A proposito del dibattito sulle unioni civili
Marco Olivetti – Da Avvenire.it
Sarà bene che si sviluppi un dibattito serrato sulla proposta del centrosinistra che vuol dare una regolamentazione legislativa alle unioni di fatto, riconoscendole come figura giuridica autonoma, ancorché – nelle intenzioni – ben distinta dal matrimonio. Secondo il leader della Margherita, Francesco Rutelli, l’accordo abbozzato all’interno del suo schieramento mira a riconoscere che le unioni civili – sia fra persone dello stesso sesso, sia fra persone di sesso diverso – presentano al tempo stesso dei punti di contatto e delle differenze con la famiglia fondata sul matrimonio.
Esisterebbero, cioè, dei diritti che discenderebbero da qualsiasi forma di convivenza, ovvero: “diritto di abitazione, successione in contratti che assicurano la fornitura di servizi essenziali, facoltà di visita in ospedale o in carcere, assistenza o altre prestazioni solidaristiche, rappresentazione della volontà e risarcimento del danno in caso di morte”, per riprendere l’elenco proposto da Rutelli. Di qui la necessità di un riconoscimento legislativo riguardante tutti i tipi di unioni civili, che resterebbero, peraltro, ben distinte dal matrimonio, al quale unicamente si rivolge la tutela specifica delineata nell’art. 29 della Costituzione. Questa ricostruzione, tuttavia, pur nel meritorio sforzo di tenere ben distinto ciò che non può in alcun modo essere confuso (il matrimonio da un lato, le altre forme di convivenza dall’altro), non convince. Il punto di partenza del ragionamento non può che essere squisitamente liberale. In una società pluralistica come quella italiana, possono già oggi formarsi – nella sfera della libertà materiale di cui godono tutti gli individui – i più vari tipi di unione, basate sulle più diverse forme di rapporto (affettivo, di semplice convivenza o altro). In questa sfera, lo Stato e i poteri pubblici non hanno semplicemente nulla da dire, fatta salva la garanzia della libertà e dell’autodeterminazione dei soggetti coinvolti. Ed in questo spazio è consentito a tali soggetti di trovare meccanismi giuridici, i quali salvaguardino alcuni interessi comuni: ad es. cointestando il contratto di affitto di una casa. E non è escluso che possa essere utile intervenire con piccole correzioni normative che rimuovano ostacoli alla titolarità pluripersonale di rapporti economici con terzi. Altra cosa, ovviamente, è intervenire su quelle unioni, aventi caratteri riconducibili (per similarità oggettiva – le coppie eterosessuali – o per assimilazione più o meno abusiva – le coppie omosessuali) al fenomeno familiare. In questa sfera non è più in gioco una mera libertà materiale, rispetto alla quale lo Stato può limitarsi ad assicurare che sia rispettata la volontà dei privati, ma entra in questione la rilevanza “pubblica” (non tanto verso lo Stato come apparato, quanto verso la società civile) del fenomeno da regolare. In questo caso, lo Stato non si limita più a consentire le scelte libere dei cittadini, ma delinea dei modelli (giuridicamente predefiniti) offrendoli come schemi di vita ai cittadini che intendono costruire una vita in comune. Ed è evidente la rilevanza educativa e di condizionamento del costume che un’opzione simile configura: essa equivarrebbe ad indebolire ulteriormente lo statuto di cui il matrimonio gode nell’immaginario collettivo, riducendolo ad una quantité négligeable. Esso invece – sia pure riplasmato nelle forme che l’evoluzione dei costumi gli ha impresso nell’ultimo trentennio – continua ad esprimere un valore positivo, di impegno alla costruzione del futuro, che non ci pare si presti ad assimilazioni che sarebbero dettate più dalla pigra imitazione di soluzioni straniere o dal cedimento alle insistenti richieste di gruppi minoritari che godono di una sovrarappresentazione mediatica che da esigenze oggettivamente meritevoli di tutela.