Impressionante editoriale di «La Civiltà Cattolica»…

Cresce il rischio di una guerra nucleare?


Dal 2 al 27 maggio si è svolta a New York la settima Conferenza di revisione del Trattato di Non Proliferazione Nucleare. Essa si è conclusa con un completo fallimento, senza neppure una dichiarazione finale, a motivo dei veti incrociati dei vari Paesi. La verità è che la proliferazione nucleare è in atto, sia perché gli Stati Uniti stanno sperimentando nuove armi nucleari capaci di distruggere i bunker sotterranei, dove alcuni Paesi nascondono le armi di distruzione di massa, sia perché ci sono nuove nazioni che si stanno dotando di armi nucleari. Di qui il rischio di una guerra nucleare. In proposito l’editoriale di «La Civiltà Cattolica» riprende la tesi di fondo di un intervento di R. McNamara, segretario statunitense alla Difesa con Kennedy e Johnson…

Dal 2 al 27 maggio 2005 si è svolta a New York la settima Conferenza di revisione del Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP o NPT). Questa Conferenza si tiene dal 1970 ogni cinque anni e ha lo scopo di verificare i progressi compiuti nell’applicazione del TNP. Il Trattato, discusso e approvato dall’Assemblea generale dell’ONU il 12 giugno 1968 ed entrato in vigore il 5 marzo 1970, stabiliva che i cinque Paesi che possedevano l’armamento nucleare (Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna, Francia e Cina) potevano continuare a possederlo, ma si impegnavano a eliminarlo progressivamente, riducendo le proprie testate nucleari; i Paesi che non possedevano armi nucleari si impegnavano a non produrle e a non procurarsele; i Paesi che possedevano la tecnologia nucleare l’avrebbero condivisa con i Paesi che non la possedevano allo scopo di sviluppare l’energia nucleare a scopi pacifici.
In realtà che cosa è avvenuto dal 1970 a oggi? Tre nazioni – Israele, Pakistan e India – non hanno aderito al TNP e si sono dotate di armi nucleari. La Corea del Nord si è ritirata nel 2003 dal TNP e afferma di possedere oggi alcune testate atomiche e di essere in grado di aumentarne il numero e la potenza. L’Iran è accusato dagli Stati Uniti di usare la tecnologia nucleare destinata a scopi pacifici per costruire armi nucleari. A tale accusa l’Iran risponde che i progressi da esso realizzati nel settore della tecnologia nucleare sono diretti a scopi pacifici; ma, per gli Stati Uniti, la soluzione del problema del nucleare iraniano deve includere la cessazione permanente delle iniziative iraniane collegate all’arricchimento dell’uranio e quelle di riprocessazione, oltre allo smantellamento delle attrezzature e delle strutture relative a quelle operazioni.
Da parte loro, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica hanno dimezzato i loro arsenali atomici; ma non li hanno distrutti, bensì li tengono di riserva. Con la fine dell’Unione Sovietica, poi, le armi nucleari dell’URSS sono rimaste disseminate in vari Paesi, col pericolo che finiscano in mano al terrorismo internazionale: l’ 11 giugno 2005, ad esempio, sul Corriere della Sera si parlava di traffico di barre di uranio arricchito, provenienti dall’Ucraina, che potevano servire per la costruzione di piccole atomiche tattiche. Gli Stati Uniti, dal canto loro, si sono dedicati alla costruzione di armi nucleari di nuovo tipo: armi di alta precisione e di bassissima intensità, in modo da ridurre i «danni collaterali», ma capaci di penetrare in profondità nel terreno in misura tale da poter distruggere i bunker e i rifugi sotterranei antiatomici. Tali missili nucleari dovrebbero – o, almeno, potrebbero – dissuadere i potenziali nemici dal costruire installazioni sotterranee, adibite a nascondere armi di distruzione di massa. Inoltre la mancanza di «danni collaterali» dovrebbe far cadere la distinzione tra armi nucleari e armi convenzionali e, in tal modo, permettere agli Stati Uniti di sventare la minaccia che comportano per la loro sicurezza i bunker sotterranei, nei quali si ammassano le armi di distruzione di massa.
Infatti, nel gennaio 2002, il segretario di Stato alla Difesa, D. Rumsfeld, presentò al Congresso statunitense un Nuclear Posture Review (Riesame della politica nucleare), in cui si diceva che gli Stati Uniti devono ormai affrontare pericoli diversificati, provenienti da orizzonti diversi e non sempre prevedibili: pericoli che l’attuale armamento nucleare, nonostante la sua grande potenza, non può affrontare a causa della ridotta capacità di penetrazione nel terreno. C’è quindi – si diceva – la necessità di armi nuove, concepite per distruggere i bunker, anche a grande profondità, limitando nello stesso tempo i «danni collaterali». Ma, per realizzare le nuove testate nucleari, è necessario riprendere gli esperimenti nucleari. Ad ogni modo gli obiettivi sotterranei da distruggere sono circa 1.400, sparsi in sette Paesi: Russia, Cina, Iraq, Iran, Corea del Nord, Libia e Siria.


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Il 2 maggio ha avuto inizio la Conferenza di revisione del TNP senza che si fosse prima raggiunto un accordo sull’ordine del giorno. Erano presenti le delegazioni dei 187 firmatari del Trattato. Dei 191 Paesi membri dell’ONU ne mancavano quattro: Israele, India, Pakistan e Corea del Nord. Nel suo discorso di apertura della Conferenza, il segretario dell’ONU, Kofi Annan, ha rivolto un appello, affinché tutti i Paesi che hanno sottoscritto il TNP si prodighino per applicarlo e assumano responsabilità comuni per l’istituzione di un meccanismo globale in grado di ridurre efficacemente la minaccia nucleare.
Il rappresentante degli Stati Uniti, S. Rademaker, assistente del Segretario di Stato per il controllo degli armamenti, ha indicato l’Iran, la Corea del Nord e le reti del contrabbando di materiale nucleare come le minacce piú gravi al regime di non proliferazione nucleare. Devono perciò essere colmate le lacune presenti nel Trattato, che consentono la diffusione di tecnologie necessarie per l’arricchimento e la rilavorazione dei materiali radioattivi. Egli ha aggiunto che «gli Stati Uniti sono orgogliosi di aver avuto un ruolo primario nella riduzione degli arsenali nucleari»: «Abbiamo smantellato migliaia di armi nucleari, eliminato un’intera classe di missili balistici a medio raggio, tolto i bombardieri B-1 dal ruolo nucleare, diminuito il numero di sottomarini armati con missili balistici, ridotto drasticamente le nostre infrastrutture nazionali per gli armamenti nucleari, e stiamo adesso eliminando i nostri piú moderni e sofisticati missili balistici terra-terra».
Gli Stati Uniti si sono sforzati con insistenza di mettere sotto accusa l’Iran per il fatto di servirsi della tecnologia nucleare, da usare a scopi pacifici, per costruire armi atomiche. A tali accuse l’Iran ha risposto che gli Stati Uniti sono i primi a non poter parlare di disarmo nucleare e a non poter accusare gli altri di costruire armi nucleari, poiché si stanno attrezzando per la costruzione di armi nucleari di nuovo tipo e vogliono riprendere gli esperimenti nucleari per provarne la capacità di penetrazione nel terreno. In tal modo le discussioni si sono focalizzate sul duello Stati Uniti-Iran. Ma non è stato questo il solo tema dominante della Conferenza. Infatti, l’Egitto ha tenuto in stallo molte discussioni, sollevando a ripetizione il problema, per esso cruciale, dell’arsenale nucleare di Israele. Inoltre il Giappone e la Corea del Sud saranno tentati anch’essi di dotarsi di armi nucleari, come pure l’Arabia Saudita e forse il nuovo Iraq, se l’Iran divenisse una potenza nucleare.
Il 4 maggio è intervenuto nel dibattito l’Osservatore permanente della Santa Sede presso l’ONU, arcivescovo Celestino Migliore: « Poiché – egli ha detto – il Trattato è l’unico strumento multilaterale attualmente disponibile, volto a far sorgere un mondo libero dagli armamenti nucleari, non si deve permettere che la sua efficacia si indebolisca. L’umanità merita la piena cooperazione di tutti gli Stati per la soluzione di questo serio problema». Egli perciò ha ribadito che «occorre rafforzare l’aspetto di non proliferazione del Trattato e occorre anche rispettare i provvedimenti di disarmo nucleare. Il tempo della ricerca dell’ “equilibrio del terrore” è passato. È ora il momento di riesaminare l’intera strategia della deterrenza nucleare. La Santa Sede non ha mai approvato la deterrenza nucleare come provvedimento a carattere permanente, né la approva nel momento attuale quando è evidente che essa incoraggia la creazione di nuove armi nucleari ostacolando un autentico disarmo nucleare. Dobbiamo sempre ricordare – ha concluso il Rappresentante della Santa Sede – che l’uso delle armi non deve produrre mali e problemi più gravi di quelli che si vogliono eliminare».


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La Conferenza si è trascinata stancamente per tre settimane senza che fosse possibile accordarsi su nulla, a motivo dei veti incrociati su ogni proposta avanzata. In realtà, questa situazione era prevedibile: da una parte le potenze nucleari – in primo luogo gli Stati Uniti – non hanno nessuna intenzione di privarsi dell’armamento nucleare: sono disposte a ridurre le testate nucleari di vecchio tipo (come è avvenuto con gli accordi Salt e Start tra Stati Uniti e Unione Sovietica), o meglio a tenerle di riserva nel caso che il loro uso fosse necessario, ma sono alla ricerca di armi nucleari di nuovo tipo, più adatte alle nuove esigenze di difesa e hanno bisogno, per provarle, di compiere esperimenti nucleari; dall’altra il Trattato permette l’uso della tecnologia nucleare per scopi pacifici. Poiché il passaggio dalla tecnologia nucleare a scopi pacifici a quella a scopi bellici è facilmente realizzabile, i Paesi che si sentono minacciati dalle potenze nucleari sono tentati di dotarsi anch’essi di armamento nucleare.
Perciò il fallimento della Conferenza di revisione del TNP, che nel 2000 ebbe un certo successo, tanto che furono approvate 13 Raccomandazioni (poi finite nel nulla! ), era ampiamente previsto, forse non in una maniera cosi grande, tanto che il presidente dei lavori, il brasiliano S. Duarte, il 27 maggio si è limitato a «ringraziare e a salutare» le delegazioni, rifiutandosi, in mancanza di una dichiarazione finale concordata, anche soltanto di riassumere le ragioni di quanto era accaduto. Egli ha dovuto riconoscere che l’applicazione del TNP ha segnato un regresso rispetto alle Conferente del 1995 e del 2000, nonostante la consapevolezza da parte della comunità internazionale dei pericoli incombenti con la proliferazione nucleare: occorrerà perciò valutare quali saranno i danni di lungo periodo sulla tenuta del TNP.


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Poco prima che iniziasse la Conferenza di revisione del TNP, sulla rivista statunitense Foreign Policy era apparso un articolo, tradotto in italiano e pubblicato dal Corriere della Sera (8 aprile 2005, 16). Si trattava di un intervento significativo, essendo il suo autore, Robert McNamara, un politico molto esperto nel settore delle armi nucleari, poiché era stato segretario della Difesa statunitense dal 1961 al 1968 con i presidenti J. F Kennedy e Lyndon Johnson e aveva curato la revisione del sistema di difesa degli Stati Uniti e formulata la strategia nucleare del Paese, fondata sulla «deterrenza». Di questo articolo, evidentemente destinato alla Conferenza di revisione del TNP, diamo un’ampia sintesi, perché ci sembra che metta bene in luce la situazione attuale dell’armamento nucleare e del grave pericolo che esso comporta per l’umanità di oggi e di domani.
McNamara fa notare, anzitutto, che gli Stati Uniti «si concentrano, per comprensibili motivi, sull’obiettivo di persuadere la Corea del Nord a aderire al Trattato di Non Proliferazione Nucleare e di negoziare vincoli più rigidi alle ambizioni nucleari dell’Iran». Ma «l’attenzione di numerosi Paesi, tra cui alcuni nuovi Stati potenzialmente dotati di armamenti nucleari, è rivolta anche agli Stati Uniti. Il mantenere quantitativi tanto consistente in stato di allerta indica chiaramente che gli Stati Uniti non stanno lavorando seriamente all’eliminazione dei loro arsenali e sollevano preoccupanti interrogativi sulle ragioni per le quali qualsiasi altro Stato dovrebbe contenere le proprie ambizioni nucleari». In altre parole – osserva McNamara – gli Stati Uniti non possono chiedere agli altri Stati di non dotarsi di un armamento nucleare, quando il loro arsenale nucleare è spaventosamente grande.


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A questo proposito, l’ex Segretario alla Difesa statunitense rileva che «oggi gli Stati Uniti dispongono approssimativamente di 4.500 testate nucleari strategiche offensive (cioè armi di grande potenza destinate alla distruzione di massa in una guerra totale)». La Russia ne ha «appena» 3.800. Le forze strategiche di Gran Bretagna, Francia e Cina sono considerevolmente piú ridotte, con 200-400 armi nucleari nell’arsenale di ciascuno dei tre Stati. Le nuove nazioni nucleari, Pakistan e India, hanno meno di un centinaio di armi a testa. La Corea del Nord sostiene di avere sviluppato armamenti nucleari, e le agenzie di intelligence stimano che Pyongyang disponga di materiale fissile sufficiente per la fabbricazione di due-otto bombe. È chiaro allora che la minaccia di una guerra nucleare non viene dalla Corea del Nord. Certamente questo Paese potrebbe compiere il gesto insensato di colpire, con le sue due-otto bombe nucleari, i Paesi vicini; ma è molto improbabile che lo faccia, perché sa che verrebbe immediatamente distrutto da chi dispone di ben piú di due-otto bombe.
Circa la potenza distruttiva delle armi nucleari statunitensi, R. McNamara osserva che «la testata statunitense media ha un potenziale distruttivo 20 volte superiore a quello della bomba di Hiroshima, che, lanciata il 5 agosto 1945, uccise all’istante 80.000 persone, che poi salirono a 200.000 nel periodo successivo. Delle 8.000 testate attive e operative, 2.000 sono pronte ad essere lanciate in 15 minuti da un eventuale allarme. Come devono essere utilizzate queste armi? Gli Stati Uniti non hanno mai adottato la politica del no first use (cioè di non attaccare per primi con armi nucleari), né durante i miei sette anni da segretario della Difesa né in seguito. Siamo sempre stati e restiamo sempre preparati a ricorrere ad armi nucleari – per decisione di una persona, il presidente – contro un nemico nucleare o non nucleare in qualsiasi circostanza riteniamo sia nel nostro interesse. Per decenni, le forze nucleari statunitensi sono state abbastanza potenti per poter assorbire un primo colpo e poi infliggere un danno “insostenibile” all’avversario. Finché avremo di fronte un potenziale avversario dotato di armi nucleari, deve continuare ad essere questo il fondamento del nostro deterrente nucleare».


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Un attacco nucleare degli Stati Uniti può essere deciso soltanto dal presidente in carica. Come e in quanto tempo? McNamara non rivela cose nuove, ma conferma autorevolmente e senza ombre di dubbio cose già note. Egli scrive: « Nel periodo in cui ho ricoperto la carica di segretario alla Difesa, il capo del Comando Strategico Aereo Usa (SAC) aveva sempre con sé un telefono protetto, ovunque si trovasse, 24 ore al giorno, sette giorni alla settimana, 365 giorni all’anno. Il telefono del comandante, il cui quartiere generale era a Omaha, in Nebraska, era collegato alla postazione sotterranea del Comando di Difesa Nordamericano, situato a Cheyenne Mountain, in Colorado, e al presidente degli Stati Uniti, in qualsiasi posto egli si trovasse. Il presidente aveva sempre a portata di mano i codici per il rilascio nucleare nella cosiddetta football, una cartella costantemente trasportata per lui da un ufficiale dell’esercito statunitense.
«Il comandante del SAC aveva l’ordine di rispondere al telefono non piú tardi della fine del terzo squillo. Se il telefono suonava per informarlo che si profilava la possibilità di un attacco nucleare di missili balistici nemici, il comandante aveva due o tre minuti per decidere se l’allarme fosse valido (nel corso degli anni, gli Stati Uniti hanno ricevuto numerosi falsi allarmi) e, nel caso, come gli USA dovessero rispondere. Aveva poi altri dieci minuti per valutare la situazione, rintracciare e consigliare il presidente, consentirgli di discutere con due o tre stretti consiglieri (presumibilmente il segretario alla Difesa e il presidente dello Joint Chiefs of Staff), per poi essere informato della decisione dello stesso presidente e trasmetterla immediatamente, tramite i codici, ai siti di lancio. Il presidente aveva in sostanza due opzioni: poteva decidere di non contrattaccare e rinviare qualsiasi decisione in merito a una eventuale ritorsione o disporre una risposta immediata, scegliendo tra diverse possibilità, come il ricorso ad armi nucleari USA puntate contro le strutture militari-industriali del nemico. I nostri avversari di Mosca avevano – e hanno – presumibilmente un’organizzazione simile».
Commenta McNamara: «L’intera situazione pare tanto bizzarra da avere dell’incredibile. Ogni singolo giorno, mentre lavoriamo, il presidente degli Stati Uniti é pronto a prendere la decisione di usare una delle armi piú devastanti al mondo. Per dichiarare una guerra occorre un atto del Congresso; per dare il via a un olocausto nucleare é invece sufficiente una deliberazione raggiunta in una ventina di minuti dal presidente e dai suoi consiglieri. È cosi che abbiamo vissuto per 40 anni. Salvo pochissimi cambiamenti, questo sistema resta ancora inalterato. Anche il football continua ad essere un’inseparabile compagnia del presidente».


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Ricordando quanto avvenne nel 1945 in Giappone con le bombe atomiche sganciate, la prima su Hiroshima e subito dopo un’altra su Nagasaki, R. McNamara rileva che non era nelle intenzioni statunitensi di uccidere le centinaia di migliaia di civili delle due città: queste furono attaccate perché si trovavano sfortunatamente «in prossimità degli obiettivi militari e industriali giapponesi; perciò, l’annientamento delle due città fu un’inevitabile conseguenza della selezione di quegli obiettivi». Poi aggiunge: «Ecco in sostanza cosa fanno le armi nucleari: colpiscono indiscriminatamente, bruciano ed emanano radiazioni con velocità e finalità a dir poco inimmaginabili. È esattamente questo che Paesi come Stati Uniti e Russia, i quali mantengono in stato di allerta armi nucleari, continuano a minacciare ogni minuto di ogni giorno di questo nuovo XXI secolo».
Si tratta di una minaccia soltanto teorica, usata a scopo di «deterrenza», che in pratica non si realizzerà mai, perché gli uomini non sono tanto sciocchi da autodistruggersi? Infatti la caratteristica di un attacco con armi nucleari sta proprio nel fatto che chi sferra il «primo colpo» e distrugge l’avversario è immediatamente colpito e distrutto dalla risposta di questi: cioè la guerra atomica è tale che distrugge nello stesso tempo i due avversari, poiché prima che le armi atomiche di chi sferra il «primo colpo» giungano sul terreno dell’avversario, questi ha fatto già partire la risposta. Ma tale visione delle cose non tiene conto del fatto che un attacco atomico può avvenire in maniera accidentale o per un errore di calcolo, dovuto anche al brevissimo tempo disponibile per decidere un attacco o la risposta a un attacco nemico: in sostanza, 20 minuti!
Osserva a tale proposito R. McNamara: «Tra i costi del mantenimento di armi nucleari c’è il rischio – a mio parere inaccettabile – di utilizzare le armi in maniera accidentale o in conseguenza di equivoci ed errori di calcolo in tempo di crisi. La crisi dei missili di Cuba dimostrò che gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica – oltre che il resto del mondo – giunsero a un passo dal disastro nucleare nell’ottobre 1962». Dopo aver ricordato la crisi di Cuba, nella quale egli ebbe un ruolo essenziale in quanto segretario alla Difesa degli Stati Uniti, McNamara rileva che, «comunque sia, gli esseri umani possono sbagliare. E un errore commesso in simili circostanze avrebbe condotto alla distruzione delle nazioni. La combinazione di fallibilità umana e armi nucleari comporta un rischio elevatissimo di catastrofe nucleare».


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È possibile eliminare, o almeno ridurre, tale rischio? Risponde McNamara: «Non è possibile ridurre il rischio a livelli accettabili, se non azzerando la politica della tensione nucleare prima ed eliminando del tutto o quasi le armi atomiche poi. Gli Stati Uniti dovrebbero agire immediatamente in questa direzione, collaborando con la Russia. È questa la lezione da imparare dalla crisi dei missili di Cuba».
In realtà, che cosa sta avvenendo? McNamara ricorda che «il 13 novembre 2004 il presidente G. W Bush ha annunciato di aver detto al presidente russo V. Putin che gli Stati Uniti avrebbero ridotto “le testate nucleari operativamente dispiegate” da circa 5.300 a 1.700-2.200 nei dieci anni a venire. Una tale riduzione si sarebbe avvicinata al livello delle 1.500-2.000 testate che Putin aveva proposto per la Russia. Eppure la Nuclear Posture Review dell’Amministrazione Bush, con mandato del Congresso statunitense e istituita nel gennaio 2002, offre una versione piuttosto differente. Sostiene infatti che per i prossimi decenni faranno parte delle forze militari statunitensi armi nucleari strategiche e offensive in numero assai piú elevato rispetto allo spettro di 1.700-2.200. Il numero delle testate dispiegate sarà sì ridotto a 3.800 nel 2007 e a 1.700-2.200 entro il 2012, ma le testate e molti dei veicoli da lancio rimossi dal dispiegamento saranno mantenuti in una riserva destinata alle “risposte”, dalla quale potrebbero essere reinserite in caso di necessità».
«Malgrado qualsiasi proposta di riduzione sia benvenuta -osserva però McNamara – è quantomeno dubbio che i sopravvissuti (ammesso che ve ne fossero) a uno scontro con 3.200 testate (un numero pari agli armamenti americani e russi previsti per il 2012), dotate di potere distruttivo pari a 65.000 volte quello della bomba di Hiroshima, riscontrerebbero una differenza tra gli effetti di un simile scontro e quelli derivanti dall’utilizzo degli attuali mezzi che ammontano a 12.000 testate».
Il fatto è che all’«apparente» diminuzione delle armi nucleari fa riscontro un «reale» aumento di esse, con una doppia conseguenza. Infatti – rileva McNamara – «oltre a prevedere il dispiegamento di estesi quantitativi di armi nucleari strategiche (cioè di armi di distruzione di massa) per il futuro, l’Amministrazione Bush sta elaborando una serie di ampi e costosi programmi volti a sostenere e modernizzare la forza nucleare esistente. Alcuni membri dell’Amministrazione hanno chiesto nuove armi nucleari che potrebbero essere utilizzate per demolire bunker sotterranei come quelli di Saddam Hussein a Baghdad. L’Amministrazione ha anche ordinato ai laboratori nazionali di avviare la ricerca su nuovi modelli di armi nucleari e di preparare i siti per i test sotterranei in Nevada, nel caso fosse in futuro necessario effettuare dei test».
Quindi non si va verso la riduzione delle armi nucleari, ma verso il loro ammodernamento e potenziamento. Ciò significa che il numero delle testate nucleari potrebbe anche essere fortemente ridotto, ma soltanto sulla carta, perché sarebbe accresciuto enormemente il loro potere distruttivo, che già ora è altissimo, se è vero che la potenza delle armi nucleari ora dispiegate è 65.000 volte piú grande di quello della bomba di Hiroshima che, come si è detto, uccise 200.000 persone.
La seconda conseguenza di quanto sta oggi avvenendo negli Stati Uniti è un ulteriore passo avanti della proliferazione nucleare, a dispetto del NPT (Non-Proliferation Treatise), che è sempre meno osservato da coloro che l’hanno firmato. Osserva McNamara: «Se gli Stati Uniti manterranno la loro attuale posizione in materia di armamenti nucleari, col tempo ne seguirà sicuramente una sostanziale proliferazione nucleare. Alcuni Paesi come Egitto, Giappone, Arabia Saudita, Siria e Taiwan inizierebbero molto probabilmente ad approntare programmi nucleari, accrescendo il rischio di ricorso alle armi e di un loro dirottamento nelle mani di Stati-canaglia e terroristi».
La proliferazione nucleare è perfettamente comprensibile. La presenza di armi nucleari in Israele, o almeno la possibilità di ottenerle dagli Stati Uniti se fosse messa in questione l’esistenza stessa dello Stato d’Israele, induce quasi necessariamente Egitto, Siria, Arabia Saudita e Iran a dotarsi di armi atomiche per poter «rispondere» a un eventuale attacco nucleare israeliano. Il Giappone è minacciato dalle armi nucleari, per ora di modesta portata, ma che potranno aumentare nel prossimo futuro, della Cina continentale.
Quanto alla possibilità che ordigni nucleari possano finire in mano ai terroristi, McNamara rileva che « i diplomatici e le agenzie di intelligence credono che Osama Bin Laden abbia compiuto diversi tentativi di procurarsi armi atomiche e materiali fissili». È noto infatti che il sultano Bashiruddin Mahmud, ex direttore del complesso di reattori nucleari del Pakistan, ha incontrato Bin Laden in piú di un’occasione. Appena la scorsa estate, a un meeting dell’Accademia Nazionale delle Scienze, l’ex segretario alla Difesa, William J. Perry, ha dichiarato: «Non ho mai avuto tanta paura come ora di un conflitto nucleare […]. Esiste una probabilità di un attacco rivolto contro obiettivi USA nei prossimi dieci anni superiore al 50%». Ha concluso R. McNamara: «Condivido i suoi timori».


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La conclusione a cui è giunto McNamara merita di essere presa in seria considerazione. Egli scrive: « Siamo in un momento critico per la storia dell’umanità. Forse non così drammatico come quello della crisi dei missili di Cuba, ma non meno cruciale. Né l’Amministrazione Bush, né il Congresso, né il popolo americano, né i popoli di altre nazioni hanno analizzato in modo adeguato i vantaggi militari delle armi nucleari; il rischio di un utilizzo accidentale; gli aspetti morali legati all’uso o alla minaccia di far ricorso ad armi atomiche; l’impatto delle attuali politiche sulla proliferazione. Se una simile analisi fosse portata a termine, credo che la conclusione sarebbe unica: dobbiamo agire prontamente per l’eliminazione – o la quasi eliminazione – di tutte le armi nucleari. Per molti sopravvive invece la forte tentazione di aggrapparsi alle strategie degli ultimi 40 anni. Sarebbe un grave errore, dal quale deriverebbero rischi inaccettabili per tutte le nazioni».
Cosi, McNamara conclude il suo articolo con il duro giudizio col quale l’aveva iniziato: « È tempo che gli Stati Uniti abbandonino l’atteggiamento da “guerra fredda” nell’utilizzo di armi nucleari come strumento di politica estera. A rischio di apparire semplicistico e provocatorio, definirei l’attuale politica degli Stati Uniti in materia di armamenti nucleari, immorale, illegale, militarmente non necessaria e tremendamente pericolosa. Il rischio di un lancio nucleare accidentale o involontario è così elevato da essere inaccettabile».


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Questo giudizio concorda con quanto il Concilio Vaticano II, «facendo proprie le condanne della guerra totale già pronunciate dai recenti Sommi Pontefici (Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI) dichiara: «Ogni atto di guerra che indiscriminatamente mira alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità, da condannare con fermezza e senza esitazione (firmiter et incunctanter damnandum est)». Quanto alla corsa agli armamenti – soprattutto in campo nucleare – fatta a scopo di «deterrenza», essa, osserva il Concilio, «non è la via sicura per conservare saldamente la pace, né il cosiddetto equilibrio che ne risulta può essere considerato pace stabile e vera. Le cause di guerra, anziché venire eliminate, minacciano piuttosto di aggravarsi gradatamente. E mentre si spendono enormi ricchezze per procurarsi sempre nuove armi, diventa poi impossibile portare sufficiente rimedio alle miserie così grandi del mondo presente […]. È necessario pertanto ancora una volta dichiarare: la corsa agli armamenti è una gravissima piaga dell’umanità e danneggia in modo intollerabile i poveri; e c’è molto da temere che, se tale corsa continuerà, produrrà un giorno tutte le stragi, delle quali va già preparando i mezzi […]. Né ci inganni una falsa speranza. Se non verranno in futuro conclusi stabili e onesti trattati di pace universale, rinunciando ad ogni odio e inimicizia, l’umanità che, pur avendo compiuto mirabili conquiste nel campo scientifico si trova oggi in grave pericolo, sarà forse condotta funestamente a quel giorno in cui non altra pace potrà sperimentare se non l’orrenda pace della morte» (Gaudium et spes, nn. 80-82).


Editoriale di «La Civiltà Cattolica», 16 luglio 2005, volume III, anno 156, quaderno 3722, pp. 105-116.