La famiglia italiana dal ’48 ad oggi

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Un po’ di storia italiana

APPUNTI PER UNA STORIA DELL’IDEA DI FAMIGLIA IN ITALIA

DALLA SECONDA GUERRA MONDIALE

ALLA «GUERRA DEI PACS»


Ha senso riflettere sullo stato del matrimonio e della famiglia in Italia, all’inizio del 2007, quando queste realtà fondamentali della società si trovano al centro di una dura battaglia culturale e parlamentare?
Può essere utile ricostruire brevemente cosa è accaduto alla famiglia italiana negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, per capire come si è arrivati alla situazione attuale ed eventualmente che cosa fare?
1. La famiglia alla base dell’Italia moderna
È possibile segnalare la centralità della famiglia nel contesto della società italiana anche solo partendo dalla Costituzione della Repubblica, che recita all’articolo 29: «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato all’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare».
La Costituzione nasce dai lavori dell’Assemblea Costituente, scaturita dalle elezioni del 1946 e composta da deputati che si ispiravano a diverse concezioni della vita: cattolica, liberale e socialcomunista, soprattutto.
Pur essendo frutto di un compromesso, su alcuni punti come quello relativo alla famiglia, la Carta costituzionale fa un netto richiamo al senso comune e al diritto naturale così come sono recepiti e insegnati dal magistero della Chiesa cattolica.
Come ha notato l’ex presidente della Corte Costituzionale e attuale presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica della Presidenza del Consiglio dei Ministri Francesco Paolo Casavola in un articolo apparso sull’inserto culturale de il Sole-24 Ore di domenica 4 febbraio 2007, i costituenti hanno indossato, a proposito della definizione di famiglia, non solo il modello di famiglia del cattolicesimo ma dieci secoli di diritto romano. E se non hanno specificato il sesso dei coniugi era perché, allora, nel 1946-1947, probabilmente non era necessario…
2. La lotta per l’egemonia culturale
La battaglia fra le diverse forze ideologiche che si propongono alla guida del Paese dopo la caduta del fascismo, dal 1943 al 1945 assume carattere schiettamente militare e viene dominata all’interno del Comitato di Liberazione Nazionale, postosi alla guida del movimento di liberazione, dal partito comunista; in seguito diventa politica e soprattutto culturale.
L’egemonia comunista sul piano militare viene a essere limitata dalla presenza degli eserciti alleati sul territorio italiano fino al 1948 e, dopo il 25 aprile 1945, dal rinascere delle istituzioni dello Stato unitario.
La prospettiva di egemonia politica a cui tende il Partito Comunista Italiano (Pci) rinnovato — dopo il ritorno da Mosca di Palmiro Togliatti nel 1943 — viene prima illusa dal positivo esito delle elezioni per l’Assemblea Costituente del 1946 e dal contemporaneo risultato del referendum istituzionale, poi, viceversa, radicalmente disillusa dall’esito del voto del 18 aprile 1948.
Gli rimarrà l’egemonia culturale e a questa il Pci dedicherà gran parte dei suoi sforzi. Se l’obiettivo sarà quello di trasformare il senso comune degli italiani, difficilmente questo sarebbe potuto avvenire senza passare attraverso la famiglia. Se infatti la famiglia rimane il luogo principale dell’educazione e continua a trasmettere i principi ereditati dalla tradizione, allora difficilmente la società potrà allontanarsi dalle sue radici.
Per questo, il processo di secolarizzazione che investe l’Italia e l’Occidente — che vede i comunisti in posizione di leadership rispetto ai partiti progressisti e «laici» che lo affiancano — si rivolgerà contro la famiglia, anzitutto facendole mancare gli aiuti della politica e, quindi, cercando di ferirla con la legalizzazione del divorzio e successivamente con l’equiparazione della famiglia con altre forme di convivenza.
Il Pci teme tuttavia che portare direttamente lo scontro politico su temi etici possa favorire la reazione del mondo cattolico, aggredito in tal caso non fisicamente, come avvenne in Spagna nel 1936, ma culturalmente. Perciò Palmiro Togliatti preferisce evitare le contrapposizioni su temi di morale individuale e sociale, e opera per spostare l’attenzione verso temi prevalentemente socioeconomici, imposta lo scontro politico sugli interessi di classe oppure sui grandi temi della politica internazionale, accusando l’imperialismo del capitalismo americano e contrapponendovi il movimento per la pace ispirato da Mosca. Quindi, più e prima del Pci, che, oltre a non volere lo scontro frontale con il mondo cattolico, deve anche tener conto della propria base, legata ancora in gran parte a un’idea tradizionale di famiglia, sono le forze di avanguardia laicista, di area liberale e radicale, che muovono una guerra spietata e scaltra contro l’istituto familiare.
Il modello di famiglia maggioritario nel dopoguerra è ancora quello che si ispira all’insegnamento della Chiesa, cioè eterosessuale, aperto alla vita, se non sempre indissolubile, almeno basato sulla fedeltà fra i coniugi e sull’obbedienza da parte dei figli, magari ancora segnato da influssi maschilistici sui quali il fascismo aveva indugiato.
La classe liberale che aveva governato l’Italia dopo il Risorgimento, sostanzialmente non aveva intaccato il modello tradizionale di istituto familiare, forse perché ritenuto compatibile col sistema «borghese» appena instaurato. Nella cultura dominante all’epoca dei governi della Destra storica e poi della Sinistra, dopo il 1876, la religione — e di conseguenza la centralità della famiglia — viene tollerata e ritenuta utile per disporre i cittadini all’obbedienza verso l’autorità, purché non pretenda di costruire una società ispirata alla dottrina sociale della Chiesa, cioè una civiltà cristiana.
Con l’instaurazione del fascismo nel 1922 e la costruzione dello Stato autoritario a partire dal 1925, la religione rimane largamente praticata dalla maggioranza della popolazione, ma sempre in una prospettiva individualistica. La Chiesa ottiene il riconoscimento giuridico delle libertà che aveva perduto dopo l’unificazione, grazie al Concordato del 1929, ma la politica, cioè l’organizzazione della società, rimane completamente nelle mani del partito mussoliniano e, in ultima analisi, dello Stato. La fine della seconda guerra mondiale porta al governo del Paese una classe politica che prevalentemente afferma di ispirarsi al Vangelo e indubbiamente la Chiesa in Italia ottiene un riconoscimento pubblico, che non aveva mai avuto dopo l’Unità del 1861. Tuttavia, i princìpi cristiani non riescono a influenzare la cultura delle classi dirigenti del Paese, che attraverso gli intellettuali, gli editori, gli artisti, i docenti universitari, i professori delle scuole dei vari gradi e molti giornalisti, comincia ad allontanarsi e a combattere apertamente quella mentalità che sprezzantemente viene definita «clericale».
Non sono in molti, nel mondo cattolico, ad accorgersi con tempestività del «nuovo che avanza», cioè di quello spirito eversivo che, per rimanere nell’ambito del tema della famiglia, avrebbe messo in crisi il rapporto figli-genitori e poi quello fra gli stessi coniugi e che sarebbe poi esploso nella Rivoluzione «culturale» del 1968.
Fra i pochi che ne ebbero presentimento ci furono i pedagogisti italiani più avvertiti, che lo denunciarono come fosse uno spettro che si aggirava nell’oscurità. Ma non riuscirono ad allertare il mondo politico. I loro nomi però devono essere ricordati per giustizia e perché sarebbe utile ritornare a studiarli: Augusto Baroni (1897-1967), il filosofo neotomista Mario Casotti (1896-1975) e il filosofo personalista Luigi Stefanini (1891-1956).
3. Le forze contrarie alla famiglia
Nel secondo dopoguerra dunque il Pci tenta di conquistare il potere attraverso l’egemonia sulla cultura nazionale. Per raggiungere l’obiettivo, Togliatti costruisce un «partito nuovo», perché composto soprattutto da giovani intellettuali, molti dei quali ex fascisti, non provenienti dalle file dell’organizzazione comunista del periodo della clandestinità, né dal socialismo massimalista e anticlericale, che fino ad allora aveva egemonizzato il movimento operaio. Il segretario del Pci era consapevole di dover svolgere un lavoro sulla lunga distanza, stando attento alla cultura, per poter penetrare lentamente nel senso comune degli italiani, cambiandolo in maniera quasi impercettibile. Tuttavia vi era una difficoltà: quella rappresentata dal legame con il movimento rivoluzionario mondiale, rappresentato dall’Internazionale comunista, cui il Pci non poteva rinunciare per ragioni ideologiche e politiche come pure per i cospicui finanziamenti che riceveva da Mosca, come hanno documentato il dirigente comunista Gianni Cervetti e lo scrittore Valerio Riva (1929-2004), nella sua preziosa indagine sugli archivi di Mosca, Oro da Mosca (1).
Per quanto riguarda la famiglia, nell’Urss essa veniva concepita come interna allo Stato e sospinta a «progredire» insieme a esso. Come ricorda Hervé Cavallera (2), autori sovietici vennero tradotti e pubblicati per il pubblico italiano a cura del partito comunista. Per esempio, nel 1956 la rivista I problemi della Pedagogia, diretta da Luigi Volpicelli (1900-1983), pubblica un numero speciale dedicato a La scuola e la pedagogia sovietica, con interventi di esponenti della Accademia delle Scienze Pedagogiche di Mosca (3). Tale letteratura è ben lontana dagli atteggiamenti rivoluzionari che emergeranno visibilmente nel 1968 e riflette una mentalità non ostile alla famiglia, che rimane ben presente in molti comunisti italiani, nonostante le letture di Friedrich Engels (1820-1895) — soprattutto L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, prima edizione 1891 (4) — sulla famiglia e il potenziale rivoluzionario e disgregatore dell’istituto familiare presente nell’ideologia marxista.
Saranno altre, radicali e liberali — come accennato —, le posizioni ideologiche che avranno maggiore diffusione ed eserciteranno la più profonda influenza dissolvitrice dell’istituto familiare in quegli anni, a partire dal nichilismo di Jean Paul Sartre (1905-1980) e di Bertrand Russell (1872-1970), per arrivare alla critica alla società borghese della cosiddetta Scuola di Francoforte con i suoi principali esponenti, i filosofi Max Horkheimer (1895-1973) e Theodor Wiesengrund Adorno (1903-1969) e i sociologi Herbert Marcuse (1898-1979) ed Erich Fromm (1900-1980).
Forse si può dire che ciò che unisce tutti questi intellettuali e in qualche modo li fa trovare alleati anche con i marxisti è l’odio contro il reale, del quale ciascuno odia più ferocemente questo o quell’aspetto, in genere quello più congeniale alla sua ideologia. Così nei marxisti classici l’odio sarà di classe, mentre la «nuova sinistra» privilegerà la lotta dentro la famiglia, fra genitori e figli, o dentro la scuola e le università, combattendo l’autoritarismo dei professori e del sistema educativo in generale. Nascerà o meglio si svilupperà e si trasformerà nel tempo anche il femminismo, che arriverà a privilegiare l’«odio di genere», denunciando prima una spesso reale prepotenza maschilista e, poi, auspicando l’assenza di qualsiasi ruolo, nella difficile ricerca di un’identità femminile coerente con il processo rivoluzionario.
Ma tutti, comunque, saranno uniti da un profondo odio contro la realtà, non tanto quella storica — la società borghese in fondo era il frutto di rivoluzioni di classe precedenti e giudicate positive, come aveva spiegato Marx nel Manifesto del partito comunista (5) —, ma la realtà come risulta dal senso comune, che è quel modo di guardare il reale privo di ideologismi di qualunque sorta.
Così, in questa prospettiva, l’odio è verso la famiglia e verso la scuola come istituzioni, verso il marito e il padre, infine verso il padrone, qualunque fosse la sua appartenenza ideologica.
«Né Dio, né padre, né padrone» era uno slogan che racchiudeva una verità che si sarebbe manifestata con sempre maggiore evidenza. Non solo: l’odio contro la realtà doveva manifestarsi anche nella costruzione di quelle condizioni che la realtà non rendeva possibili. Così, se con la legalizzazione dell’aborto si rendeva possibile l’eliminazione del bambino indesiderato, con la procreazione assistita si doveva rendere possibile avere un bambino prescindendo dai rapporti sessuali fra uomo e donna e si doveva riconoscere la facoltà di averlo anche a chi non lo avrebbe potuto avere per vie naturali, come una coppia di omosessuali. Come ha scritto il filosofo e sociologo tedesco-americano Eric Voegelin (1901-1985) ne Il mito del mondo nuovo (6), appariva una nuova manifestazione dell’antico gnosticismo, questa volta di massa, che voleva cambiare il mondo per farlo nuovo, perché riteneva fosse sbagliato o comunque non così giusto come sarebbe stato possibile se soltanto il Creatore, per così dire, avesse lavorato meglio.
Dopo la rimozione del Muro di Berlino (1989) e la fine dell’Urss (1991), il disprezzo della realtà sarebbe continuato in una prospettiva relativistica, che si coniugherà con le potenzialità, impensabili prima, della tecnica.
Comincerà così la stagione — ancora in corso — delle grandi battaglie sul fronte della bioetica che mireranno a una completa autodeterminazione dell’uomo nella costruzione del suo futuro, prescindendo cioè da qualsiasi limitazione morale: tutto ciò che è tecnicamente possibile diventerà anche moralmente lecito.
4. Il Sessantotto
«Tutto sembra pronto per essere rovesciato», scrive Cavallera (7), descrivendo il clima culturale che si può osservare nell’Italia dell’epoca che precede il 1968.
In quest’epoca la famiglia viene attaccata da altri fronti oltre che da quelli già esaminati.
Il fronte che potremmo chiamare «naturalista», per esempio, che apparentemente si limita alla descrizione dei fatti, come fa il Rapporto Kinsey (8) nei primi anni 1950 introducendo una nozione falsa anzitutto numericamente della vita sessuale, dalla quale emergerebbe la normalità della trasgressione e dell’omosessualità. Con ricerche del genere si tendeva a creare un clima pseudo-scientifico che mostrasse come fosse impossibile la vita secondo l’insegnamento della Chiesa e secondo il Vangelo, che, quindi, predisponesse poi a giustificare la trasgressione con ragioni ideologiche di diverso genere.
Questo modo di procedere verrà attuato in occasione di tutte le grandi battaglie di costume che verranno combattute dopo il 1968: legalizzazione del divorzio (1970: introduzione della legge, 1974: referendum abrogativo), legalizzazione dell’aborto (1978: introduzione della legge, 1981: referendum abrogativo), regolamentazione della procreazione «medicalmente assistita» (legge n. 40 del 2004, che pone limiti alla pratica «selvaggia» della procreazione artificiale e che nel 2005 viene sottoposta a referendum parzialmente abrogativo proposto da radicali e altre sinistre), legalizzazione e sostegno delle unioni di fatto e delle coppie omosessuali. In tutti questi casi di norma si tende a enfatizzare previamente la portata del fenomeno, per rendere poi necessario un intervento legislativo, che lo regolarizzi e che, intanto, lo giustifichi in qualche modo, nella consapevolezza che le leggi di oggi diventeranno sempre più un’abitudine per le prossime generazioni.
5. Il mondo cattolico di fronte alla «rivoluzione culturale» del 1968
Il mondo cattolico italiano stenta a rendersi conto di quanto si sta preparando nella società italiana durante gli anni 1950, dopo la vittoria elettorale anti-comunista del 18 aprile 1948, una vittoria, per inciso, mai celebrata dai vincitori.
O, meglio, mentre il magistero del Papa e quello dei vescovi italiani colgono e mettono in guardia dalle insidie del crescente secolarismo, che penetra sempre più capillare nel corpo sociale negli anni della ricostruzione post-bellica e del boom economico, questi avvertimenti stentano a trasformarsi in reazioni di qualche incisività.
Una lettera pastorale sul problema del laicismo, rivolta al clero e ai fedeli italiani da parte della Conferenza Episcopale Italiana, viene pubblicata il 25 marzo 1960 (9), proprio negli stessi anni in cui all’interno dell’Azione Cattolica Italiana cominciano a maturare e a prevalere atteggiamenti, che riflettono quell’influenza secolaristica che il magistero denunciava. La lettera individua nel laicismo, ossia nell’espulsione o emarginazione del dato religioso dalla sfera pubblica, il male che penetra e corrode il corpo della nazione italiana, separando ogni attività umana dal suo fine eterno.
Sul piano culturale per i cattolici la battaglia si presentava importante e delicata. Si trattava di restituire verità e valore alle cose create non in nome dell’autorità ecclesiastica — i cui giudizi avevano peraltro ancora tanta importanza — ma per il loro valore intrinseco, perché così aveva previsto il disegno originario divino. Si trattava di un’iniziativa culturale di valore profetico, la cui importanza possiamo comprendere meglio solo oggi, in una società ancor più profondamente secolarizzata, dove i cattolici possono sperare di convincere i non credenti della veridicità delle loro posizioni soltanto partendo dalla ragionevolezza della fede, prescindendo dall’autorità della Chiesa che insegna queste stesse verità.
Questa svolta culturale avvenne nel Concilio Ecumenico Vaticano II e in seguito ai mutamenti di ordine pastorale da questo promossi. Non sempre fu compresa e seguita fedelmente dai cattolici, molti dei quali non seppero resistere al fascino culturale del neo-gnosticismo e abbandonarono la Chiesa per abbracciare l’ideologia moderna, in particolare nella sua versione marxista, allora imperante. Nella Chiesa spesso si cominciò a fare il contrario di quanto il cosiddetto «aggiornamento» conciliare aveva previsto e l’autorità ecclesiastica, a vari livelli, spesso permise che l’interpretazione del Concilio come evento rivoluzionario nella storia della Chiesa diventasse un luogo comune. Comunque questa lettura del Vaticano II, promossa dalla cosiddetta «scuola di Bologna» — di cui sono esponenti principali Giuseppe Dossetti (1913-1996), Giuseppe Alberigo e Alberto Melloni —, divenne la più accreditata, anche perché l’unica realmente proposta soprattutto negli ambienti intellettuali, almeno fino a quando dalla rivista Concilium. Rivista Internazionale di Teologia — di orientamenti progressisti — si staccarono alcuni importanti teologi, come Joseph Ratzinger, Hans Urs von Balthasar (1905-1988) e Henri de Lubac (1896-1991) e altri, che diedero vita a una nuova rivista, Communio.
Così, un Concilio che voleva essere missionario sembrò spegnere in molti fedeli l’ardore per l’apostolato e un Concilio che voleva mostrare la verità e la bellezza della fede attraverso l’uso della ragione umana venne ritenuto a torto l’affossatore dell’apologetica, cioè, appunto, di quella parte della scienza teologica che indaga sulla ragionevolezza della fede.
Tuttavia, se dimentichiamo per un attimo i luoghi comuni e torniamo ai fatti, vediamo come la Chiesa, nella persona del Papa, seppe non solo resistere ma continuare a promuovere la fede con fortezza e senza alcun rispetto umano. Mi riferisco in particolare a quello che probabilmente fu il gesto più significativo compiuto dalla Chiesa di fronte alla vera e propria rivoluzione scatenatasi nel post-Concilio: la pubblicazione dell’enciclica Humanae vitae del 1968, sulla regolazione cristiana delle nascite, di cui fu promulgatore Papa Paolo VI (1963-1978).
Nel marzo del 1963, Papa Giovanni XXIII (1958-1963) aveva istituito una Commissione di studio per affrontare i temi relativi al matrimonio e alla famiglia, la quale aveva dato un parere favorevole al controllo artificiale delle nascite. Come egli stesso ricorda al n. 6 della Humanae vitae, Paolo VI non si fece condizionare dalla pur importante opinione, respingendola decisamente (10), anche a costo di attirarsi una clamorosa contestazione, sia dall’esterno sia dall’interno della Chiesa cattolica.
Gli studiosi cattolici Hervé Cavallera e Ramón Garcia de Haro (11) avanzano l’ipotesi che da questa enciclica sia cominciata la contestazione del magistero pontificio: in effetti, dalla grave crisi modernista manifestatasi all’inizio del secolo XX, mai il magistero pontificio aveva più ricevuto contestazioni così dure ed esplicite all’interno della Chiesa; sotto Paolo VI queste invece ci saranno e cresceranno proprio con l’Humanae vitae.
Nel 1970, il filosofo cattolico torinese Augusto Del Noce (1910-1989), che combatterà una solitaria battaglia nel mondo intellettuale, osteggiato soprattutto dai cosiddetti «cattolici democratici», ricorderà così questo ritardo: «Dire che il carattere di offensiva in grande stile contro la morale cattolica non fu percepito adeguatamente neppure nelle alte sfere religiose, è probabilmente essere nel vero. Forse perché intese, negli anni fra il ’45 e il ’60, soprattutto alla resistenza contro il comunismo, non avvertirono esse l’importanza dell’avanguardia letteraria e di tutta la filosofia soggiacente al processo da Sade al surrealismo (ed è anche vero che allora questo capitolo non appariva in nessuna storia della filosofia); e videro nelle manifestazioni che essa aveva nel romanzo e nello spettacolo, soprattutto un fatto di cattivo gusto o di commercio: ravvisarono la pornografia, laddove si trattava invece dell’erotismo» (12).
Così, a partire dal 1968, riprende vigore un itinerario di secolarizzazione che già covava nel corpo sociale e, di qui, arriva ai nostri giorni passando attraverso le tappe dell’introduzione delle leggi sul divorzio e sull’aborto e i rispettivi referendum abrogativi, respinti dalla maggioranza della popolazione. L’Italia cambia profondamente, non tanto perché mutano i governi — che pur si spostano sempre più verso sinistra —, ma perché mutano i modelli esistenziali ai quali si riferisce un numero crescente di italiani.
Negli anni 1970, soprattutto, ma ancor di più nel decennio successivo, la domanda religiosa sembra scomparire dalla vita pubblica, sostituita da quella politica, dalle ideologie, dalla pretesa di costruire un mondo diverso, con ogni mezzo umano, anche con la violenza, in un atteggiamento da cui germinerà il terrorismo.
Dio sembra assente, ma l’attesa rivoluzione non arriva. Il Pci rimane «in mezzo al guado», il terrorismo rosso «non paga», anche se provoca dolore e morte, l’Urss fallisce la competizione con gli Stati Uniti e viene costretta a un difficile tentativo di trasformazione che culmina nella sua dissoluzione, il 25 dicembre 1991, due anni dopo la rimozione del Muro di Berlino, grazie anche e forse soprattutto al pontificato del Papa venuto dall’Est, Giovanni Paolo II (1978-2005).
6. L’«anomalia italiana»
Si può parlare di un’«anomalia» italiana dopo questa serie di avvenimenti epocali, che l’hanno interessata direttamente o che hanno inciso comunque sulla sua storia e ai quali non si può non aggiungere l’11 settembre 2001?
Probabilmente sì. Anomala è la situazione italiana già all’indomani del 18 aprile 1948, quando l’entusiasmo e il sollievo per la sconfitta socialcomunista tendono progressivamente a scemare, fino a rimanere nascosti nei cuori della maggioranza degli italiani, che continua a votare per la Dc in funzione di diga anticomunista.
Anomala è la situazione italiana perché, se indubbiamente essa subisce un radicale processo di scristianizzazione, il quale culmina nei due referendum del 1974 e del 1981 che sanciscono la vittoria delle forze laiciste, tuttavia la Chiesa cattolica non scompare come soggetto sociale. A differenza di altre nazioni europee, anzi, ricostruisce una propria significativa presenza pubblica, che permette ai cattolici di rimanere significativi e visibili, meno divisi rispetto ai tempi della contestazione successiva al Concilio Vaticano II e più capaci di mobilitarsi, anche grazie all’assenza del partito d’ispirazione cristiana, naufragato con «Tangentopoli» fra il 1992 e il 1994, che ha rappresentato sempre un freno alla manifestazione aperta e fiera dell’identità cristiana.
Tale ripresa di visibilità si è manifestata particolarmente in un’occasione, un po’ paradossale, della difesa di una legge, la legge 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita, che non risponde certamente alle esigenze della morale naturale e cristiana, e che tuttavia — quando venne approvata nel 2004, mettendo dei «paletti» per frenare quello che fu definito il «Far West procreatico», cioè la completa anarchia in assenza di qualsiasi legislazione — diede luogo a uno scontro contro le forze laiciste, conclusosi con la sconfitta di queste ultime, le quali, appunto, non riuscirono a «peggiorare» tale legge con il referendum del giugno 2005 da loro stesse richiesto.
E tuttavia, mentre i giovani italiani accorrono nell’aprile 2005 in centinaia di migliaia, anzi a milioni, in Piazza San Pietro a «salutare» per l’ultima volta il «grande» Giovanni Paolo II scomparso, i loro padri hanno continuato a non far figli, a separarsi e a divorziare e, soprattutto, a non sposarsi, né in Chiesa né civilmente — ma neppure a convivere, come si vedrà.
7. La fine della famiglia?
All’inizio del 2007 è uscito un libro con un titolo inequivocabile: La fine della famiglia. La rivoluzione di cui non ci siamo accorti (13). L’autore, uno statistico, Roberto Volpi, sostiene la tesi, confortata da molteplici dati e grafici, che in Italia è scomparsa la famiglia così come era concepita fino al 1970, cioè quella composta da genitori e figli.
Volpi sostiene che l’inizio di questo processo rivoluzionario risale all’introduzione della legge sul divorzio (1970) e soprattutto al referendum promosso per abrogare tale legge nel 1974, conclusosi con la conferma della legge stessa. È la stessa tesi sostenuta, in forma prognostica, da chi si batté allora contro la legge divorzista, paventando il pericolo che tale legge, di cui non c’era reale bisogno, sarebbe diventata la prassi della generazione successiva: come poi è realmente accaduto.
I dati portati da Volpi fanno riflettere: nel trentennio 1975-2005 sono nati 350mila bambini in meno all’anno, si sono celebrati 150mila matrimoni in meno per ogni anno e la fecondità della donna in età fertile (19-39 anni) è passata da 2,4 figli a 1,2. Attualmente, su 100 famiglie esistenti soltanto 43 sono composte da genitori e da figli.
Le cause della crisi «di cui nessuno sembra accorgersi» sono culturali, per Volpi, non economiche, anche se queste naturalmente possono incidere. In particolare:
(a) i giovani non si sposano per scelta, perché il matrimonio e la famiglia non rappresentano un ideale di vita, perché è andata perduta la consapevolezza di vivere per qualcosa e qualcuno che vada oltre l’esistenza terrena e perché preferiscono stare il più a lungo possibile nella famiglia di origine, avendo in questa condizione molti vantaggi e nessun costo. Ma in questa situazione non costruiscono nulla.
(b) I figli non nascono perché sono giudicati inessenziali nella vita di coppia. Questa è una grande rivoluzione, sostiene Volpi, che ha cambiato completamente il quadro culturale negli ultimi trent’anni. La coppia ha sempre più altre priorità rispetto al mettere al mondo dei figli, meno costose, meno drammatiche, meno impegnative.
(c) La maternità è stata «occupata» dalla medicina. Il professor Volpi porta il caso della regione Toscana e descrive come la quasi totalità dei parti avvenuti nel corso di un anno (il 2002) siano stati accompagnati da un numero incredibile di visite mediche, specialistiche e non, da interventi della medicina in prossimità e post-partum, tanto da far diventare il figlio un’«impresa» così faticosa da scoraggiarne una seconda. E questo spiega anche l’alto numero di figli unici.
Volpi annuncia un futuro drammatico per la società italiana perché i numeri non fanno sconti e le proiezioni demografiche non sono invertibili facilmente e immediatamente. Il punto di partenza secondo l’ultimo censimento del 2001 è il seguente:
— 25 famiglie su 100 risultano «unipersonali», cioè composte da una sola persona (che logicamente non sarebbero equiparabili a famiglie);
— 10 «monogenitoriali», cioè composte da un genitore con figli a carico;
— 22 coppie sono senza figli;
— 43 coppie hanno figli.
Fra queste ultime è significativo rilevare che, nel 2002-2003, solo il 6,8% del totale è composto da più di cinque persone, cioè è composto da quelle che sono considerate «famiglie numerose» (14).
Il libro di uno statistico vale perché aiuta a riflettere, se i numeri sono veri e collegati correttamente. E sono numeri che confermano le parole pronunciate da Papa Benedetto XVI il 22 dicembre 2006 incontrando la Curia romana: «Il problema dell’Europa, che apparentemente quasi non vuol più avere figli, mi è penetrato nell’anima. Per l’estraneo, quest’Europa sembra essere stanca, anzi sembra volersi congedare dalla storia» (15). Ciascun europeo, ogni italiano, deve rispondere a questa domanda.
8. L’ultima battaglia per la famiglia
In questa Italia anomala e ambigua, nella quale convivono segnali tanto diversi, all’inizio del 2007 si continua a combattere una battaglia di enorme portata ed esemplare per tutto il mondo, essendo l’Italia la sede del Papato, la realtà istituzionale che difende e promuove il rispetto della natura umana creata più di qualsiasi altra, e spesso in posizione assolutamente solitaria. Una sconfitta di chi difende quei valori definiti dalla Chiesa «non negoziabili», cioè vita, famiglia ed educazione, avrebbe grandi conseguenze in tutto il mondo, anche non cattolico. Qualunque norma venisse introdotta nel corpo delle leggi italiane a favore di scelte contro la vita e la famiglia, fosse pure moderatissima, verrà letta come la sconfitta delle forze pro-life e pro-family di tutto il mondo. «Neppure la Chiesa, in Italia, è riuscita a fermare l’avanzata della libertà», verrebbe ripetuto in tutte le televisioni del mondo e sarebbe scritto su tutti i giornali. E la demoralizzazione dei militanti per la vita e per la famiglia sarebbe grande.
Tante «anime belle» fra i cattolici non avvertono la drammaticità dello scontro. Eppure non dovrebbe essere difficile capire in quale direzione si vuole portare l’Italia. In Belgio, per fare l’esempio di un altro Paese cattolico, sebbene molto più scristianizzato, il 13 febbraio 2003 venne approvata la legge che introduceva la possibilità del matrimonio fra persone del medesimo sesso. Nello stesso anno, il 24 aprile, il legislatore belga modificava l’istituto dell’adozione e precisava che gli adottanti dovevano essere sposati o conviventi da almeno tre anni e di sesso diverso. Tre anni dopo, il 20 aprile 2006, il Senato belga approvava una nuova legge che permette a due coniugi o conviventi dello stesso sesso l’adozione.
Perché non anche in Italia? Certo, da noi i rapporti di forza sono diversi e ci vorrà forse molto più tempo, ma, se la direzione del movimento laicista è questa, perché non contrastarlo frontalmente fin dall’inizio? Perché suscitare tanti equivoci sostenendo che il cosiddetto «testamento biologico» non vuole portare all’eutanasia e il riconoscimento di diritti ai singoli componenti delle coppie di fatto non significa equiparare al matrimonio le convivenze, anche fra omosessuali?
La Chiesa italiana, unita al Papa, nel mese di febbraio 2007 ha risposto con una pressoché totale compattezza alla sfida lanciata dalle forze laiciste e dai «cattolici democratici» con il disegno di legge che ha partorito i «Pacs all’italiana», i «Dico» (diritti delle persone conviventi). Ma la battaglia intorno alla famiglia è appena cominciata.

NOTE

(1) Cfr. Valerio Riva, Oro da Mosca. I finanziamenti sovietici al PCI dalla Rivoluzione d’ottobre al crollo dell’URSS, con 240 documenti inediti dagli archivi moscoviti, in collaborazione con Francesco Bigazzi, Mondadori, Milano 1999.
(2) Cfr. Hervé A.[ntonio] Cavallera, Storia dell’idea di famiglia in Italia. Dall’avvento della Repubblica ai giorni nostri, La Scuola, Brescia 2006, p. 45.

(3) Cfr. Scuola e pedagogia nell’URSS. Atti del Convegno di studi sulla scuola e la pedagogia sovietica, Siena, 8/9-12-1951, Associazione Italia-URSS, Roma 1951.

(4) Cfr. Friedrich Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato in rapporto alle indagini di Lewis H. Morgan, trad. it., a cura di Fausto Codino, 6a ed., Editori Riuniti, Roma 2005.

(5) Karl Marx e F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, traduzione dall’ed. critica del Marx-Engels-Lenin Institut di Mosca, a cura di Emma Cantimori Mezzomonti, seguito da Principi del comunismo; Per la storia della Lega dei Comunisti e dalle Prefazioni di Marx e Engels; con un saggio introduttivo di Bruno Bongiovanni, n. ed., Einaudi, Torino 2006.

(6) Cfr. Eric Voegelin, Il mito del mondo nuovo, trad. it., Rusconi, Milano 1970.

(7) Cfr. H. A. Cavallera, op. cit., p. 72.

(8) Il Rapporto Kinsey consta di due volumi: Sexual Behaviour in the Human Male (cfr. Alfred C. Kinsey; Wardell B. Pomeroy; e Clyde E. Martin, Il comportamento sessuale dell’uomo, 1948, trad. it., con una prefazione di Cesare Musatti (1897-1989), Bompiani, Milano 1969) e Sexual Behaviour in the Human Female (cfr. Iidem; e Paul H. Gebhard, Il comportamento sessuale della donna, 1953, trad. it., 12a ed., Bompiani, Milano 1970). Kinsey era uno studioso di zoologia dell’Università dell’Indiana negli Stati Uniti e fonderà il Kinsey Institute for Research in Sex, Gender and Reproduction. Sulla inattendibilità dei dati di cui si avvalgono le conclusioni di Kinsey cfr. l’analisi critica svolta da Roberto Marchesini in Alfred Charles Kinsey e i suoi “rapporti”: “sesso e frode”, in Cristianità. Organo ufficiale di Alleanza Cattolica, anno XXXIV, n. 334, marzo-aprile 2006, pp. 15-19.

(9) Cfr. Il laicismo. Lettera dell’Episcopato italiano al clero, del 25-3-1960, in Enchiridion della Conferenza Episcopale Italiana. Decreti, dichiarazioni, documenti pastorali per la Chiesa italiana, vol. I, 1954-1972, EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1985, pp. 76-95.

(10) Cfr. il n. 14 del testo.

(11) Cfr. Ramón Garcia de Haro, Matrimonio & famiglia nei documenti del Magistero, trad. it., Ares, Milano 2000.

(12) Augusto Del Noce, L’erotismo alla conquista della società, in Via libera alla pornografia? , Vallecchi, Firenze 1970 (ora in Idem, Rivoluzione, risorgimento, tradizione. Scritti su L’Europa (e altri, anche inediti) , a cura di Francesco Mercadante, Antonio Tarantino e Bernardino Casadei, Giuffrè, Milano 1993, pp. 87-88).

(13) Cfr. Roberto Volpi, La fine della famiglia. La rivoluzione di cui non ci siamo accorti, Mondatori, Milano 2007.

(14) Cfr. F. Volpi, op. cit. , p. 40.

(15) Cfr. L’Osservatore Romano, 23-12-2006. >

di Marco Invernizzi

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