Madri assassine

Avvenire, 3 giugno 2005


IL FATTO


Dopo gli ultimi choccanti episodi, il famoso psichiatra analizza un fenomeno inquietante: “A volte responsabile è la depressione post partum. Ma aumentano i casi di donne sane di mente che uccidono davanti alle difficoltà poste dall’accudire il loro bambino”


Andreoli: sempre più infanticidi, ombre su una civiltà in declino. “Siamo davanti a persone che lucidamente sopprimono la propria creatura per ottenere dei vantaggi, per eliminare quell’ostacolo che il figlio rappresenta rispetto alle loro abitudini”


“Questi crimini tra il 1993 e il 2003 sono cresciuti del 41% rispetto al decennio precedente, all’interno del numero complessivo degli omicidi che è invece rimasto invariato”



Di Marina Corradi


A leggere i giornali, sembra che succeda più spesso. Ci sono intanto i neonati ritrovati nei cassonetti, fagotti già immobili o che piangono ancora. Non abbandonati, ma chiusi in un sacco di plastica da chi li ha appena messi al mondo. Poi, spesso da angoli di provincia, da cittadine tranquille di cui ignoravi il nome, vengono ogni tanto storie di maternità sovvertite: figli buttati in una roggia, soffocati da madri non si sa se folli, eppure fino al giorno prima apparentemente normali. E in quei paesi – le porte chiuse, la gente sbigottita – si tace, o si parla, come sperando, di rapinatori assassini, che nessuno però ha mai visto.


Allo psichiatra Vittorino Andreoli abbiamo chiesto se c’è, e qual è, un male oscuro comune dietro a certi titoli – che cominciano a parere troppi. “L’aumento degli infanticidi – risponde Andreoli – è un dato reale: nel decennio 1993-2003 in Italia sono cresciuti del 41% rispetto al decennio precedente, all’interno del numero complessivo degli omicidi che è invece rimasto sostanzialmente invariato”.


Un aumento impressionante. Ma perché? Già, per quale motivo una donna uccide il suo bambino. Ancora dieci anni fa in criminologia dominava, su questo argomento, un principio di derivazione lombrosiana. Lombroso affermava, in generale, che se un individuo fino a quel momento sano un giorno uccide significa che quell’uomo è mentalmente degenerato. Circa l’infanticidio, il “corollario” lombrosiano era che una donna che uccide il figlio non è più madre, è un “lusus naturae”, uno scherzo maligno della natura.


E non è vero?


È vero che la condizione biologica e l’assetto ormonale della donna che ha da poco partorito la dispongono a essere più paziente, più capace di accudire, naturalmente incline a difendere la prole, come accade, è ben noto, anche fra gli animali. Noi dunque siamo da questa eredità lombrosiana condizionati per cui, quando una madre uccide, si pensa che certamente debba avere “qualcosa di storto” , che la sua mente l’abbia tradita.


E questo invece non è sempre vero?


No, non sempre. Ci sono, certo, gli infanticidi da depressione post partum, depressioni a volte non curate da medici che hanno dimenticato che un malato lasciato a se stesso può anche uccidere. Ma assistiamo oggi al crescere inquietante di un altro, diverso tipo di infanticidi: quelli di donne sane di mente, che uccidono davanti alle difficoltà poste dall’accudire il bambino. Dunque, lucidamente, per ottenere dei vantaggi, per eliminare quell’ostacolo che il figlio rappresenta. Ricordo il caso di una giovane donna, qualche anno fa, che soppresse il suo bambino di pochi mesi e con la complicità della madre ne occultò il corpo. Da quando era nato, spiegò poi, litigava con il marito, non si poteva più uscire la sera, né andare in vacanza come prima. Era stato un omicidio a freddo, come altri raccontati dalle cronache, che definirei infanticidi dell’ignoranza e della stupidità: perché queste donne, per cui provo pena, non immaginano quale terribile peso si porteranno dietro per tutta la vita. Accade spesso che si ammalino dopo, in carcere, di depressione, per l’incapacità di sostenere il ricordo di ciò che hanno fatto.


Ma per quale ragione un aumento di casi di queste proporzioni?


Esistono oggi condizioni familiari e sociali che favoriscono l’esplosione della tragedia. Mi capita di osservare come molte giovani coppie entrino in crisi proprio con l’arrivo di un figlio, e anche fino alla separazione. Lui si lamenta di non essere più al centro dell’attenzione, lei soffre nel sentirsi imbruttita e appesantita. Entrambi non possono più uscire come prima, o prendere il primo volo scontato per una vacanza last minute. È chiaro che un bambino cambia fortemente il legame di coppia, ed è un cambiamento molto bello. Ma se quel bambino non è nato prima anche nei pensieri, non è stato atteso e immaginato, e i suoi genitori sono abituati a vivere solo nel presente – ecco, invece quel loro figlio è il futuro, per la prima volta, ma un futuro faticoso e ingombrante. E quella piccola famiglia sta chiusa in casa, sola, perché i nuovi “moduli abitativi” sono di 60 metri quadri, altrimenti neanche col mutuo li si riesce a pagare. E in 60 metri c’è poco spazio per il figlio, figuriamoci per una nonna che ti dia una mano. Sono case sterili quelle dei nuovi condomini, case non pensate perché un uomo e una donna con i loro figli vi possano vivere. Chiusi dentro lui, lei, il bambino, e nessun altro. E spesso con stipendi da sterilità quasi obbligata. Come si fa a vivere con ottocento euro al mese? E anche se sono un po’ di più, come si fa a vivere con poco, dentro una cultura per cui farsi la lampada abbronzante e vestirsi alla moda è un dovere?


E nei 60 metri quadri, con pochi soldi, sole davanti alla tv accesa, sognando, si può cominciare a guardare al proprio figlio neonato come a un ostacolo?


È possibile. C’è una cultura, un modo di stare insieme, di costruire le case, di pensare la vita, che può spingere a guardare a un bambino come a un oggetto. Si allunga una mano e lo si prende, la si apre e lo si butta via. Non posso dire se la madre di Casatenovo sia sana di mente, ma ammetto che, da quanto leggo, alcuni particolari della premeditazione mi inquietano – quella mano la si può premere sulla testa di un neonato nell’acqua, fino a lasciarci l’impronta. E se ci pensi rimani senza fiato, lei sa com’è piccola e delicata la testa di un bambino di cinque mesi?


Proprio per questo viene da pensare a quello che lei chiama “lusus naturae”, a un tradimento della natura materna, un buio, un vuoto. Quello che lei dice, donne che lucidamente si liberano di un “ostacolo”, è difficile da accettare.


Ciò che sta accadendo è che la biologia, ciò che finora abbiamo chiamato “legge di natura”, sembra come sopraffatta da una cultura dominante. Una studiosa come Margaret Mahler ha scritto saggi fondamentali sull’attaccamento simbiotico fra la madre e il bambino nei primi tre anni di vita. Qualcosa di viscerale, per cui la madre avverte il figlio come parte di se stessa; qualcosa di legato al codice genetico in funzione della sopravvivenza della specie, per cui una donna “deve” accudire e proteggere il figlio piccolo, allo stesso modo in cui i merli nel nido sull’albero davanti a casa mia badano ai loro piccoli. Ma, ecco, fra i merli questo comportamento è immodificabile. Mentre un aumento del 41% degli infanticidi in 10 anni – in molti casi compiuti lucidamente – mi fa pensare a una cultura che con i suoi modelli riesce a stravolgere quella che chiamavamo legge di natura.


Se è così, costituisce il segnale di qualcosa di drammatico.


Secondo me, infatti, siamo in un momento storico drammatico. Nell’evidente inarrestabile declino di una civiltà ingolfata nei suoi insostenibili consumi. Obbligati a continuare a comprare automobili e cellulari per non innescare la spirale della disoccupazione a catena, ma – parlo da laico, come i lettori di Avvenire sanno – senza un senso alle nostre giornate. Occorre un nuovo umanesimo – laico, cristiano, o laico e cristiano, insomma occorre ritrovare un senso. Perché quando accade che vengano uccisi dei bambini – i bambini sono di tutti, non dei loro genitori – si produce, assurdamente, un dolore che sarebbe evitabile. Un dolore devastante e becero, insensato; e il segno, insieme, che si è perso senso e voglia di vivere. Che si comincia a perdere l’essenziale.