Le epidemie «made in China»…

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Cina, quanto ci costi


Non c’è dubbio che è la Cina ad aver “prodotto” l’influenza aviaria: alleva da sola un quarto di tutte le galline del mondo, e i nove decimi delle oche. In quali condizioni igieniche, potete immaginarlo. E invece di collaborare, secondo l’istinto comunista, Pechino fa calare sui pennuti il segreto di Stato…

“Non mi fido della Cina”, ha avuto il coraggio di scrivere Geminello Alvi qualche giorno fa sul Corriere. Economista ricco di cultura, Alvi ha messo il dito sulla piaga vergognosa di quell’ultimo regime comunista che miete “successi” nel mercato capitalista. Il regime cinese ci ha detto tutto sul lancio nello spazio dei primi uomini gialli; ma continua a nascondere alle autorità sanitarie mondiali i dati sulla diffusione del virus aviario nel suo territorio. Vecchio, puro comunismo: propaganda per glorificare il regime, e statistiche false per celarne vergogne e magagne. Si parla di località intere, dove il morbo infuria tra oche e polli, circondate dall’esercito, da cui nessuno può uscire: tipica misura comunista. Ma Pechino rifiuta di mandare all’Organizzazione Mondiale di Sanità di Ginevra i campioni di virus dai suoi volatili malati. Comunismo di guerra. Per cui il commercio è una forma di guerra.
Non c’è dubbio che è la Cina ad aver “prodotto” l’influenza aviaria: alleva da sola un quarto di tutte le galline del mondo, e i nove decimi delle oche. In quali condizioni igieniche, potete immaginarlo. E invece di collaborare, secondo l’istinto comunista, Pechino fa calare sui pennuti il segreto di Stato. Così, spera di continuare ad “esportare” quel che ha “prodotto”: con le merci e le cibarie, anche l’epidemia.
Sentite questa. Le autorità sanitarie coreane hanno scoperto da pochi giorni che uova di tre vermi intestinali, fra cui il verme solitario, infestavano un prodotto alimentare importato dalla Cina, il “kimchi”. Il kimchi è un contorno tradizionale, fatto di cavoli fermentati con aglio e peperoncino: i coreani lo mangiano tutti i giorni, come da noi i maccheroni. L’anno scorso l’import cinese di kimchi in Corea è aumentato del 79,1%. Un enorme “successo”, non c’è dubbio: e col kimchi, viaggiano ossiuri, tenie e altri parassiti intestinali.
I cinesi si giustificano: sono gli importatori coreani che petendono prezzi troppo bassi, la qualità ne soffre. È anche vero. Ma non è Pechino che ha puntato tutti i suoi successi sulla politica dei prezzi stracciati, dei salari infimi, del dumping e degli sconti? Ha abituato i clienti all’equazione assurda: “cinese” non è sinonimo di buono, ma di “imbattibilmente a buon mercato”. Ecco il risultato.
La Cina esporta in Corea 350 mila tonnellate di cibi freschi al mese. Vegetali e carni prodotte da un’agricoltura arretratissima, da contadini tenuti alla fame dal regime, che ha puntato tutto sull’industrializzazione. I contadini-schiavi fertilizzano i loro campi con la cacca delle latrine: di lì vengono le uova di vermi trovate nel cavolo fermentato. Ma non è l’unico episodio. Pochi mesi fa, le autorità sanitarie della Corea hanno scoperto che il pesce di provenienza cinese (il 39 per cento di tutto il pesce importato) era colorato, per farlo sembrar fresco, col verde malachite, che è una sostanza chimica cancerogena. Poco prima, c’era stato il caso di generi alimentari contaminati al piombo. E via così.
I miserabili contadini cinesi allevano miliardi di oche e centinaia di milioni di polli e anatre: bestie con cui convivono e razzolano, di cui usano le deiezioni come concime, bestie che hanno esportato a prezzi ridicoli perché il regime comunista potesse vantare un altro record. Ora, i contadini, che campano con 30 euro al mese, vedono arrivare i soldati: che circondano il villaggio, li mettono in prigione nelle loro case, e gli impongono di ammazzare oche e polli che sono la loro speranza di ricchezza. Nessuna vera misura sanitaria, solo provvedimenti autoritari e militari. Niente iniezioni e vaccini; la sola “medicina” è il Kalashnikov. Chi cerca di scappare viene fucilato.
Ma anche da noi mica si scherza. Geminello Alvi ha il coraggio di citare “i soliti notissimi di Confindustria” (leggi: Montezemolo, Tronchetti Provera e soci) che ci invitano ad accettare “la sfida della Cina”, ad aprire le porte alle merci cinesi, perché “il mercato globale” deve continuare a funzionare. Piccolo particolare: tutte le grandi pestilenze sono storicamente venute dall’Asia, portate dal commercio. Varie ondate di peste bubbonica, fra il ’300 e ’500, ci sono arrivate sulle navi che portavano il grano caucasico da Odessa, ed erano pieni di ratti neri infettati. Il colera e il vaiolo arrivavano con i carichi dei commerci mondiali dall’Est, talvolta la lebbra e la febbre gialla si annidavano fra noci moscate e chiodi di garofano. La “Spagnola” del 1918 è venuta quasi certamente da lì, come la Sars di due anni fa. I Tropici asiatici pullulano di pandemia, sono un verminaio mai igienizzato. Ogni volta che l’Europa si è “aperta ai commerci con l’Asia”, ha importato con le spezie anche una quantità di epidemie sconosciute, a cui i vecchi davano il nome generico di “peste”, “piaga”, “pestilenza”.
La storia si ripete. Perché chi ignora la storia è costretto a ripeterla. Crediamo di risparmiare perché ci accaparriamo reggipetti, pomodori e magliette cinesi a prezzi stracciati. Ma quanto ci costa la “peste” annessa a quell’import economico? Quanto ci costa la peste aviaria in corso, prima ancora che abbia contagiato l’uomo, in polli abbattuti e in polli invenduti perché la gente ha paura? Bel risparmio, quel reggipetto a un euro, quel pomodoro a prezzo imbattibile.


di Maurizio Blondet
La Padania.com 28 ottobre 2005