L’”inversione di rotta” del Concilio

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Conciliazioni

L’ottimismo che pervase il Vaticano II e la falsa opposizione tra verità e misericordia…

di Francesco Agnoli

 

Si è visto la volta scorsa come il Concilio Vaticano II sia stato concepito come un concilio pastorale, e non dogmatico, teso a rinnovare la forma, i modi della comunicazione e dell’evangelizzazione, non la sostanza dei dogmi e del depositum fidei. Un concilio, quindi, che non costituisce, come ricordò Ratzinger, un “superdogma” e che non impose “insegnamenti definitivi, vincolanti per tutti”. “Un concilio, per dirla col Cardinal Lercaro, che non definisce nuove dottrine, un concilio che non condanna, ma un concilio che cerca un linguaggio” nuovo. Rileggendo soprattutto i primi discorsi di Giovanni XXIII si scorge chiaramente che l’idea di fondo che accompagnò l’apertura dei lavori, fu l’ottimismo: ottimismo rispetto ai tempi, all’umanità in generale, al mondo dei non credenti e delle altre religioni, alla condizione interna della chiesa. “Una nuova e luminosa Pentecoste… una vera e propria Epifania” (Esortazione Sacrae Laudis, 1962), secondo le parole di Giovanni XXIII, era sul punto di nascere, perché si potevano scorgere “non pochi indizi di un’epoca migliore per il genere mano”, di uomini contemporanei “più inclini a recepire gli ammonimenti della chiesa” (Costituzione Humanae salutis, 1962). Si prendevano poi le distanze, nella celebre Allocutio, dai “profeti di sventura”, distanziandosi così dalla visione di san Pio X, che aveva ipotizzato addirittura che l’Anticristo potesse essere già nato, di Pio XII, che aveva denunciato lo smarrimento dei tempi presenti, e di tanti autorevoli vescovi e cardinali. Questo ottimismo sarebbe comparso qua e là, con sfumature diverse, a volte anfibologiche, in alcuni documenti conciliari. Basti pensare all’incipit della Dignitatis humanae: “Nell’età contemporanea gli esseri umani divengono sempre più consapevoli della propria dignità di persone”. Non immaginavano certo, i padri conciliari, che di lì a poco, proprio nei paesi cattolici, sarebbero dilagati pornografia, divorzio, aborto, e si sarebbe giunti a togliere la qualifica di persone ad embrioni, feti, anziani, malati terminali…
Niente condanne
L’effetto più immediato di questo ottimismo, ribaltato più volte nel post concilio dal giudizio di Paolo VI, fu la decisione di non emettere condanne: “Sempre la chiesa si è opposta a questi errori; spesso li ha anche condannati con la massima severità. Ma ora la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia piuttosto che la severità” (Allocutio di Giovanni XXIII). Si noti: “Sempre… ma ora…”: c’è una inversione di rotta, che contiene implicitamente una sorta di condanna, questa sì, nei confronti degli atteggiamenti della chiesa del passato. Il Concilio vuole affermare uno spirito nuovo, vuole coniugare giustizia e misericordia, impresa difficile ma necessaria, però a tutto vantaggio della seconda. Vi è, a mio modo di vedere, in questo atteggiamento, almeno col senno di poi, un certo utopismo, che sfocerà poi nel post concilio in tanti errori politici e dottrinali: dalla collaborazione col comunismo di moltissimi “cattolici del dissenso”, all’aggiornamento inteso come tradimento, all’idea della salvezza universale, espressa nell’idea che l’inferno, se c’è, è vuoto, sino ad un certo buonismo irrealistico che spesso ha reso insipido il sale della fede. Il filosofo Romano Amerio, nel suo celebre studio “Iota unum”, ripreso e approfondito recentemente, dal filosofo Paolo Pasqualucci, scrive a questo proposito: “Questo annuncio del principio della misericordia contrapposto a quello della severità sorvola il fatto che, nella mente della chiesa, la condanna stessa dell’errore è opera di misericordia, perché trafiggendo l’errore si corregge l’errante e si preserva altrui dall’errore. Inoltre verso l’errore non può esservi propriamente misericordia o severità perché queste sono virtù morali aventi per oggetto il prossimo, mentre all’errore l’intelletto repugna con un atto logico che si oppone a un giudizio falso”. In altre parole: la condanna dell’errore è sempre stata per la chiesa il bastone offerto a chi ha gambe malferme, volontà debole e intelletto oscurato: l’uomo dopo il peccato originale. L’esempio più eclatante di questo atteggiamento fu la volontà del Concilio di non condannare apertamente il comunismo, nonostante circa cinquecento padri conciliari lo avessero richiesto, e nonostante giacessero allora, sotto questa terribile ideologia, ben più un miliardo di persone. L’ottimismo, fondato sui segni dei tempi, finiva così per trascurare il “più evidente e mostruoso segno dei tempi”. Anche nel campo della morale si volle, in alcune occasioni, accordare il pensiero della chiesa a quello del mondo. Molti padri cercarono di dimenticare le passate condanne e di proporre aperture nel campo della pillola, degli anticoncettivi e della limitazione delle nascite. La spaccatura su questi temi portò a rimandare la questione a una commissione su cui Paolo VI dovrà poi imporsi, nel 1968, promulgando l’Humanae vitae: l’enciclica che proprio in alcuni leader concilari, da Suenens a Doepfner, avrebbe trovato i più risoluti oppositori. In quest’ottica di “misericordia” fu inoltre eliminato il Sant’Ufficio, il garante per secoli dell’ortodossia. Ma il risultato di tutto ciò non fu, nel post concilio, una “vera e propria Epifania” della fede, ma l’“autodemolizione” della chiesa (Paolo VI), la proliferazione di dottrine eterodosse sostenute con superbia da tanti teologi, la divisione nel senso stesso della chiesa e dei cattolici. “Basta con il dissenso interiore alla chiesa… basta con la disobbedienza qualificata come libertà” avrebbe infatti affermato, nel 1975, Paolo VI.

Il Foglio 21 maggio2008