Martiri di Otranto: una storia ricca di indicazioni per il presente

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RITORNO ALL’OCCIDENTE

Cercansi uomini (e donne) disposti a “correre qualche rischio per le proprie idee”…


di Alfredo MANTOVANO


 

IL FONDAMENTO DELLA “PATRIA RITROVATA”


Otranto, 29 luglio 1480. Alle prime ore del mattino dagli spalti delle mura compare all’orizzonte, e diventa sempre più visibile, una flotta composta da 90 galee, 15 maone e 48 galeotte, con 18 mila soldati a bordo; l’armata è guidata dal pascià Agomath, ed è agli ordini di Maometto II. Quest’ultimo nel 1451, ad appena ventun anni, era salito a capo della tribù degli ottomani, che a sua volta si era imposta circa un secolo e mezzo prima sul mosaico degli emirati islamici; nel 1453, alla guida di un esercito di 260 mila turchi, Maometto II aveva conquistato Bisanzio, la “seconda Roma”, e da quel momento aveva iniziato a coltivare il progetto di espugnare la Roma vera e propria, e di trasformare la basilica di San Pietro in una stalla per i suoi cavalli. Nel giugno 1480 ritiene che i tempi siano maturi per completare l’opera: toglie l’assedio a Rodi, difesa con coraggio dai suoi cavalieri, e punta la flotta verso il mare Adriatico; l’intenzione è di approdare a Brindisi, il cui porto è ampio e comodo: da Brindisi avrebbe risalito l’Italia fino a raggiungere la sede del papato. Un forte vento contrario costringe però le sue navi a toccare terra 50 miglia più a Sud, e a sbarcare in una località chiamata Roca, a qualche chilometro da Otranto (127).


1. Otranto, 1480: assedio alla Cristianità
Otranto era – ed è – la città più orientale d’Italia. Ha un passato ricco di storia: le immediate vicinanze erano abitate probabilmente già dal Paleolitico, certamente dal Neolitico; era stata poi popolata dai messapi, stirpe che precedeva i greci, quindi – conquistata da costoro – era entrata nella Magna Grecia e, ancora, era caduta nelle mani dei romani, diventando presto municipio. L’importanza del suo porto le aveva fatto presto assumere il ruolo di ponte fra Oriente e Occidente, consolidato sul piano culturale, e anche politico, dalla presenza di un importante monastero di monaci basiliani, San Nicola in Casole. Nella sua splendida cattedrale, costruita fra il 1080 e il 1088, nel 1095 era stata impartita la benedizione ai 12 mila crociati che, al comando di Boemondo, partivano per liberare e per proteggere il Santo Sepolcro; di ritorno dalla Terra Santa, proprio a Otranto san Francesco d’Assisi era approdato nel 1219, accolto con grandi onori; a Otranto, l’11 settembre 1227, era morto a seguito di malaria il langravio di Turingia, sposo di santa Elisabetta di Ungheria.
Al momento dello sbarco degli ottomani, la città può contare su una guarnigione di 400 uomini, e per questo i capitani del presidio si affrettano a chiedere aiuto al re di Napoli, inviandogli una missiva. Cinto d’assedio il castello, nel quale si erano rifugiati tutti gli abitanti del borgo, il pascià, attraverso un messaggero, propone una resa a condizioni vantaggiose: se non resisteranno, uomini e donne saranno lasciati liberi e non riceveranno alcun torto. La risposta giunge da uno dei maggiorenti della città, Ladislao De Marco: se gli assedianti vogliono Otranto, devono prenderla con le armi; al nuncius è intimato di non tornare più e, quando arriva un secondo messaggero con la medesima proposta di resa, costui viene trafitto dalle frecce; per togliere ogni sospetto, i capitani prendono le chiavi delle porte della città, e in modo visibile, da una torre, le buttano in mare, alla presenza del popolo. Durante la notte, buona parte dei soldati della guarnigione si cala con le funi dalle mura della città e scappa. A difendere Otranto restano soltanto i suoi abitanti. L’assedio che segue è martellante: le bombarde turche rovesciano sulla città centinaia di grosse palle di pietra (molte sono state conservate e sono ancora oggi visibili per le strade del centro storico idruntino). Dopo quindici giorni, all’alba del 12 agosto, gli ottomani concentrano il fuoco contro uno dei punti più deboli delle mura: aprono una breccia, irrompono nelle strade, massacrano chiunque capiti a tiro, raggiungono la cattedrale, nella quale in tanti si sono rifugiati. Ne abbattono la porta e dilagano nel tempio, raggiungono l’arcivescovo Stefano, lì presente con gli abiti pontificali e con il crocifisso in mano: all’intimazione di non nominare più Cristo, poiché da quel momento regnava Maometto, l’arcivescovo risponde esortando gli assalitori alla conversione, e per questo gli viene reciso il capo con la scimitarra. Il 13 agosto Agomath chiede una lista degli abitanti catturati, con esclusione delle donne e dei ragazzi di età inferiore ai 15 anni.


2. “L’amore della patria terrena” degli Ottocento Martiri
Così racconta il cronista: “In numero di circa ottocento furono presentati al Pascià che aveva al suo fianco un miserrimo prete, nativo di Calabria, di nome Giovanni, apostata della fede. Costui impiegò la satannica sua eloquenza a fin di persuadere a’ nostri santi che, abbandonato Cristo, abbracciassero il maomettismo, sicuri della buona grazia d’Acmet, il quale accordava loro vita, sostanze e tutti que’ beni che godevano nella patria: in contrario sarebbero stati tutti trucidati. Tra quegli eroi ve n’ebbe uno di nome Antonio Primaldo, sarto di professione, d’età provetto, ma pieno di religione e di fervore. Questi a nome di tutti rispose: ‘Credere tutti in Gesù Cristo, figlio di Dio, ed essere pronti a morire mille volte per lui’ (128). “E voltatosi ai Cristiani disse queste parole: ‘Fratelli miei, sino oggi abbiamo combattuto per defensione della patria e per salvar la vita e per li Signori nostri temporali, ora è tempo che combattiamo per salvar l’anime nostre per il nostro Signore, quale essendo morto per noi in Croce conviene che noi moriamo per esso, stando saldi e costanti nella fede e con questa morte temporale guadagneremo la vita eterna e la gloria del martirio’. A queste parole incominciarono a gridare tutti a una voce con molto fervore che più tosto volevano mille volte morire con qual si voglia sorta di morte che di rinnegar Cristo” (129). Agomath proclama la condanna a morte di tutti e ottocento i prigionieri. Al mattino seguente, costoro vengono condotti con la fune al collo e le mani legate dietro la schiena al colle della Minerva, a poche centinaia di metri dalla città. Scrive, ancora, il cronista: “Ratificarono tutti la professione di fede e la generosa risposta data innanzi; onde il tiranno comandò che si venisse alla decapitazione e, prima che agli altri, fosse reciso il capo a quel vecchio Primaldo, a lui odiosissimo, perché non rifiniva di far da apostolo co’ suoi, anzi in questi momenti, prima di chinare la testa sul sasso, aggiungeva a’ commilitoni che vedeva il cielo aperto e gli angeli confortatori; che stessero saldi nella fede e mirassero il cielo già aperto a riceverli. Piegò la fronte, gli fu spiccata la testa, ma il busto si rizzò in piedi: e a onta degli sforzi de’ carnefici, restò immobile, finché tutti non furono decollati. Il portento evidente e oltremodo strepitoso sarebbe stata lezione di salute a quegl’infedeli, se non fossero stati ribelli a quel lume che illumina ognuno che vive nel mondo. Un solo carnefice, di nome Berlabei profittò avventurosamente del miracolo e, protestandosi ad alta voce cristiano, fu condannato alla pena del palo” (130). Durante il processo per la beatificazione degli Ottocento, nel 1539, quattro testimoni oculari riferiscono il prodigio della conversione e del martirio del boia (131). Cinquecento anni dopo, il 5 ottobre 1980, Giovanni Paolo II si reca a Otranto per ricordare il sacrificio degli Ottocento. Nell’occasione rivolge un invito: “Non dimentichiamo (…) i martiri dei nostri tempi. Non comportiamoci come se essi non esistessero” (132); e sottolinea che “i Beati Martiri ci hanno lasciato e in particolare hanno lasciato a voi due consegne fondamentali: l’amore alla patria terrena; l’autenticità della fede cristiana. Il cristiano ama la sua patria terrena. L’amore della patria è una virtù cristiana” (133).


3. Roma “salvata” da Otranto
Il sacrificio di Otranto non è importante soltanto sul piano della fede. Le due settimane di resistenza della città consentono all’esercito del re di Napoli di organizzarsi e di avvicinarsi a quei luoghi, così impedendo ai 18 mila ottomani di dilagare per la Puglia. I cronisti dell’epoca non esagerano nell’affermare che la salvezza dell’Italia meridionale fu garantita da Otranto: e non solo quella, se è vero che la notizia della presa della città inizialmente aveva indotto il pontefice Sisto IV a programmare il trasferimento ad Avignone (134), nel timore che gli ottomani si avvicinassero a Roma; il Papa recede dall’intento quando Ferrante d’Aragona incarica il figlio Alfonso, duca di Calabria, di trasferirsi in Puglia, e gli affida il compito di riconquistare Otranto: il che accade il 13 settembre 1481, dopo che Agomath era tornato in Turchia e Maometto II era morto. Ciò che rende questo straordinario episodio pieno di significato anche per l’europeo di oggi, sovente disorientato, è che nella storia della Cristianità non sono mai mancate testimonianze di fede e di valori civili: né sono mai mancati gruppi di uomini che hanno affrontato con coraggio prove estreme. Mai però è accaduto un episodio di proporzioni così vaste: un’intera città dapprima combatte come può, e tiene testa per più giorni all’assedio; poi risponde con fermezza alla proposta di abiura. Sul Colle della Minerva, al di fuori del vecchio Primaldo, non emerge alcuna individualità, se è vero che degli altri martiri non si conosce il nome, a riprova del fatto che non sono pochi eroi, bensì è una popolazione intera che affronta la prova. Il tutto succede anche per l’indifferenza dei responsabili politici dell’Europa dell’epoca di fronte alla minaccia ottomana. Nel 1459, papa Pio II aveva convocato a Mantova un congresso, al quale aveva invitato i capi degli Stati cristiani, e nel discorso introduttivo aveva delineato le loro colpe di fronte all’avanzata turca; benché nella circostanza venga decisa la guerra per contenere quest’ultima, poi non segue nulla, a causa dell’opposizione di Venezia e della non curanza della Germania e della Francia. Dopo che i musulmani conquistano l’isola di Negroponte, appartenente a Venezia, una nuova alleanza contro gli ottomani, proposta da papa Paolo II (1464-1471), viene fatta arenare dai milanesi e dai fiorentini, pronti ad approfittare della situazione critica nella quale si trova la Serenissima. Il decennio successivo, con Sisto IV che diventa pontefice nel 1471, fa assistere all’omicidio di Galeazzo Sforza, duca di Milano, all’alleanza antiromana del 1474 fra Milano, Venezia e Firenze, alla Congiura dei Pazzi del 1478, e alla guerra che ne segue, fra il Papa e il re di Napoli da una parte, e dall’altra Firenze, aiutata da Milano, da Venezia e dalla Francia. “Lorenzo il Magnifico, che aveva ammonito Ferrante di non prestarsi al gioco e alle aspirazioni degli stranieri, fu proprio lui a sollecitare Venezia perché si accordasse con i turchi e li spingesse ad assalire le sponde adriatiche del Regno di Napoli, al fine di turbare i disegni di Ferdinando e del figlio. (…) La Serenissima, firmata da poco la pace con i turchi (1479), aderì al disegno del Magnifico nella speranza di riversare sulla Puglia l’orda musulmana che da un momento all’altro poteva abbattersi sulla Dalmazia, dove sventolava il vessillo di San Marco. (…) E gli uomini di Lorenzo il Magnifico non esitarono neppure (…) a sollecitare Maometto II a invadere le terre del re di Napoli, ricordandogli i vari torti subiti da questi. Ma il Sultano non aveva bisogno di questi consigli: da 21 anni attendeva il momento buono per sbarcare in Italia, e sin allora era stata proprio Venezia, la diretta avversaria sul mare, ad impedirglielo” (135).


4. La “naturalezza” del sacrificio di Otranto e la “stanchezza dell’occidente”
Se la storia non è mai identica a sé stessa, tuttavia non è arbitrario cogliere dai suoi sviluppi analogie e similitudini: esattamente mille anni dopo il 480, anno della nascita di san Benedetto, un umile monaco alla cui opera l’Europa deve tanto della sua identità, altri umili interpretano l’Europa meglio e più dei suoi capi, pronti a combattersi piuttosto che a fronteggiare il nemico comune. Quando gli idruntini si trovano di fronte alle scimitarre ottomane, non invocano la distrazione dei re per motivare un proprio disimpegno; forti della cultura alla quale sono cresciuti, pur se la gran parte di loro non ha mai conosciuto l’alfabeto, sono convinti che resistere e non abiurare costituisca la scelta più ovvia, quella in qualche modo naturale. Si provi a parlare oggi con un nostro connazionale che torna dall’Iraq o dall’Afghanistan, dopo aver completato il periodo di missione: ciò che si coglie con maggiore frequenza è la meraviglia per le discussioni e per i contrasti infiniti sulla nostra presenza in quegli scenari. Per loro è naturale che si vada ad aiutare chi ha necessità di sostegno e che si garantisca la sicurezza della ricostruzione contro gli attacchi terroristici. A Otranto cinque secoli fa nessuno ha esposto drappi arcobaleno, né ha invocato risoluzioni internazionali, o ha chiesto la convocazione del consiglio comunale perché la zona fosse dichiarata demilitarizzata: non esistendo ancora i comboniani, oggi spesso immemori del genuino spirito del loro fondatore, nessuno si è incatenato sotto le mura per “costruire la pace”. Per due settimane 15 mila pacifici idruntini hanno bollito olio e acqua, finché ne hanno avuto, e li hanno rovesciati dalle mura sugli assedianti. Quando sono rimasti in vita soltanto 800 uomini adulti e sono stati catturati, hanno fatto volontariamente la fine che oggi fanno in Iraq gli americani, gli inglesi, i pakistani, gli iracheni, gli italiani, e altri ancora, quando vengono sequestrati dai terroristi: ottocento teste sono state tagliate una per una, senza che all’epoca cronisti politically correct ne abbiano censurato i dettagli (se oggi conosciamo bene questa straordinaria vicenda, è perché chi l’ha descritta è stato preciso e rigoroso). Oggi l’Europa non è attaccata – come nell’episodio storico richiamato – da una realtà islamica istituzionalmente organizzata, bensì dall’equivalente di più organizzazioni non governative di ultrafondamentalisti islamici. Tenuta presente questa differenza strutturale, non è fuori luogo chiedersi quanto c’è oggi in Occidente, in Europa, e in Italia, di quella “naturalezza” che ha portato una intera comunità “a difendere la pace della propria terra” fino al sacrificio estremo. Il quesito non è fuori luogo, se si riflette che nella lotta al terrorismo un elemento realmente decisivo è la tenuta del corpo sociale, o comunque di gran parte di esso, di fronte alla minaccia e ai modi più efferati di concretizzazione della stessa. “Ci fanno (…) sorridere” ha scritto Giuliano Ferrara in un pezzo memorabile dedicato alla “stanchezza dell’occidente” “parole come disciplina, obbedienza, tradizione, catechismo, ortodossia, patriottismo, valore militare, lealtà, onore; (…) coltiviamo la suggestione libertaria di abitudini di vita stordite, ispirate al self interest, a un individualismo che si scioglie soltanto nello sciame, nel branco dei tuoi simili che trotterellano con te senza senso sul ciglio di un burrone appeso al vuoto, e temiamo il dolore, la sofferenza, il carattere effimero di quel corto segmento senza importanza che è la vita personale” (136). E’ ovvio che la memoria di Otranto non vale soltanto a sottolineare che vi sono momenti in cui resistere è un dovere, ma prima ancora a ricordare a noi stessi chi siamo e da quali comunità discendiamo: il che vale a respingere ogni tentazione totalitaria.


5. Cercansi uomini (e donne) disposti a “correre qualche rischio per le proprie idee”
Scandagliare la storia può venire in soccorso per rispondere in modo adeguato a quel quesito? Vale la pena di ricordare che nel 1571, novant’anni dopo il martirio di Otranto, una flotta di Stati cristiani ferma finalmente la minaccia turco islamica nel Mediterraneo al largo di Lepanto. Lo scenario europeo non era migliorato: la Francia faceva lega con i principati protestanti per contrapporsi agli Asburgo e si compiaceva della pressione che i turchi esercitavano contro l’impero nel Mediterraneo; Parigi e Venezia non avevano mosso un dito per difendere i Cavalieri di Malta nell’assedio condotto contro di loro da Solimano il Magnifico. Questo vuol dire che la vittoria di Lepanto non è stata il frutto della convergenza di interessi politici; al contrario, il trionfo – tale è stato – si è realizzato nonostante le divergenze. La straordinarietà di Lepanto sta nel fatto che, nonostante tutto, per una volta principi, politici e comandanti militari hanno saputo accantonare le divisioni e unirsi per difendere l’Europa. Questa unione si è certamente realizzata per l’impegno di uomini che non hanno disdegnato il nobile esercizio della leadership – come si dice oggi – ma soprattutto perché la politica europea del XVI secolo aveva ancora qualche aggancio con una visione del mondo sostanzialmente comune, fondata sul rispetto del Cristianesimo e del diritto naturale. E se tante testoline oggi allegramente agnostiche girano liberamente, senza essere costrette ad avvolgersi nei burka, accade anche perché qualcuno a suo tempo ha speso tempo, energie, e anche la propria vita, per la buona causa, dal momento che la vittoria degli altri avrebbe fatto cadere in mani musulmane l’Italia, e forse anche la Spagna. Dalle considerazioni che precedono emerge con chiarezza un dato: una civiltà culturalmente omogenea è capace di reagire in modo sostanzialmente compatto a difesa della propria pace, e lo fa senza calpestare la propria identità e la propria dignità, come viceversa ha fatto qualche mese fa il governo Zapatero, pur alla guida di una nazione di nobili tradizioni. Dal frutto – la bontà della reazione – comprendiamo che la radice – l’omogeneità culturale – è un bene, ovviamente nella misura in cui la cultura condivisa è sana. Oggi la Cristianità romano germanica come civiltà omogenea non esiste più. Ne restano solo alcune significative vestigia: il che è certamente un male (137). La riflessione su questi episodi storici ha permesso tuttavia d’individuare tre capisaldi attorno ai quali rifare unità, e cioè il rispetto del diritto naturale, la riscoperta delle radici cristiane dell’Europa e l’amor di patria, quest’ultimo esplicitamente evocato dal regnante Pontefice quale lascito dei Martiri idruntini.
NOTE
127 La storia degli Ottocento Martiri di Otranto è nota nei particolari perché, oltre a essere recepita negli atti del processo di beatificazione, che utilizzano le deposizioni di testimoni oculari, è stata descritta da cronisti contemporanei, primo fra tutti Giovanni Michele Laggetto, “Historia della guerra di Otranto del 1480”, trascritta da un antico manoscritto e pubblicata da Luigi Muscari, Tip. Messapica, Maglie 1924. Cfr. anche l’opera di Antonio De Ferraris Galateo, “De situ Japigiae”, la cui prima edizione è pubblicata a Basilea nel 1558; Galateo era parente dell’arcivescovo di Otranto Stefano, morto durante la presa da parte degli ottomani: ho consultato la traduzione italiana “La Iapigia”, Messapica ed., Galatina 1975. Da non trascurare, infine, Pietro Colonna detto il Galatino (1460-1540), che riferisce dell’assedio di Otranto e del suo epilogo nei “Commentaria in Apocalypsim”, manoscritto conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana. Sull’episodio cfr. il mio “Gli Ottocento Martiri di Otranto”, in “Cristianità”, anno VIII, n. 61, maggio 1980.
128 Saverio De Marco, “Compendiosa istoria degli Ottocento Martiri Otrantini”, Tipografia Cooperativa, Lecce 1905, p. 17.
129 Giovanni Michele Laggetto, op. cit., pp. 37-38.
130 Saverio De Marco, op. cit., pp. 13-14.
131 Questa la dichiarazione di uno dei quattro, Francesco Cerra, che nel 1539 aveva 72 anni: “Antonio Primaldo fu il primo trucidato e senza testa stette immobile, né tutti gli sforzi dei nemici lo poter gettare, fin ché tutti furono uccisi. Il Carnefice, stupefatto per il miracolo, confessò la fede Cattolica essere vera, e insisteva di farsi Cristiano, e questa fu la causa, perché per comando del Bassà fu dato alla morte del palo”, in Giovanni Michele Laggetto, op. cit., p. 41.
132 Giovanni Paolo II, Omelia sul Colle dei Martiri, in “L’Osservatore romano, edizione settimanale in lingua italiana”, 9 ottobre 1980.
133 Giovanni Paolo II, Discorso ai giovani, in “L’Osservatore romano, edizione settimanale in lingua italiana”, ibidem.
134 Cfr. Ludovico Pastor, “Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo”, trad. it., vol. II, Desclée, Roma 1911, pp. 532-533.
135 Grazio Gianfreda, “Otranto nella Storia”, Ed. Salentina, Galatina 1976, pp. 250-251. Cfr. anche Pietro Giannone, “Storia civile del Regno di Napoli”, libro VIII, Milano 1823, pp. 322-323.
136 “Il Foglio quotidiano”, 16 marzo 2004.
137 E non è condivisibile la tesi – sostenuta da alcuni commentatori – secondo la quale la Cristianità, finché è esistita, sarebbe stata una realtà speculare alla ‘umma’ islamica: nella Cristianità vi è distinzione fra la sfera politica e quella religiosa, vi è il rispetto del diritto naturale, vi è il rispetto della coscienza della persona umana.



tratto da: Alfredo MANTOVANO Ritorno all’Occidente. Bloc-notes di un conservatore (introduzione di Giuliano Ferrara, prefazione di Gianfranco Fini), Spirali, Milano 2004, p. 266-279.