Italia e Iraq: storie di ordinario cristianesimo

Europei e caldei iracheni: cristiani gli uni, cristiani gli altri. Ma mentre i nostri fratelli del Medioriente lottano per sopravvivere, qui prosegue l’edificazione di Eurabia…


Viaggi alla frontiera, incontri coi politici. Così monsignor Kassarji si fa in quattro per i profughi, «il mio gregge».


E intanto a casa nostra le chiese continuano a diventare moschee.


Viaggi alla frontiera, incontri coi politici. Così monsignor Kassarji si fa in quattro per i profughi, «il mio gregge».


Potrebbero chiamarlo il “vescovo volante” e nessuno avrebbe niente da ridire. Michel Kassarji, vescovo caldeo di Beirut, passa da una distribuzione di pacchi alimentari a un colloquio col capo dello Stato, da un’alzataccia nel mezzo della notte per correre alla frontiera dove è stato arrestato un gruppo di profughi iracheni per immigrazione clandestina a un appuntamento coi dirigenti dell’agenzia dell’Onu per i rifugiati per far sì che i fuggiaschi dal massacro iracheno ottengano lo statuto di protezione. Da un paio di anni i profughi cristiani iracheni sono diventati la sua ossessione. Meglio: l’urgente dovere che la Provvidenza gli ha assegnato.
«Nella tradizione orientale ogni Chiesa è responsabile delle condizioni di vita dei suoi fedeli», spiega. «Non conta che questa gente non appartenga alla mia diocesi: anche se presi tutti insieme i profughi iracheni caldei sono numerosi quasi come tutto il mio gregge in Libano, non posso sottrarmi a questa responsabilità raddoppiata». Cinquecento pacchi alimentari al mese, 400 borse di studio per i figli dei profughi iscritti a scuole cristiane libanesi, la scarcerazione di decine di arrestati, l’ottenimento del riconoscimento dello statuto di rifugiato per decine di profughi, la gestione di un doposcuola e di un corso di recupero serale per i ragazzi che di giorno lavorano. Per essere una Chiesa che conta 6 mila fedeli in tutto il Libano, i caldei non potrebbero fare di più per i loro fratelli che arrivano dall’Iraq.


In fila per il cibo
Attorno al vescovo si muovono da preziosi collaboratori soprattutto la segretaria Katy Osta, il manager Said Hakras e il tesoriere della Società caldea di beneficenza Georges Saman, un ex direttore di banca membro del Consiglio generale caldeo libanese che è il beniamino dei profughi: li visita nelle loro povere case, censisce i loro casi penosi e li riferisce al vescovo. «Ho trovato degli amici imprenditori disposti a dar lavoro agli iracheni per 300 dollari al mese e con orari lavorativi normali», spiega soddisfatto.
«Sa, qua nessuno dà loro più di 10 dollari al giorno, e gli fanno fare di tutto in qualunque orario». La visita alle case in cui vivono i profughi nei quartieri popolari di Beirut in compagnia di Georges è un’esperienza toccante. Persone che disponevano di dimore dignitose o addirittura facoltose adesso vivono ammassate in monolocali o bilocali fitti di immaginette devozionali alle pareti, ma povere di mobilio e accessori. «Purtroppo alcuni si approfittano della povertà di questa gente», commenta amaro monsignor Kassarji. «Una signora con una figlia e col marito malato, per esempio, ha accumulato tre mesi di arretrati di affitto, e il padrone di casa sfrutta la situazione per abusare di lei. Noi la aiutiamo a pagare, ma non arriviamo a risolvere il suo problema».
I colloqui coi profughi che il martedì e il mercoledì fanno la fila per ricevere un pacco alimentare del valore di 22 dollari Usa (contenente olio vegetale, zucchero, té, latte condensato, ceci, lenticchie, ecc.) terminano sempre con una richiesta da parte loro: «Vorremmo un posto come questo più vicino a dove viviamo, dove mandare a scuola i nostri figli e ricevere gli altri aiuti senza rischiare di essere arrestati dalla polizia per clandestinità». Monsignor Kassarji ci tiene tantissimo, ma la strada della fondazione di un centro di accoglienza per i profughi iracheni, completo di chiesa, scuola, ostello e centro ricreativo, è ancora molto lunga da percorrere. È una causa che chi vuole aiutare fattivamente i profughi cristiani iracheni dovrebbe far propria.
Di Rodolfo Casadei

E intanto a casa nostra le chiese continuano a diventare moschee


In un programma di al Jazeera dedicato alla decisione della regina d’Inghilterra di insignire lo scrittore Salman Rushdie del titolo di cavaliere, il conduttore ha detto che «la Gran Bretagna non può aver agito per offendere i musulmani, dato che pochi giorni prima ha autorizzato la trasformazione di una chiesa in moschea». Nelle settimane precedenti, la stessa storia era avvenuta a Clitheroe, nel Lancashire, una cittadina inglese con tanto di castello normanno e una chiesa anglicana che risale al 1122, dove le autorità municipali hanno concesso il permesso di trasformare una chiesa in una moschea. Pare che non sia ancora chiaro a tutti che la cessione (ma anche la vendita) da parte delle differenti denominazioni cristiane di luoghi di culto a comunità musulmane non viene mai percepecita da queste ultime come un’azione di generosa fraternità. Quando, qualche anno fa, il cardinale Salvatore Pappalardo ha regalato ai musulmani tunisini di Palermo una chiesa del Settecento non più in uso, la stampa tunisina ha titolato: “La vittoria dell’islam sul cristianesimo, il cardinale di Palermo obbligato a trasformare una chiesa in moschea”. L’Oriente pullula di chiese trasformate in moschee. Basta ricordare la moschea Omayyade di Damasco e quella di Ibn Tulun al Cairo, senza dimenticare, a Istanbul, Santa Sofia (ora adibita a museo) e un’altra quarantina di ex chiese menzionate in un prezioso libro da un ricercatore turco. Ma in tutti questi casi si è trattato di una conversione forzata al culto islamico, mai di una deliberata cessione o vendita. Detto ciò, è chiaro che se una comunità islamica desidera costruirsi una moschea, deve poterlo fare. A condizione, ovviamente, di disporre dei permessi e di fondi propri.


Di Camille Eid
camilleid@iol.it


 Da Tempi n° 27 del 05/07/2007