E la bambina che piange, piange, nella casa non sua, con quell’uomo che non conosce. L’ira cieca. Lo scatto furioso. Poi, una registrazione telefonica: “Matilda, cosa ti ho fatto, in nome di Dio, amore?”.

Come un sussulto atroce: cosa ho fatto. Atroce nel dolore e nella lucidità. E se ciò che preferiamo chiamare follia fosse una sorta di principio di mutazione, una modernità talmente dirompente nei suoi imperativi all'”autorealizzazione”, al consumo, all’immagine, da poter cancellare anche l’istinto possente che lega le madri ai figli piccoli? Se la cultura imperante, e ciò che chiamiamo libertà, stesse erodendo la nostra più antica natura? Nel punto nodale in cui si trasmette la vita, quasi fossimo un mondo stanco, abbandonato dalle forze sorgive.

Da Avvenire On Line del 17 luglio 2005