Ma esiste l’egemonia culturale della sinistra?

Sa ben poco delle vicende del nostro Paese, o non vi ha riflettuto abbastanza, chi, a proposito della discussione sul problema dell’egemonia culturale nell’Italia postbellica, riaccesasi nelle settimane scorse, l’ha definita un «tormentone», un passatempo ferragostano, o un esempio di polemica a esclusivi fini politici.

In realtà quella discussione rimanda direttamente ad un importantissimo nodo storico. Che è il seguente: nel periodo repubblicano, per la prima volta nella storia dell’Italia unita, la stragrande maggioranza del ceto intellettuale creativo di tipo umanistico (romanzieri, saggisti, poeti, registi, attori, cultori accademici di varie discipline) ha manifestato simpatia ideologica assai più per le posizioni della sinistra che del centro o della destra.


Si è trattato, come dicevo, di una frattura decisiva rispetto al passato. Basti pensare alla massiccia diffusione di idee antiparlamentari e antidemocratiche che si era avuta nell’intellettualità italiana tra la fine dell’Ottocento e la prima guerra mondiale; o all’altrettanta massiccia adesione di grandissima parte di essa al fascismo. Con le ovvie conseguenze che questo indirizzo degli intellettuali ebbe allora sulla storia politica del Paese.
Nel secondo dopoguerra, invece, il panorama muta bruscamente e muta fino al punto che negli anni Settanta quell’indirizzo ideologico-culturale orientato a sinistra sarà assolutamente dominante anche in molti altri settori del lavoro intellettuale come le redazioni dei giornali, la programmazione radio-televisiva, l’editoria scolastica, eccetera.


Mi domando se possa esserci qualcuno che pensa che una tale frattura non vi sia stata, o che essa costituisca un fatto irrilevante di cui è ozioso occuparsi. Mi pare difficile. Il problema è allora come spiegarlo: perché mai dopo il 1945 è avvenuto questo deciso spostamento dell’asse ideologico e politico dell’intellettualità italiana di tipo umanistico-letterario (ma non solo)?
La risposta, naturalmente, sta in un insieme di cause, ma tra queste vi è senz’altro ai primi posti anche l’influenza e il prestigio che negli ambienti della cultura seppe costruirsi il Partito comunista. Ciò che non implicava affatto l’adesione al partito ma piuttosto la riluttanza estrema a contrastarne apertamente gli indirizzi e le convenienze, e specialmente, direi, l’accettazione che i suoi nemici fossero i propri nemici.


È questo complesso di cose che si intende quando si parla di «egemonia culturale», un concetto nel quale è compresa anche la capacità mostrata dal Pci di collegarsi a tutte le tradizioni politico-culturali con un segno quale che fosse democratico e/o di sinistra fino a farle in un certo senso progressivamente proprie, ad apparirne con il passare del tempo una sorta di legittimo erede. Per tal modo che in pratica potesse non essere più avvertita alcuna incolmabile differenza tra, poniamo, un cattolico o un salveminiano e un comunista. Dopo il 1989 questa latitudine appropriativa si è ancor più ampliata fino a comprendere autori e idee neppure di sinistra e neppure democratici (si pensi alla fortuna del catalogo Adelphi).


Orbene, mi chiedo cosa ci sia da scandalizzarsi tanto se si mette in luce tutto ciò; perché mai questa straordinaria operazione politico-culturale debba suscitare oggi, a sinistra, la repulsa retrospettiva che abitualmente essa invece suscita.
Se il Pci e gli intellettuali in qualche modo a lui vicini sono riusciti nell’impresa di esercitare un’influenza direttiva sull’insieme della cultura italiana, ciò non può che andare a loro merito.
Significa che erano bravi, che Togliatti, il grande artefice di questa operazione, era un politico di primissimo ordine, profondo conoscitore della storia del Paese, capace come pochi di muoversi nelle cose della cultura e di accattivarsi le simpatie dei suoi addetti ai lavori.
Significa che le case editrici, i giornali, le iniziative culturali gestiti e influenzati dal Pci e dai «suoi» intellettuali si sono mostrati capaci di attrarre il favore del pubblico e/o il consenso degli esperti.
Ebbene: che male c’è, ripeto, in tutto ciò? Perché mai è perfettamente accettabile, e accettato, parlare, che so, di egemonia liberale sulla cultura del Risorgimento, o di egemonia idealistica sulla cultura del primo Novecento italiano, e non deve esserlo parlare di egemonia culturale della sinistra nell’Italia repubblicana?


Ovvio che tale egemonia non fu attuata con alcun mezzo coercitivo, c’è bisogno di dirlo? Così come è altrettanto ovvio che essa potè stabilirsi, come ha ricordato Carlo Lizzani su queste colonne, anche per la pochezza e la stolida faziosità, spesso, dell’altra parte (cioè di gran parte della classe dirigente democristiana).
Ma ciò non significa che quell’egemonia non abbia comportato, altrettanto ovviamente, rigidi criteri di discriminazione e di esclusione; o, per altro verso, pretese monopolistiche come quelle avanzate oggi da qualcuno a proposito del carteggio Calvino-De Giorgi.
In un articolo scritto molto tempo fa mi chiesi come mai, per esempio, nel pur amplissimo (e bellissimo) catalogo dell’editore Einaudi – una casa editrice dove pure gli intellettuali di tradizione azionista avevano avuto tanta parte – mancassero però tutte le grandi voci della riflessione storico-politica del Novecento sgradite allora al Pci, da Aron alla Arendt, a Orwell, a Berlin, a Grossman, a Solzenicyn (escluso quello gradito al potere kruscioviano), a decine di altri.
Ricordo che Norberto Bobbio mi rispose, arrabbiatissimo, ma senza poter obiettare nulla nel merito e lasciando la mia domanda sostanzialmente inevasa. Forse l’ira di Bobbio tradiva semplicemente l’imbarazzo di un uomo del suo valore nel dover riconoscere il prezzo pagato dalla cultura alla politica.


Contro l’esistenza di un’egemonia della Sinistra in campo culturale si ascolta di frequente l’obiezione, che non è mancata neppure questa volta: «Va bene, ma la televisione? Dove la mettiamo la televisione che era tutta in mano democristiana?». Distinguerei. Di sicuro fino ai primissimi anni Sessanta i notiziari politici televisivi furono di rigidissima obbedienza governativa. Poi, però, con il centrosinistra le cose cambiarono: non credo proprio che Enzo Biagi, Sergio Zavoli, Ugo Zatterin, Giorgio Vecchietti, Arrigo Levi o Andrea Barbato siano stati dei manutengoli della Dc o dei corifei dell’anticomunismo.
Ma oltre alla politica la televisione vuol dire film, teatro, sceneggiati, varietà.
Ebbene, questi non dovevano essere certo settori dominati dal parrucconismo e dalla reazione, se potevano esservi assunti giovani di belle speranze come Umberto Eco o Furio Colombo, o se una mezza serata poteva essere data a Mario Soldati. Le cose insomma erano sfumate, contrattate, spartite; tutto è stato più mosso: in che modo si spiega sennò che, come oggi tutti riconosciamo, la televisione ha cambiato il volto dell’Italia, ha contribuito in tanta parte alla sua modernizzazione? Lo ha fatto forse solo con i deodoranti e le lavatrice di «Carosello»?
E come mai, per dirne un’altra, con la televisione dominata dalla Dc, dal ’58 al ’76 le fortune elettorali del Pci non hanno fatto che crescere?


Come del resto lo strapotere televisivo di Berlusconi non ha impedito la sua sconfitta alle elezioni di tre mesi fa. Proprio al suo strapotere di solito si riferisce chi – come il direttore di Repubblica Ezio Mauro, un cui intervento si è segnalato per il tono misurato e argomentato – ha sostenuto che oggi, però, si starebbe verificando un cambio di egemonia culturale.
Dalle mani della sinistra a quelle di «una destra populista e moderna insieme» la cui «pseudo cultura rivoluzionaria sarebbe stata alimentata dall’opera costante di destrutturazione dei valori civili, repubblicani, costituzionali, che il revisionismo ha fatto in questi anni». Anche se di per sè, concede Mauro, esso non perseguiva consapevolmente un tale proposito.


Tralasciato il problema del revisionismo, che ci porterebbe troppo lontano, e mi attengo al tema dell’egemonia. Basta una rapida occhiata agli scaffali di una qualsiasi libreria dedicati all’attualità politica per accorgersi che i libri contro Bush, contro la guerra in Iraq, contro la globalizzazione, contro Berlusconi, contro la «deriva populista», contro il liberismo «selvaggio», ecc., ecc., occupano a dir poco i nove decimi dello spazio disponibile.
Nel campo della produzione alta e della relativa circolazione delle idee, insomma, il predominio del punto di vista di sinistra appare in Italia tutt’ora fortissimo. In questo senso si può dire che un’egemonia culturale della sinistra esiste ancora.
Che questa egemonia non si traduca in consenso politico, rimanendo circoscritta all’ambito dei ceti intellettuali, non deve stupire: non accadeva in fondo la stessa cosa nell’Italia della prima Repubblica? A differenza di allora c’è però che oggi il bipolarismo, legittimando la destra, ha contribuito a dare spazio e visibilità un tempo ignoti a punti di vista opposti a quelli di sinistra.
È finito il frequente occultamento di questi nelle molteplici e multiforme pieghe del Centro cattolico; ora essi sono usciti allo scoperto e danno perciò l’impressione di novità, mentre novità non sono affatto.
Forse ci fa velo il tempo trascorso, ma di sicuro negli Anni ’50 e ’60 c’era un pensiero di destra, anche di destra cattolica, vivace e aggressivo, che oggi non c’è proprio (penso a giornali come il Borghese o il Quotidiano, a personalità, pur così diverse tra loro, come Longanesi, Guareschi, Evola).


Quanto alla lamentata «destrutturazione dei valori civili, repubblicani, costituzionali», essa dipende da fattori che con il revisionismo non c’entrano nulla. A mio avviso essa dipende innanzitutto dal debole, originario radicamento storico di quei valori stessi (fra la resistenza e la rivoluzione francese c’è, ahimé, una certa differenza), debolezza che si fa sempre più sentire con la fine della generazione post-bellica. In secondo luogo dipende dal consumo che la lotta politica ha fatto e fà di quei valori ogni volta che li ha adoperati (e li adopera) come un’arma contro gli avversari. Gridare ogni giorno che lo schieramento in cui si riconosce elettoralmente metà del Paese è fuori dalla Costituzione contribuisce non poco a diffondere l’idea che allora, forse, è la Costituzione che non c’entra nulla con metà del Paese.


Sta di fatto, però, che anche nell’Italia di questi anni la presenza ormai pubblica e consolidata di un punto di vista di destra non si traduce in alcuna presenza culturale significativa, in alcun prestigio o accreditamento culturali.
Libri «di destra» di qualche valore continuano a scriversene pochissimi (anche perché pochissimi continuano ad essere a destra i lettori), e basta chiedere a uno qualunque dei loro autori se preferisce essere recensito dall’ Indice o dal Domenicale , se preferisce una menzione elogiativa del Manifesto o del Secolo d’Italia , per capire come stanno le cose. A riprova di uno squilibrio che nuoce profondamente alla democrazia del nostro Paese, e forse anche alla cultura della sinistra.

ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA
CorSera 2-9-2004