In libreria l’autobiografia del Card. Giacomo Biffi

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MEMORIE E DIVAGAZIONI DI UN ITALIANO CARDINALE

Esce in questi giorni in libreria l’autobiografia del cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo emerito di Bologna, intitolata Memorie e divagazioni di un italiano cardinale (Cantagalli, pagg. 636, euro 23,90), un volume che si legge tutto d’un fiato e rappresenta un eccezionale spaccato della vita della società italiana e della Chiesa degli ultimi settant’anni…

1) Mafalda in conclave con il cardinale Biffi di Andrea Tornielli

2) E Biffi sgridò Wojtyla «Non pentirti troppo» di Martino Cervo

3) IL CARDINALE DALLA MEMORIA LUNGA del Card. Giacomo Biffi

1)

Mafalda in conclave con il cardinale Biffi
Nell’autobiografia dell’arcivescovo di Bologna molti episodi curiosi. E non mancano le critiche a Giovanni XXIII e Wojtyla

di Andrea Tornelli

E il cardinale in conclave citò il fumetto di Mafalda. Esce in questi giorni in libreria l’autobiografia del cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo emerito di Bologna, intitolata Memorie e divagazioni di un italiano cardinale (Cantagalli, pagg. 636, euro 23,90), un volume che si legge tutto d’un fiato e rappresenta un eccezionale spaccato della vita della società italiana e della Chiesa degli ultimi settant’anni. Tanti gli aneddoti e i retroscena raccontati da questo «italiano cardinale» che non ha mai nascosto il suo pensiero dietro fumosi giri di parole o stile «ecclesialese» e ha sempre detto pane al pane e vino al vino senza temere di apparire controcorrente o politicamente scorretto.
Uno degli episodi più curiosi del libro riguarda l’ultimo conclave, dell’aprile 2005, dal quale è uscito Papa (par di capire anche grazie al contributo di Biffi) il cardinale Ratzinger. In uno degli incontri che quotidianamente i porporati tenevano prima di rinchiudersi a votare, il 15 aprile, Biffi intervenne dicendo: «Vorrei esprimere al futuro Papa (che mi sta ascoltando) tutta la mia solidarietà, la mia simpatia, la mia comprensione, e anche un po’ della mia fraterna compassione. Ma vorrei suggerirgli anche di non preoccuparsi troppo di quello che qui ha sentito e non si spaventi troppo. Il Signore Gesù non gli chiederà di risolvere tutti i problemi del mondo. Gli chiederà di volergli bene con un amore straordinario… In una “striscia” e “fumetto” che ci veniva dall’Argentina, quella di Mafalda – continua Biffi – ho trovato diversi anni fa una frase che in questi giorni mi è venuta spesso alla mente: “Ho capito – diceva quella terribile e acuta ragazzina – il mondo è pieno di problemologi, ma scarseggiano i soluzionologi”».
Dirette e per nulla paludate sono anche le critiche che il cardinale rivolge al Concilio Vaticano II e a Giovanni XXIII. Al primo, Biffi rimprovera il silenzio sul comunismo. «Comunismo: il Concilio non ne parla. Se si percorre con attenzione l’accurato indice sistematico, fa impressione imbattersi in questo categorico asserto. Il comunismo è stato senza dubbio il fenomeno storico più imponente, più duraturo, più straripante del secolo ventesimo; e il Concilio, che pure aveva proposto una Costituzione sulla Chiesa e il mondo contemporaneo, non ne parla. Il comunismo – continua il cardinale – a partire dal suo trionfo in Russia nel 1917, in mezzo secolo era già riuscito a provocare molte decine di milioni di morti, vittime del terrore di massa e della repressione più disumana; e il Concilio non ne parla. Il comunismo (ed era la prima volta nella storia delle insipienze umane) aveva praticamente imposto alle popolazioni assoggettate l’ateismo, come una specie di filosofia ufficiale e di paradossale “religione di stato”; e il Concilio, che pur si diffondeva sul caso degli atei, non ne parla. Negli stessi anni in cui si svolgeva l’assise ecumenica, le prigioni comuniste erano ancora luoghi di indicibili sofferenze e di umiliazioni inflitte a numerosi “testimoni della fede” (vescovi, presbiteri, laici convinti credenti in Cristo); e il Concilio non ne parla». «Altro che i supposti silenzi nei confronti delle criminose aberrazioni del nazismo – conclude – che persino alcuni cattolici (anche tra quelli attivi al Concilio) hanno poi rimproverato a Pio XII!».
Di Papa Giovanni, invece, Biffi critica alcune espressioni divenute poi il Leitmotiv del pontificato. Quella contro i «profeti di sventura». E in proposito il cardinale ricorda che in realtà a proclamare «l’imminenza di ore tranquille e rasserenate, nella Bibbia sono piuttosto i falsi profeti». Quanto alla necessità di guardare più a ciò che unisce invece che a ciò che divide, Biffi lo definisce un principio assennato per quanto concerne i problemi della quotidianità «ma guai se ce ne lasciamo ispirare nella testimonianza evangelica di fronte al mondo» perché «in virtù di questo principio, Cristo potrebbe diventare la prima e più illustre vittima del dialogo con le religioni non cristiane».
Non manca pure un accenno al dissenso che il cardinale ebbe con Giovanni Paolo II in merito al «mea culpa» per gli errori del passato promosso in occasione del Giubileo: «A mio avviso avrebbe scandalizzato i “piccoli”». «Il Papa – continua Biffi – testualmente allora disse: “Sì, questo è vero. Bisognerà pensarci su”. Purtroppo non ci ha pensato abbastanza».
Colpiscono infine nel libro anche le cose non dette: l’autore dedica pochissime righe al cardinale Carlo Maria Martini, del quale fu ausiliare per più anni, limitandosi a dire che con la fine dell’episcopato del suo predecessore, il cardinale Colombo, era finita «un’epoca tra le più luminose e feconde della nostra vicenda ecclesiale (milanese, ndr) per il calore e la certezza della fede».
Il Giornale n. 253 del 2007-10-26

2)

E Biffi sgridò Wojtyla «Non pentirti troppo»
Il Cardinale si racconta: dagli anni del fascismo ai litigi con Craxi. E una volta bacchettò anche Giovanni Paolo II

di Martino Cervo

Ambrosiano se mai ve n’è stato uno nella storia della Chiesa italiana, Giacomo Biffi ha preso in parola il detto del Santo patrono di Milano: «Per un vescovo non c’è nulla tanto rischioso davanti a Dio e tanto vergognoso davanti agli uomini, quanto non proclamare liberamente il proprio pensiero». Il motto di Ambrogio «Ubi fides, ibi libertas» è la chiave del suo libro “Memorie e digressioni di un italiano Cardinale” (Cantagalli, pp. 640, euro 23,9).
BOLOGNA
Alla città Biffi ha dedicato la coppia di aggettivi più famosa e duratura: sazia e disperata. Alla città si è dedicato in un servizio costante dopo la richiesta di Giovanni Paolo II.
CALABRESI
Le pagine più violente del libro sono dirette contro gli intellettuali che hanno sottoscritto l’appello contro il «commissario torturatore». «Tutti con spensierato entusiasmo si lasciarono coinvolgere nell’assurda campagna. Dentro di me non avevo dubbi circa la criminale stupidità di cui le più belle e illuminate menti d’Italia stavano dando prova». Analoga asperità la si ritrova nella critica alla campagna radicale sulla diossina di Seveso, costata 17 aborti inutili tra il ’76 e il ’77. Più in generale, nutre una radicata diffidenza verso i “pensatori professionisti”.
FASCISMO E ANTIFASCISMO
Il Ventennio lo sorprende a Milano, diventa, come tutti, Balilla, adunate comprese, con i loro inni «imbecilli». Ma «non sono una scocciatura eccessiva, perché spesso le marinavo per andare all’oratorio». La placida vita di via Paolo Frisi scorre senza fasci littori e senza indispettire troppo le autorità. L’antifascismo «convenzionale», invece, merita qualche bacchettata. Anonima, ma non meno sferzante, quella che arriva fino al Nobel: parlando dei repubblichini, Biffi li compatisce come «giovani malinformati e fanatici», tutto sommato da compatire più che da fustigare. Ben peggio «alcuni di loro che, dopo essere stati paracadutisti volontari, impiegati nelle azioni di rastrellamento col compito di catturare i renitenti alla leva e spedirli in Germania, si sono poi distinti per un eccezionale ardore antifascista, come a voler meglio mascherare il passato; e talvolta si sono anzi prodotti in un inspiegabile accanimento antiecclesiale, forse nella convinzione di acquisire così una benemerenza politica in più».
ITALIA
Pensa che l’italianità sia qualcosa di più grande degli ultimi 200 anni di storia, e che per la Chiesa sia giusto averla a cuore. A Pertini che lo sfotte per i presunti dissidi in seno al conclave del ’78, Biffi replica: «Si sono messi d’accordo in fretta: ci sono voluti tre giorni per fare il Papa e due mesi per fare il presidente della Repubblica». Con Craxi ha una polemica sui legami tra Stato liberale e fascismo. Il primo fa ironicamente dedicare al cardinale l’inno d’Italia, come vessillo della purezza mazziniana. La replica di Biffi è da manuale: «Sono molto onorato. Spero che l’onorevole Craxi l’abbia cantato tutto, fino alla parte che recita: “I figli d’Italia si chiaman Balilla”». Si incavola a morte con il Grande digiunatore, che assomiglia tanto a Pannella. Non si schiera, anche se l’etichetta di conservatore ormai non gli dà più fastidio. Quando, nel 2000, osa far presente che sarebbe opportuno regolamentare i flussi migratori privilegiando le popolazioni cristiane, viene quasi linciato.
WOJTYLA
Ne è immediatamente conquistato, eppure nel ’97 avrà modo di bacchettare anche lui, sul perdono dovuto dalla Chiesa per le sue colpe: «Bisogna fare attenzione a non scandalizzare i “piccoli», dice Biffi a colloquio. «Sì, questo è vero. Bisognerà pensarci», replica il Papa. «Purtroppo non ci ha pensato abbastanza», chiosa il cardinale nel libro.
LIBERO 26 ottobre 2007

3)

IL CARDINALE DALLA MEMORIA LUNGA

Dossetti teologo autodidatta. Un consiglio a Wojtyla (non ascoltato).
Settant’anni di forti controversie

Il 30 ottobre sarà in libreria “Memorie e digressioni di un italiano cardinale” (Cantagalli, pag. 640 euro 23.90), l’autobiografia del cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo emerito della diocesi di Bologna. Pubblichiamo in anteprima tre estratti: su don Giuseppe Dossetti, sul referendum per l’abrogazione della legge sul divorzio, e il ricordo di un pranzo con Papa Giovanni Paolo II in cui si parlò dei mea culpa della chiesa.

del Card. Giacomo Biffi

I funerali di don Giuseppe Dossetti
L’ultimo congedo della Chiesa di Bologna dal suo presbitero, don Giuseppe Dossetti, si svolse il 18 dicembre 1996 (a tre giorni dalla fine, dopo lunga sofferenza, del suo pellegrinaggio terreno). Alla liturgia parteciparono una quindicina di vescovi, oltre a una folta schiera di sacerdoti, alle autorità e a non pochi rappresentanti del mondo politico. Come già è apparso in queste Memorie, Dossetti aveva notevolmente segnato gli inizi della mia vita adulta; e nel tempo del mio ministero petroniano io ho sempre trovato in lui attenzione, stima, incoraggiamento. C’è di questo un’eco anche nelle parole da me pronunciate nel rito funebre. Ho detto tra l’altro: “Chi ha avuto la fortuna di accostarlo personalmente, in questa circostanza è naturalmente sospinto a ravvivare dentro di sé qualche suo speciale ricordo – qualche fatto, qualche parola – quasi per un indennizzo sia pure inadeguato alla perdita di cui tutti soffriamo. Per mio conto, sono molti i colloqui che ho avuto con lui; ma stranamente quello che più mi si fa presente è il più remoto nel tempo. Nel lontano settembre 1974 sono andato a cercarlo in Terra Santa, con un gruppo di miei compagni. E siamo stati da lui affabilmente intrattenuti nel giardino del parroco di Gerico – mi pare ancora di vederlo – sotto l’afa di un caldo pomeriggio palestinese. Che cosa eravamo andati a fare? Volevamo riscoprire un uomo che, più di un quarto di secolo prima, ci aveva letteralmente affascinati facendoci balenare con la sua figura e la sua azione la prospettiva di una fede piena e di una rigorosa militanza cristiana poste al servizio, finalmente, della storia d’Italia. Volevamo vedere che fine aveva fatto, dopo tante vicende e tanto silenzio, questo incantatore della nostra giovinezza. Egli non si sottrasse a questa indagine affettuosa, anche se un po’ impertinente, e ci parlò a lungo, comunicandoci con schiettezza le riflessioni del suo ritiro orante e della sua solitudine. Trovammo che niente era mutato nel vigore della sua ‘obbedienza al Vangelo’ (cfr. Rm 1, 5; 10, 16), che, se mai, si era fatta più fervida e più incontentabile. Il che naturalmente non ci stupiva affatto. Ma trovammo anche, inaspettatamente, che non era per niente affievolita la sua attenzione e la sua passione per le sorti civili, politiche e sociali del nostro paese. Aveva sì mutato il suo giudizio sulla forma concreta e operativa del suo impegno personale di uomo e di credente, che ormai aveva fatto un’altra scelta di vita; ma non erano affatto decadute o illanguidite le motivazioni che a suo tempo avevano ispirato e sorretto quell’impegno. Motivazioni che poi, a ben riflettere, si identificano con il comando evangelico dell’amore: dell’amore per Dio e dell’amore per il prossimo. Per ciò non mi sono meravigliato più di tanto, quando in questi ultimi tempi ha levato la sua voce – lui, un monaco appartato e ormai vicino alla conclusione della sua straordinaria esistenza – sui temi terrestri della Costituzione repubblicana e degli indirizzi di governo. Potremmo dire, con un po’ di semplificazione, che don Giuseppe in tutta la vita e in tutte le molteplici situazioni ha preso Dio sul serio; e forse qui sta la fonte del suo sentirsi un po’ straniero e spaesato in una cristianità in cui tutti facciamo fatica ad accogliere veramente la intestazione che sta a capo del Decalogo: ‘Io sono il Signore Dio tuo’. E in tutta la vita e in tutte le molteplici situazioni don Giuseppe ha preso sul serio il suo prossimo, il bene comune, il valore autentico di una convivenza organizzata secondo giustizia; e forse qui sta la fonte del suo sentirsi un po’ straniero e spaesato entro il mondo politico italiano”.
La “teologia” di Dossetti
Giuseppe Dossetti è stato dunque un autentico uomo di Dio, un asceta esemplare, un discepolo generoso del Signore che ha cercato di spendere totalmente per lui la sua unica vita. Sotto questo profilo egli resta un raro esempio di coerenza cristiana, un modello prezioso seppur non facile da imitare. E’ stato anche un teologo? Voglio dire un teologo sul serio, ricco di verità e affidabile? Ci sono forti motivi per dubitarne. Nel 1984, in una lunga coversazione con Leopoldo Elia e Pietro Scoppola, si è lasciato andare a qualche considerazione che ci rende avvertiti. Egli ha sorprendentemente letto il suo apporto al Vaticano II alla luce della sua partecipazione ai lavori della Costituente: “Nel momento decisivo proprio la mia esperienza assembleare ha capovolto le sorti del Concilio stesso”. Ma come è possibile – a chi abbia qualche consuetudine di contemplazione della realtà trascendente della Chiesa – confrontare e porre in relazione un’accolta disparata di uomini lasciati alle loro forze, ai loro pensieri terreni, ai loro problemi economici e sociali, alla loro ricerca del difficile equilibrio degli interessi, con la convocazione di tutti i successori degli apostoli, assistita dallo Spirito Santo da essi quotidianamente invocato? Un presbitero legittimamente ammesso alle loro discussioni non può ritenere di avere la funzione di “manovratore strategico” (tanto meno di “capovolgere”); la sua presenza è per aiutare i vescovi, se gli riesce, a chiarirsi e a enucleare al meglio quella verità rivelata che essi (soli maestri, in senso proprio e pertinente, del popolo di Dio) già possiedono, sia pure implicitamente. Di più, nella stessa circostanza Dossetti addirittura si compiace di aver “portato al Concilio – anche se non fu trionfante – una certa ecclesiologia che era riflesso anche dell’esperienza politica fatta”. Ma che tipo di “ecclesiologia” poteva scaturire da una tale ispirazione e da queste premesse “mondane”?
Una discussione rivelatrice
Alla fine di ottobre del 1991 Dossetti mi ha cortesemente portato da leggere il discorso che avrebbe poi tenuto per il centenario della nascita di Lercaro (cui già s’è fatto cenno in queste Memorie). “Lo esamini, lo modifichi, aggiunga, tolga con libertà”, mi ha detto. Ed era certamente sincero: in quel momento parlava l’uomo di Dio e il presbitero fedele. Purtroppo, qualcosa che non andava ho effettivamente trovato; ed era l’idea, presentata con favore, che, come Gesù è il Salvatore dei cristiani, la Torah (la Legge mosaica) è la strada alla salvezza per gli ebrei. L’asserzione era mutuata da un autore tedesco contemporaneo, ed era cara a Dossetti probabilmente perché ne intravedeva l’utilità ai fini del dialogo ebraico-cristiano. Ma non avrei mai potuto accettare che si mettesse in dubbio la verità di fede che Gesù Cristo è l’unico Salvatore di tutti. Per superare la mia opposizione, egli cercò di attenuare la frase in questi termini: “Non sembra che risulti ancora abbastanza fondata la proposta delle due vie di salvezza, cioè Cristo per i gentili e la Torah per Israele”. Era, come si vede, un compromesso ideologico; non era l’ortodossia. “Don Giuseppe, – gli dissi – ma non ha mai letto le pagine di san Paolo e la narrazione degli Atti? Non Le pare che nella prima comunità cristiana il problema fosse addirittura quello contrario? In quei giorni era indubbio e pacifico che Gesù fosse il Redentore degli ebrei; si discuteva casomai se anche i gentili potessero essere pienamente raggiunti dalla sua azione salvifica”. Basterebbe tra l’altro – mi dicevo tra me – non dimenticare una piccola frase della Lettera ai Romani, là dove dice che il Vangelo di Cristo “è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco” (cfr. Rm 1, 16). Alla fine egli accondiscese ad accogliere e a pronunciare questa espressione: “Non pare che sia conforme al pensiero di san Paolo dire che la strada della salvezza per i cristiani è Cristo, e per gli ebrei è la Legge mosaica”. Mi sono accontentato, anche se ciò che avrei preferito sarebbe stato di non citare neppure un parere teologicamente così abnorme.
I “teologi autodidatti”
Dossetti ha avuto uno svantaggio iniziale: è stato teologicamente un autodidatta. Qualcuno domandò una volta a san Tommaso d’Aquino quale fosse il modo migliore di addentrarsi nella sacra doctrina e quindi di diventare un buon teologo. Egli rispose: andare alla scuola di un eccellente teologo, così da esercitarsi nell’arte teologica sotto la guida di un vero maestro; un maestro, soggiunse, come per esempio Alessandro di Hales. La sentenza a prima vista meraviglia un po’: ci si sarebbe aspettati prima di tutto il suggerimento di un percorso culturale e libresco; di buone letture personali; di esplorazione degli scritti dei padri e degli scrittori sacri; di ricerche esegetiche, filosofiche, storiche. E invece ancora una volta il Dottore Angelico rivela la sua originalità, la sua saggezza, la sua conoscenza dell’indole sia della sacra doctrina sia della psicologia umana. Nella sua concretezza egli vedeva il rischio non ipotetico degli autodidatti: quello di ripiegarsi su se stessi e di ritenere fonte della verità le proprie letture e la propria acutezza; più specificamente il rischio di finire col compiacersi di un sapere incontrollato, e perfino di arrivare a un’ecclesiologia incongrua e a una cristologia lacunosa. E’ stato appunto il caso di don Giuseppe Dossetti, che nell’apprendimento della “scientia Dei, Christi et Ecclesiae” non ha avuto maestri. A chi gli avesse chiesto da dove avesse preso le sue intuizioni, le sue prospettive di rinnovamento, le sue proposte di riforma, egli avrebbe ben potuto rispondere (e non facciamo che usare le sue parole): “dalla mia mente e dal cuore”.

* * *


Il referendum sul divorzio
Con la legge del 1 dicembre 1970 fu introdotto anche in Italia l’istituto del divorzio. Nella millenaria storia della nazione si trattava di una svolta di eccezionale rilevanza. Il principio dell’indissolubilità del matrimonio – che arginava con notevole efficacia gli impulsi egoistici degli adulti, (impulsi sempre pronti a entrare in gioco) e tutelava il più possibile il diritto dei figli di crescere in un contesto non disarmonico (dal momento che i figli hanno la natura di “vincolo oggettivo” inscindibile tra il padre e la madre) – aveva iscritto nella coscienza del popolo un alto ideale di famiglia, premessa di ogni stabilità. Questa tipica famiglia italiana è stata nei secoli il nostro bene più prezioso e quasi una riserva di energia e di speranza, che consentiva agli italiani di superare ogni sconvolgimento politico e sociale, ripartendo dopo ogni ricorrente sventura con animo giovane e nuovo. Tuttavia il mondo cattolico non si sgomentò troppo per questo mutamento inquietante; forse si cullava nella previsione che la vera partita si sarebbe giocata al momento del referendum abrogativo. Per tale referendum furono raccolte di slancio le firme di richiesta, che arrivarono subito a un milione e trecentomila (segno che nel 1970 il mondo cattolico dimostrava ancora qualche vitalità). Fosse stato possibile procedere allora alla consultazione, i divorzisti avrebbero avuto qualche speranza in meno. Si fece di tutto per rimandarla al massimo, fino a provocare un opinabile scioglimento anticipato delle Camere (ed era la prima volta che avveniva). E così il referendum fu fissato addirittura per il maggio 1974. La dilazione fu fatale. In quei tre anni e mezzo la crisi ecclesiale si era andata estendendo. La multiforme contestazione aveva intensificato i suoi influssi, le intemperanze “teologiche” avevano contagiato ambienti sempre più numerosi, l’associazionismo cattolico classico era quasi irreperibile. Quella campagna elettorale – dove era in discussione non uno schieramento politico o le fortune di qualche personaggio pubblico, ma addirittura uno dei cardini della vita cristiana e il miglior avvenire d’Italia – è tra i miei ricordi pastorali più malinconici. Ai nostri livelli, a farsi sentire erano praticamente soltanto i difensori del divorzio. Ho avuto qualche aiuto unicamente dai cristiani semplici e ricchi di fede, che magari non avevano mai letto il Deuteronomio o la Gaudium et spes, ma conoscevano le parole di Gesù e ancora pensavano che fosse giusto seguire le indicazioni dei propri pastori. Era per me una pena grandissima il vedere molti cattolici fervidi, colti, generosi, dalla testimonianza cristiana ineccepibile (per i quali nutrivo sentimenti di amicizia e di stima), che di punto in bianco erano passati al campo di Agramante. E portavano ragioni nobilissime: soprattutto quella che non bisognava sottoporre i non credenti a una legislazione e a una visione del matrimonio che erano proprie dei credenti. E poi – dicevano, con la solita capacità di “leggere i segni dei tempi” – non era il caso di preoccuparsi, perché “tanto i cristiani non avrebbero mai divorziato”; profezia che ognuno vede come si sia avverata. A disanimarci del tutto, giunse la sorprendente notizia che all’Università Cattolica del Sacro Cuore il rettore, Giuseppe Lazzati, aveva concesso ai paladini del divorzio uno spazio nell’ateneo per esporre i loro argomenti e l’aveva invece negato al professor Sergio Cotta, che chiedeva a nome dei promotori del referendum di spiegare le ragioni per dire “sì” all’abrogazione della legge. Il rifiuto era “per motivi di ordine pubblico”, si scusava Lazzati; bella università “cattolica”, veniva da dire, e bell’esempio di coraggiosa militanza ecclesiale. E così si andò incontro al disastro. I divorzisti ottennero il 59,1 per cento dei voti contro il 40,9 dei difensori dell’indissolubilità. Ricordo alcune riflessioni che mi vennero spontanee in quell’occasione. Era certamente lecito a tutti non condividere l’opportunità dell’iniziativa referendaria (come non la condivideva, ad esempio, il professor Lazzati). Ma una volta che il confronto era in atto, nessuno dei veri discepoli del Signore Gesù poteva esimersi dall’obbligo di darsi da fare, perché il matrimonio indissolubile restasse difeso nella legislazione italiana. Una sconfitta si poteva anche prevedere, in una società come era diventata la nostra. Ma si doveva evitare una sconfitta di queste proporzioni, che senza dubbio avrebbe avuto nel tempo conseguenze gravissime. Non ho mai preteso di essere profeta, ma non ho potuto fare a meno di prevedere che un laicismo ringalluzzito da questo trionfo ci avrebbe regalato nel prossimo futuro la legittimazione del l’aborto e di ogni altra forma di fatale permissivismo. Sapevo che molti avevano votato “no” per offrire un rimedio ad alcune situazioni pietose. Ma mi aveva illuminato da tempo una considerazione di Chesterton su ciò che già era accaduto nel mondo anglosassone, dove il divorzio – introdotto da gente probabilmente in buona fede per rimediare ai casi difficili – aveva radicalmente cambiato l’idea stessa di matrimonio e di famiglia. “La chiesa aveva ragione – dice il grande scrittore – nel rifiutare anche le eccezioni, e le eccezioni sono diventate la regola”.

Digressione
Spirito di fede e dialettica democratica.
Discorso ai cristiani del “No”


I destinatari
Queste riflessioni non sono rivolte a tutti quelli che nel referendum hanno votato no e si sono presi così implicitamente la responsabilità del drammatico traballamento della compagine familiare (che è sotto gli occhi di tutti), e della sorte infelice delle schiere di ragazzi oggi privati del loro diritto ad avere come primari educatori un padre e una madre (e non dei succedanei e dei surrogati) uniti e collaboranti. Le destiniamo invece a quelli tra loro che sono sinceramente credenti. Gli altri – quelli che san Paolo chiama “psichici”, vale a dire non raggiunti dallo Spirito del Risorto – non sarebbero in grado di percepirne il senso e il valore (cfr. 1 Cor 2, 14).
Spirito di fede
Credere significa accogliere, con la persona di Gesù di Nazaret, anche il suo nous (secondo la parola del testo greco), cioè il suo pensiero e la sua mentalità: “Noi abbiamo il nous di Cristo” (1 Cor 2, 16). Il credente non può chiedersi: come deve essere il matrimonio secondo me? Deve dire piuttosto: com’è il matrimonio secondo Cristo? E poi dovrà impegnarsi ad attenersi al parere di Cristo. Ora il parere di Cristo – il nous di Cristo – è che il matrimonio è indissolubile. Qui bisogna fare attenzione a non cadere in un equivoco. Gesù non ritiene indissolubile solo il “sacramento del matrimonio”; ritiene indissolubile il matrimonio fin dal principio, cioè come è uscito dalle mani del Dio creatore: “Dal principio non fu così” (cfr. Mt 19, 8), egli dice contrapponendo alla divorzistica legislazione mosaica la volontà del Dio eterno. Il credente dunque sa che secondo il Signore Gesù l’unione sponsale dell’uomo e della donna non può essere sciolta dal momento che sono diventati “una sola carne” (Gen 2, 24), come già si esprime il Libro di Dio a proposito del matrimonio all’alba dell’umanità. A questo punto al credente non resta che una prospettiva: il Salvatore dell’uomo è colui che più di ogni altro (e quindi più di ciascuno di noi, anche del più acculturato) conosce l’uomo e ciò che è intrinseco alla natura umana, con le sue esigenze e con i suoi impulsi a prevaricare. Perciò chi ha lo “spirito di fede” (e si abitua a guardare tutto con gli occhi di Cristo), non potrà avere altro parere su questa questione che quello del suo Signore, e si guarderà bene dal contrastare in qualche modo la volontà e gli ideali propri dell’unico vero Maestro.
Dialettica democratica
Quando un corpo elettorale viene consultato in merito a qualsivoglia problema, la dialettica democratica suppone ed esige che ogni votante esprima il suo personale convincimento nel merito e che alla fine tutti accolgano il risultato che ha conseguito la maggioranza. Chi votasse non secondo la sua intima persuasione ma per considerazioni estrinseche (come sarebbe, nella nostra questione, quella di un cristiano che è deciso a non divorziare perché sa che il divorzio non è giusto, ma poi nell’urna favorisce per generosità la vittoria del non cristiano), altererebbe sostanzialmente la logica della democrazia. Il cristiano che ha votato “no” in qualche cosa ha mancato. Se riteneva giusto il divorzio è democratica mente a posto, ma ha mancato verso la sua perfetta consonanza con Cristo. Se riteneva non giusto il divorzio e ha ugualmente votato contro i suoi princìpi per aiutare gli altri, ha mancato anche contro le regole democratiche.
Gabrio Lombardi
Diversi anni dopo resi pubbliche queste mie considerazioni, ed ebbi la sorpresa e il piacere di ricevere una lettera dal professor Gabrio Lombardi, che dal suo isolamento si complimentava e mi diceva la sua gratitudine. Era stato il presidente del comitato promotore del referendum per l’abolizione del divorzio e si era prodigato senza risparmio in quella campagna sfortunata. L’avevo conosciuto personalmente, quando era docente di Diritto romano all’Università Statale di Milano, apprezzato e rispettato anche durante la stagione della contestazione. Si distingueva per la lucida razionalità, che in lui si sposava armoniosamente con una fede robusta e un appassionato senso ecclesiale. Presidente del Movimento dei laureati di Azione Cattolica, ritenne suo dovere impegnarsi sino in fondo per la tutela dei valori civili e religiosi tipici dell’identità nazionale. E’ giusto che in queste Memorie il suo nome abbia un posto d’onore. A Gabrio Lombardi qualche segno di gratitudine da parte del mondo cattolico sarebbe stato doveroso: il Signore ci chiede di combattere le giuste battaglie, non ci obbliga a vincerle.

* * *


Un invito a pranzo
Il 7 luglio 1997 Giovanni Paolo II volle incontrarmi per avere qualche informazione diretta sul Congresso Eucaristico Nazionale di Bologna del settembre successivo, per il quale ci aveva assicurato della sua presenza. Ebbe l’amabilità di invitarmi a pranzo (ed estese l’invito anche al cerimoniere arcivescovile, don Roberto Parisini, che mi accompagnava e rimane perciò come prezioso testimone dell’episodio). A tavola il Santo Padre a un certo punto mi disse: “Ha visto che abbiamo cambiato la frase della Tertio millennio adveniente?”. La bozza, che era stata inviata in anticipo ai cardinali, recava questa espressione: “La Chiesa riconosce come propri i peccati dei suoi figli”; espressione che – avevo fatto presente con rispettosa franchezza – era improponibile (per le ragioni che ho qui sopra enunciate). Nel testo definitivo il ragionamento appare mutato così (come testé abbiamo visto): “La Chiesa riconosce sempre come propri i suoi figli peccatori”. Il Papa in quel momento ci teneva a ricordarmelo, sapendo che mi avrebbe dato piacere. Ho risposto dicendomi molto grato e manifestando la mia piena soddisfazione sotto il profilo teologico. Mi sono però sentito anche di aggiungere una riserva di indole pastorale: l’iniziativa inedita di chiedere perdono per gli errori e le incoerenze dei secoli passati a mio avviso avrebbe scandalizzato i “piccoli”. Il Papa testualmente allora disse: “Sì, questo è vero. Bisognerà pensarci”. Purtroppo non ci ha pensato abbastanza.
Il Foglio 26 ottobre 2007