«L’utopia eugenetica del welfare state svedese (1934-1975)»
Un saggio di Luca Dotti denuncia una pratica sconvolgente e autoritaria. Promossa dai coniugi Myrdal, premi Nobel Eugenetica, ombra scura sul modello svedese (di GIOVANNI BELARDELLI – dal Corriere della Sera 3 Marzo 2005)
Ancora oggi siamo abituati a considerare il welfare state realizzato in Svezia dalla socialdemocrazia come una delle grandi, e più positive, esperienze politico-sociali del XX secolo. Ma che le cose non stessero interamente così, che il tanto magnificato «modello svedese» avesse anche qualche tratto oscuro, perfino qualche venatura autoritaria, venne fuori in realtà alla fine degli anni Novanta quando, quasi per caso, una ricercatrice svedese, Maija Runcis, fece una scoperta sconvolgente. Si rese conto che nella Svezia socialdemocratica, in cui nessuno – così, almeno, si era sempre sostenuto – doveva essere trascurato o lasciato indietro, erano state compiute dal 1935 al ’75 (anno di abolizione della relativa legge) oltre 60 mila sterilizzazioni, per il 90-95 per cento riguardanti donne. Ed erano state compiute precisamente con l’intento, insieme eugenetico ed economico-sociale, di eliminare la capacità riproduttiva delle persone «difettose», cioè degli esseri umani «di tipo B» (come scrivevano comunemente, negli anni Trenta e Quaranta, gli addetti alle scienze sociali e mediche), ciò che avrebbe permesso di utilizzare al meglio le risorse per garantire il benessere della popolazione sana, degli esseri umani «di tipo A».
Di questo argomento si occupa Luca Dotti. Il merito principale del suo volume consiste nel mostrare come la politica di sterilizzazione non rappresentasse un incidente di percorso nella lunghissima vicenda dei governi socialdemocratici che furono ininterrottamente al potere dal 1932 al ’76. Negli anni Trenta l’eugenetica riscuoteva un certo successo in vari Paesi occidentali. Ma in Svezia la sua diffusione poteva giovarsi della paura che, da un lato, il calo demografico (effettivamente in atto), dall’altro il temuto aumento degli individui «di scarsa qualità» avrebbero indebolito la salute, fisica e morale, della popolazione. L’elemento probabilmente decisivo fu il fatto che preoccupazioni del genere vennero fatte proprie dalla socialdemocrazia una volta giunta al potere: la sua concezione di una «casa comune del popolo» (l’equivalente svedese del welfare state ) si dimostrò capace di riqualificare in senso economico-sociale la politica di eliminazione (attraverso la sterilizzazione) del materiale umano «di scarto», senza rinunciare del tutto alle vecchie argomentazioni di tipo biologico, fondate sull’idea di una rigida trasmissione ereditaria delle (presunte) tare fisiche e morali degli individui.
Come Dotti mette in rilievo, a favorire l’affermazione della concezione socialdemocratica di un benessere sociale da creare anche attraverso la sterilizzazione concorrevano almeno altri due elementi. Da un lato, un certo rigorismo luterano, portato a considerare ogni segnale di disordine nel comportamento e nello stile di vita come una minaccia alla salute della collettività: nelle pratiche di sterilizzazione, la «volubilità sessuale» di una donna o la mancanza di pulizia nella casa erano considerate altrettanti segni di pericolosa asocialità. Dall’altro, c’era il diffondersi nell’ambito delle scienze umane di un’ideologia funzionalista che tendeva a concepire la politica sociale come l’applicazione di misure algidamente oggettive, e poneva il benessere della società come nettamente prevalente su quello dei singoli individui.
Furono i coniugi Gunnar e Alva Myrdal i massimi teorici di questo socialismo che attribuiva allo Stato e alla politica funzioni demiurgiche, affidandosi agli scienziati sociali e alle loro soluzioni indiscutibili, poiché queste si presentavano come il frutto del puro calcolo razionale. Economista (e a lungo capo del gruppo parlamentare socialdemocratico) lui, esperta di problemi della famiglia lei, i Myrdal furono anche insigniti del premio Nobel: il solo caso di coniugi premiati per due materie diverse e in due periodi differenti (i coniugi Curie, l’unica altra coppia, avevano ricevuto entrambi il Nobel per la fisica). Nel 1934 un loro libro dedicato alla crisi demografica svedese non solo ebbe uno straordinario successo, ma svolse anche una funzione decisiva nell’orientare la socialdemocrazia e l’opinione pubblica verso misure tese a eliminare gli «individui superflui» così da evitare che la società sprecasse risorse a causa di persone giudicate irrecuperabili.
I Myrdal, e un po’ tutti gli esperti socialdemocratici del tempo, criticarono non poco la legge sulla sterilizzazione del 1934 poiché essa autorizzava in realtà l’intervento solo nel caso di malati di mente o comunque di individui incapaci di intendere e di volere. Sarebbe stato invece necessario, sostenevano, intervenire su tutta la massa di «sfaccendati», «asociali», «leggermente ritardati» che sfuggivano alle maglie della legge, sottraendosi così all’ossessione purificatrice degli scienziati sociali e dei rappresentanti della professione medica.
Un esponente socialdemocratico dichiarò: «Io penso che sia meglio esagerare che rischiare di avere una progenie inadatta e inferiore». Fu così che pochi anni dopo, nel 1941, una nuova legge introdusse la possibilità di sterilizzare una più ampia casistica di persone. La legge, per la verità, indicava chiaramente che chi risultava capace di intendere e di volere avrebbe dovuto sottoscrivere la richiesta di sterilizzazione. Ma la presenza della firma, argomenta convincentemente Dotti, non certificava di per sé la volontarietà. Esistevano infatti molte forme di pressione che medici e assistenti sociali potevano mettere in atto per convincere ad accettare l’intervento: la possibilità di ricevere solo a quella condizione l’assistenza contro la povertà, oppure la prospettiva di essere dimessi da un’istituzione pubblica, nella quale si era costretti a soggiornare, solo dopo aver accettato l’intervento di sterilizzazione.
Quella raccontata da Dotti con precisione (anche se in una forma non sempre chiarissima) è una vicenda alla quale sono stati dedicati vari studi. E tuttavia su di essa spesso si preferisce sorvolare. Ad esempio, nella voluminosa e informatissima Enciclopedia della sinistra europea nel XX secolo (diretta da Aldo Agosti per gli Editori Riuniti), riguardo all’opera dei coniugi Myrdal negli anni Trenta ci si limita sostanzialmente a scrivere che si batterono «a favore di ampi ed efficaci programmi di assistenza»; senza appunto menzionare la determinazione con cui quei programmi miravano anche a liberare la società dal peso del «materiale umano scadente». Si trattava, insomma, di programmi non privi nella pratica di risvolti autoritari, come era forse conseguenza inevitabile di un socialismo fortemente statalista, animato da una marcata diffidenza nei confronti della soggettività individuale. Quel socialismo si assegnava infatti il compito di intervenire dentro la sfera privata dei singoli. Non a caso Alva Myrdal partecipò alla progettazione di un modello abitativo di tipo collettivista, che puntava a regolare le aree più private della vita familiare, con la messa in comune di cucine, servizi e spazi per il tempo libero, nonché con la presenza di figure appositamente addette all’alimentazione e all’educazione dei bambini. In uno «slancio taylorista-totalitario», come lo definisce Dotti, il progetto arrivava a prescrivere quanto tempo ciascuno avrebbe dovuto impiegare nelle varie attività collegate alla vita domestica.
Negli anni Settanta la modifica delle norme sulla sterilizzazione, sopravvissuta da allora nell’ordinamento svedese soltanto come misura effettivamente volontaria, fu la conseguenza di decisivi mutamenti nel frattempo intervenuti entro l’intera società riguardo al modo di concepire la malattia mentale e il disagio sociale. I malati, gli emarginati, in genere gli individui in difficoltà erano diventati soggetti da aiutare; non venivano più visti, dunque, come potenziali minacce che la società doveva neutralizzare attraverso la sterilizzazione. Si chiudeva così una esperienza che aveva mostrato quanto, anche nei regimi democratici, possa diventare pericolosa una politica che non si assegni dei limiti, che non dovrebbe essere lecito varcare neanche nella prospettiva, destinata a rivelarsi un’illusione, di fare in tal modo il superiore interesse di tutta la società.
Il saggio di Luca Dotti, «L’utopia eugenetica del welfare state svedese (1934-1975)», è pubblicato da Rubbettino.