Alberto Ruggin, diplomato di Este, è gay, e fin qui è affar suo.
Alberto Ruggin va a confessarlo in Tv, a Ciao Darwin, programma condotto su Canale 5 da Paolo Bonolis, che lo include col numero 23 nella squadra omosex schierata contro la squadra etero, e da lì in avanti diventa affare di 5 milioni di spettatori.
Alberto Ruggin è, o perlomeno ha dichiarato di essere, «capo dei chierichetti» (a 21 anni?) e solista del coro nella basilica di Santa Maria delle Grazie, non una chiesa qualsiasi, un santuario, e questo, se l’interessato permette, è anche e soprattutto affare del parroco, don Paolino Bettanin. Il quale ha deciso di reagire come meglio credeva: escludendo il giovanotto da entrambe le mansioni liturgiche.
Così Ruggin è finito sui giornali, come forse sperava in cuor suo, e questo ancora una volta diventa anche affar nostro, di tutti noi che i giornali li facciamo e li leggiamo.
Ha agito bene o male il reverendo nel retrocederlo al rango di semplice fedele?
Giudicate voi dalle successive dichiarazioni del ventunenne: «Voglio che vengano autorizzate le unioni omosessuali e per questo mi impegnerò politicamente nel mio Comune».
Dal punto di vista dell’ortodossia, nulla si può rimproverare a don Paolino: non ha fatto altro che attenersi alle prescrizioni dettate dall’altro Paolo nella Prima lettera ai Corinzi: «Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio».
Nell’attesa del giudizio finale, si presume che le medesime categorie, tutte peraltro più o meno rappresentate nella Chiesa, debbano almeno essere dispensate dal provvedere alla gestione del regno sulla Terra, anche se le indicazioni del convertito di Tarso al riguardo non appaiono altrettanto esplicite.
Dal punto di vista dell’opportunità, il sacerdote ha commesso un errore inescusabile: è andato a infilarsi nel tritacarne mediatico.
Il che dimostra se non altro una grandissima ingenuità.
Avrebbe dovuto sapere che la piazza era già saldamente presidiata dal suo ex confratello don Sante Sguotti, già parroco di Monterosso, meno di 30 chilometri da Este.
Troppa grazia, Sant’Antonio, per la sola diocesi di Padova, in appena tre mesi.
«Il parroco di Este ha superato in omofobia le posizioni più retrive della Chiesa cattolica», ha sentenziato Alessandro Zan, presidente dell’Arcigay veneto.
Omofobia.
Accusa tremenda.
Una parola gettonatissima, di questi tempi.
Designa l’«avversione per l’omosessualità e gli omosessuali».
L’Accademia della Crusca non la registra nemmeno.
L’Ansa la usò per la prima volta (e una sola volta) nel 1984.
Dall’inizio di quest’anno la medesima agenzia di stampa l’ha già ripetuta 385 volte.
Sullo Zingarelli risulta inventata nel 1985.
Penso di non essere distante dal vero nell’attribuire la paternità dello sdoganamento semantico all’onorevole Franco Grillini, presidente emerito dell’Arcigay e deputato diessino.
Ai tempi in cui il neologismo fu coniato, gli omosessuali non avevano diritto di cittadinanza non solo nelle sagrestie ma neppure nel Pci.
Era il 1986 quando Giancarlo Pajetta, alla vista di una foto che ritraeva Grillini con un gruppo di dirigenti gay davanti al Bottegone, reagì con uno dei suoi lapidari niet: «Io qui i finocchi non ce li voglio».
Rimaneva pur sempre il partito che 37 anni prima, a Udine, aveva espulso l’omosessuale Pier Paolo Pasolini.
Il mio amico Claudio Sabelli Fioretti ha appena pubblicato un libro-intervista con Grillini.
S’intitola: Gay. Molti modi per dire ti amo.
Viene presentato così: «Volete sapere quanti calciatori in Italia sono gay? Volete leggere le polemiche fra Grillini e i cardinali omofobi? Volete sapere che cos’è il gaydar? Volete indovinare quale presidente della Repubblica era omosessuale?».
Quante morbose curiosità: non avevano detto d’essere come gli altri?
La pubblicità contempla un quinto interrogativo, assai sintomatico: «Volete capire perché più si è omofobi più si è omosessuali?».
Suona minaccioso.
Si può tradurre così: se ci critichi tanto, vuol dire che sei come noi.
Curioso modo di procedere: viene rovesciato su chi osa dissentire da certi stili di vita il sospetto d’appartenere a una categoria che pretende legittimazione naturale e giuridica.
Insomma, più sei omofobo più sei normale.
O no?
Mi sfugge allora in che cosa consista la straordinarietà delle rivelazioni di Grillini raccolte da Sabelli Fioretti.
La strategia della potentissima lobby gay appare chiara: non parlate di noi, se non per dirne bene.
Questo sì che è razzismo.
Significa davvero considerarli diversi da tutti. E su chi non si allinea, come il sacerdote di Este, sia anatema.
Un cantore si può escludere dal coro parrocchiale se stona.
Ma per uno scrupolo morale no.
Qui bisogna mettersi d’accordo.
Prima si accusa la Chiesa di non vigilare a sufficienza affinché a chierici e preti attratti da persone del loro stesso sesso sia impedito di riversare le proprie pulsioni all’interno di seminari e parrocchie.
Poi ci si lamenta se un prevosto di paese, avuta pubblica e assordante notifica che il «capo dei chierichetti» si dichiara gay, ricorre spicciativamente a un allontanamento a scopo cautelativo, per non ritrovarsi nell’imbarazzante situazione di doversi un giorno giustificare con qualche genitore, immagino.
Certo, la decisione appare poco caritatevole e anche ingiusta, non essendosi il giovane in cerca di facile notorietà macchiato di alcuna colpa.
Ma mettetevi nella tonaca del parroco: che altro doveva fare, pover’uomo?
Sorvolare?
Fingere di non aver visto?
Tollerare lo scandalo?
Converrà ricordare, di passata, che la lettera Homosexualitatis problema stilata nel 1986 dal prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il cardinale che oggi è papa col nome di Benedetto XVI, bolla l’inclinazione omosessuale «come oggettivamente disordinata», concetto peraltro ribadito nel Catechismo della Chiesa cattolica al paragrafo 2358.
Qualche tempo fa Vittorio Messori mi ha spiegato che la Chiesa, nella sua saggezza di «mater et magistra», in passato aveva sempre fatto in modo che le persone con tendenze omosessuali rimanessero pecorelle nel gregge e non fossero ammesse ai sacri uffici.
Ma poi, in ossequio al politically correct che negli Stati Uniti scambiava questa forma di prudenza per un’intollerabile discriminazione, ha dovuto spalancare le porte delle istituzioni religiose a chiunque.
In precedenza l’ostracismo si estendeva anche a coloro «che sostengono la cosiddetta cultura gay», come si legge in un memorandum della Congregazione per l’educazione cattolica, non a caso redatto in lingua inglese.
Occhio alla data: il documento è del 1985.
Lo stesso anno in cui entra nel vocabolario il sostantivo «omofobia».
Se oggi molte diocesi americane sono screditate e in bancarotta, subissate da richieste di risarcimento presentate dalle vittime del clero gay, lo si deve esattamente a questo: alla paura della Chiesa di apparire omofoba.
Per cui, parafrasando la frase pronunciata da Madame Roland, vittima della rivoluzione francese, un attimo prima che la lama della ghigliottina le separasse la testa dal collo, viene da chiedersi: omofobia, quanti delitti si commettono in tuo nome?
Qualche settimana fa è accaduto in Inghilterra un fatto emblematico.
I giornali britannici di qualità, dal Times al Telegraph, ma anche quelli popolari, come il Daily Mail, ne hanno riferito con ampiezza.
Idem la Bbc.
In Italia silenzio di tomba.
Due gay dichiarati, Ian Wathey e Craig Faunch, che vivevano more uxorio a Pontefract, nello Yorkshire occidentale, sono stati lasciati liberi di violentare per lungo tempo i ragazzini dati loro in affidamento.
Ebbene, durante il processo è emerso che gli assistenti sociali del Metropolitan district council della città di Wakefield non avevano mosso un dito per paura di essere marchiati come «homophobic».
La coppia era anzi considerata «da trofeo».
L’orientamento sessuale degli «educatori» non è stato giudicato un motivo significativo «per pensare l’impensabile».
I due omosex, fra i primi a poter diventare genitori adottivi nel Regno Unito, hanno ottenuto la custodia di 18 ragazzi in soli 15 mesi.
La coppia ha abusato di bambini di appena 8 anni.
Quando una madre è andata a esporre i suoi dubbi, gli assistenti sociali, sempre per non apparire omofobi, si sono accontentati dei chiarimenti forniti da Wathey e Faunch e hanno spedito a casa loro persino un quattordicenne affetto da una grave forma di autismo, la sindrome di Asperger, che è stato «curato» con dosi massicce di pornografia gay.
Michelle Elliott, direttrice di Kidscape, un’organizzazione contro gli abusi infantili, ha commentato: «Il buonsenso è uscito dalla finestra quando hanno permesso alla political correctness di prendere il sopravvento».
In Italia sta uscendo dalla porta principale.
Stefano Lorenzetto
(C) il Giornale 30 novembre 2007