La clonazione non serve alla scienza

ADDIO SACRIFICABILITÀ DELL’EMBRIONE,
VERO CHOC DEL PENSIERO UNICO LIBERTARIO

La cosa sorprenderà il pubblico che da anni – e quanto, in Italia, ai tempi del referendum sulla procreazione assistita – si è sentito ripetere che l’unica speranza per curare Alzheimer e Parkinson passava attraverso le staminali embrionali, ovvero per la distruzione di embrioni…

di Marina Corradi


Per la ricerca internazionale è uno choc. Ian Wilmut, colui che fabbricò la pecora Dolly, abbandona la strada del­la ‘clonazione terapeutica’. Non utilizzerà la licenza a clonare embrioni umani, concessagli dal governo britannico per ricercare terapie contro le malattie neurodegenerative. Nei laboratori della Università di Kyoto, spiega Wilmut, è stato sperimentato con successo sui topi un nuovo modo per ottenere cellule staminali simili a quelle embrionali, ma derivanti da cellule adulte.
«Astonishing and exciting », sorprendente e eccitante, così il professore definisce la nuova tecnica. A Kyoto le cellule del derma di un topo adulto sono state fatte regredire a uno stadio primitivo e indifferenziato. Staminali dunque di origine adulta, ma caratterizzate da una ‘pluripotenza’ prossima alla totipotenza delle embrionali, che consente la formazione di ogni tessuto. I ricercatori giapponesi ritengono di poter riprogrammare queste cellule, istruendole a fabbricare nervi, muscoli, ossa, duecento tipi di tessuti diversi. Col vantaggio che, provenendo le staminali dall’organismo dello stesso paziente, non si avrebbe, nel reimpianto, alcun rigetto. E si eviterebbe di clonare e distruggere – a fini di ricerca – embrioni umani.
«È una strada eticamente più accettabile dalla società», dice Wilmut, ma la motivazione della svolta non sembra etica: la nuova tecnica, assicura il professore, oltre che «sorprendente e eccitante» è anche «molto promettente». Cioè, sembra che possa funzionare – che è il solo possibile motore delle scelte di un ricercatore del suo calibro, superfinanziato e famoso in tutto il mondo grazie alla sua straordinaria – benché prematuramente mancata per oscuri difetti di fabbricazione – pecora. Può essere, anche, che la difficoltà a reperire la ‘materia prima’ per la clonazione di serie, cioè gli ovociti femminili, abbia rallentato ultimamente le speranze del Roslin Institute di Edimburgo. Ma tanto entusiasmo per la intuizione giapponese si spiega solo con la concretezza delle prospettive. Convertito, dunque, Wilmut dalla percorribilità di quella ricerca, più che da una questione etica verso la quale si è finora dimostrato freddo.
Così la locomotiva internazionale della ‘clonazione terapeutica’ viene abbandonata in corsa dal padre stesso della clonazione. La cosa sorprenderà il pubblico che da anni – e quanto, in Italia, ai tempi del referendum sulla procreazione assistita – si è sentito ripetere che l’unica speranza per curare Alzheimer e Parkinson passava attraverso le staminali embrionali, ovvero per la distruzione di embrioni. Era un leit motiv mille volte ripetuto, dai tg ai giornali femminili, era un pensiero unico e obbligatorio. Chi scriveva allora di questi argomenti registrava con stupore come ricercatori di statura internazionale, quanto all’utilizzo terapeutico delle staminali embrionali, avessero invece seri dubbi: quelle cellule primitive erano, dicevano, difficilissime da istruire e dirigere nell’organismo, e anche potenzialmente portatrici di rischi proliferativi. Dubbi che però non emergevano o quasi, nel dibattito pubblico.
Due anni dopo, il padre di Dolly, il pioniere della ‘clonazione terapeutica’ che prometteva di usare gli embrioni per curarci un giorno dal Parkinson, annuncia che la strada migliore non è, in effetti, quella. Che pare che si arrivi prima, e con meno fatica, passando attraverso cellule staminali adulte – facendole regredire allo stadio voluto e riprogrammandole. Che è quello che in sostanza dicevano nel 2005 i migliori ricercatori italiani, a quei pochi che li volevano ascoltare. Di modo che, pare che la ragion pratica della efficienza e della concretezza dia oggi ragione ai dubbi di allora.
Il pensiero unico della sacrificabilità dell’embrione alla ‘Ricerca’ era, come spesso accade ai pensieri unici, sbagliato.

Avvenire 18 novembre 2007