“Il cristiano nella città”

Conferenza di Mons. Caffarra presso l’Istituto “Tincani”

È necessario che dica fin dall’inizio da quale prospettiva cercherò di costruire la mia riflessione.
Non affronto il tema da osservatore esterno, alla terza persona come si suole dire oggi, ma dall’interno di chi vive l’esperienza cristiana, alla prima persona. Da questo punto di vista, mi sembra che due sono le domande il cristiano si pone. La prima: devo impegnarmi per la città? La seconda: se sì, come devo impegnarmi per la città? Vorrei anche affrontare questo tema, cercando di verificare la consistenza delle obiezioni che più comunemente vengono fatte all’impegno del cristiano per la città.
La mia riflessione quindi si articolerà in tre punti, in corrispondenza alle tre tematiche sopra enunciate.
Devo fare due ultime precisazioni. Ho parlato di «città». Con essa indico la società umana nei suoi aspetti strutturali, vale a dire politici, economici, giuridici, culturali. Non parlerò dell’impegno generico per l’uomo, ma per l’uomo «in quanto inserito nella complessa rete di relazioni delle società moderne» [Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 54,1; EE 8/1478]. Seconda ed ultima precisazione: parlo del cristiano, non della Chiesa. Il mio discorso riguarda cioè le persone dei fedeli cristiani: i Christifideles.

1. LE RAGIONI DI UN IMPEGNO

Possiamo partire da una limpida affermazione di Giovanni Paolo II: «i fedeli laici non possono affatto abdicare alla partecipazione alla “politica”, ossia alla molteplice e varia azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale destinata a promuovere organicamente ed istituzionalmente il bene comune» [Es ap. Christifideles laici 42; EV 11/1787]. Il testo enuncia un’esigenza intrinseca [«non possono affatto abdicare»] alla professione e alla pratica della fede cristiana. Questa intrinsecità può essere dimostrata da vari punti di vista.
La persona umana è costitutivamente sociale, né può raggiungere il suo bene se non associandosi con le altre persone. Senza addentrarci – non è necessario in questo contesto – nella vera natura del legame sociale, resta comunque il fatto che esso è un bene costitutivo del bene integrale della persona. Da ciò deriva che la qualità della vita di una persona, la bontà della sua esistenza, dipende anche inevitabilmente dalla qualità della sua vita associata; la bontà, il bene-essere della sua esistenza è condizionato anche dalla bontà della complessa rete di relazioni sociali in cui è immerso. La cosa è particolarmente evidente quanto trattasi di bisogni profondamente umani, per es. quello della salute.
Poiché il cristiano ha ricevuto da Cristo il comandamento nuovo dell’amare il prossimo come Cristo lo ha amato, la fedeltà a questo comandamento non può tralasciare la considerazione dell’uomo in quanto persona associata con altre persone nelle varie forme espressive della socialità umana. Poiché il bene della persona è anche il bene della sua vita associata, non si può volere il bene della persona senza volere il bene insito nelle relazioni sociali in cui essa vive. In questo senso, la carità è/deve essere anche carità sociale-politica. Anzi, da un certo punto di vista, questa dimensione esprime e realizza la carità nel suo grado eminente, in quanto essa vuole non solo il bene di questa o quella persona, ma il bene comune.
Alla stessa conclusione si giunge partendo da un altro punto di vista. La missione della Chiesa è di ordine soprannaturale ed ha una finalità soprannaturale. Tuttavia «Questa dimensione non è espressione limitativa, bensì integrale della salvezza» [Compendio della Dottrina sociale della Chiesa 64]. Cioè: tutto l’umano [dunque anche il sociale] è sanato, reintegrato ad elevato nell’ordine soprannaturale della fede e della grazia. È questa una riespressione della professione di fede cristologica in registro antropologico: nella persona del Verbo la natura umana e la natura divina sono unite “non confusamente – non separatamente: inconfuse-indivise”. Pertanto la Chiesa «ha grande cura di mantenere chiaramente e fermamente l’unità ed insieme la distinzione tra evangelizzazione e promozione umana: l’unità, perché essa cerca il bene di tutto l’uomo; la distinzione, perché questi due compiti rientrano a titoli diversi nella sua missione» [Congregazione per la Dottrina della Fede, Istr. Libertatis conscientia 64,2; EV 10/281].
Le ragioni fondative dell’impegno del cristiano per la città escludono quindi sia la riduzione della carità alla carità sociale-politica e della missione salvifica della Chiesa all’impegno per il bene della relazione sociale, sia l’esclusione o semplicemente l’estrinseca addizione dell’una dall’altra o all’altra. Unite nella distinzione; distinte nell’unità.

2. LA MODALITA’ DELL’IMPEGNO

Nell’ultima riflessione, come avete notato, ho parlato di “Chiesa” e non più di “cristiano”, venendo meno a quanto vi avevo detto in premessa. Ciò non è dovuto ad una dimenticanza, come nel seguito del discorso apparirà.
La problematica si fa particolarmente complessa quando si vuole rispondere alla seconda domanda: in che modo il cristiano deve impegnarsi per la città?
Parto da una premessa assai importante, che potrei formulare nel modo seguente: la modalità dell’impegno del cristiano per la città è espressa dalla Dottrina sociale della Chiesa. Potrei anche formulare lo stesso pensiero nel modo seguente: l’impegno del cristiano per la città consiste nell’impegno di realizzare la Dottrina sociale della Chiesa.
A questo punto sorge allora la domanda: che cosa è la Dottrina sociale della Chiesa? è forse una dottrina politica? è un programma partitico? è semplicemente un insieme di esortazioni morali? o è qualcosa di diverso da tutto questo? la domanda è di importanza decisiva per la questione che stiamo affrontando. Ed infatti tutta un’ampia sezione del recente Compendio della Dottrina sociale della Chiesa è dedicata a rispondere a quella domanda [dal n. 72 al n. 86].
Si deve partire dalla risposta esplicita data per la prima volta nel Magistero della Chiesa da Giovanni Paolo II nel Enc. Sollecitudo rei socialis [n°41,8; EE 8/974]. Dopo aver escluso che essa sia una sorta di “terza via” tra il capitalismo liberista ed il totalitarismo marxista, ed una possibile alternativa fra altre soluzioni meno radicalmente contrapposte, il S. Padre afferma che la Dottrina sociale è una proposta originale e non comparabile o classificabile con altri progetti sociali e/o politici: «costituisce una categoria concettuale a sé». E si giunge così all’affermazione decisiva secondo la quale scopo principale della Dottrina sociale «è di interpretare tali realtà [cioè: «le complesse realtà dell’esistenza dell’uomo, nella società e nel contesto internazionale»], esaminandone la conformità o difformità con le linee dell’insegnamento del Vangelo sull’uomo e sulla sua vocazione terrena ed insieme trascendente; per orientare quindi il comportamento cristiano».
Giovanni Paolo II riprenderà poi letteralmente queste descrizione della Dottrina sociale: così nella Centesimus annus [n.55; EE 8/1481]; così nella Veritatis splendor [n.99; EE 8/1751].Il Compendio dona un’ulteriore approfondimento ed arricchimento della risposta pontificia nei termini seguenti: «La dottrina sociale riflette di fatto, i tre livelli dell’insegnamento teologico-morale: quello fondativo delle motivazioni; quello direttivo delle norme del vivere sociale; quello deliberativo delle coscienze chiamate a mediare le norme oggettive e generali nelle concrete e particolari situazioni sociali. Questi tre livelli definiscono implicitamente anche il metodo proprio e la specifica struttura epistemologica della dottrina sociale della Chiesa» [n. 72].
Sulla base di questi richiami posso allora concludere la mia risposta alle domande formulate sopra.
La dottrina sociale è l’interpretazione della vita umana associata alla luce congiunta della fede e della ragione, in ordine all’elaborazione di norme ed orientamenti dell’agire del cristiano per la città, agire che comprende sempre una deliberazione che media fra norme ed orientamenti oggettivi e generali e le situazioni concrete.
Nella dottrina sociale della Chiesa possiamo e dobbiamo distinguere tre ambiti. Un ambito fondativo: esso è costituito dall’insegnamento della verità riguardante la persona umana, la vera natura della relazione sociale e delle espressioni della socialità umana. Potremmo chiamarlo l’ambito dell’antropologia sociale. Esiste poi un ambito normativo: esso è costituito dall’insieme dei criteri normativi in ordine all’edificazione della città dell’uomo. Essi possono essere negativi: criteri in base ai quali si conosce come non si deve costruire la città dell’uomo; possono essere positivi: criteri, sarebbe meglio dire valori ed orientamenti, che devono ispirare la costruzione della città dell’uomo. Potremmo chiamare questo ambito l’ambito dell’etica sociale. Esiste infine un ambito deliberativo: esso è costituito da una valutazione della concreta situazione in cui il singolo o una formazione sociale decide di impegnarsi alla luce dei due ambiti precedenti. Questa valutazione è fatta per elaborare un giudizio/programma concreto sull’azione/sulla sequela ordinata di azioni da compiere per correggere e/o migliorare l’attuale edificazione della città. Valutazione-giudizio-programma sono elaborati in vista della decisione di compiere effettivamente quell’azione, di realizzare effettivamente quel programma. Potremmo chiamare questo ambito l’ambito della programmazione sociale e/o politica. Normalmente questo ambito è prodotto da formazioni sociali: sindacati, partiti…
In sintesi: la dottrina sociale della Chiesa è un sistema ordinato e logicamente connesso di antropologia, etica e deliberazione sociale.
Ho finito questa lunga premessa. Ora è facile esplicitare il contenuto della risposta che ho dato sopra alla domanda sulla modalità dell’impegno del cristiano per la città: consiste nel realizzare la Dottrina sociale.
Prima esplicitazione. Se operiamo fra i Christifideles la fondamentale distinzione fra christifideles laici e christifideles clerici [papa-vescovi-presbiteri], si deve dire che i secondi si impegnano nella costruzione della città dell’uomo esclusivamente esercitando il loro dovere-diritto di proporre quei contenuti che costituiscono il primo e secondo ambito. Costruiscono la città dell’uomo proponendo la verità sull’uomo ed i conseguenti criteri etici. Non di meno; non di più [cfr. Giovanni Paolo II Es. ap. Christifideles laici 60; EV 11/1867].I laici invece sono coloro che deliberano, nel senso appena spiegato, la costruzione vera e propria della città dell’uomo: «mediante l’adempimento dei comuni doveri civili, o guidati dalla coscienza cristiana, in conformità ai valori che con essa sono conseguenti, i fedeli laici svolgono anche il compito loro proprio di animare cristianamente l’ordine temporale rispettandone la natura e la legittima autonomia, e cooperando con gli altri cittadini secondo la specifica competenza e sotto la propria responsabilità» [Congregazione per la Dottrina delle fede, L’impegno del cristiano (24-11-02) 1.§3; EV 21/1410].
Seconda esplicitazione. Lo svolgimento del compito proprio dei laici ha due caratteristiche: autonomia e pluralismo.
La deliberazione, meglio l’ambito deliberativo è costituito dal laico secondo una sua propria responsabilità [=autonomia in senso corretto], ma in coerenza, e non in contrasto coll’ambito etico e antropologico [=autonomia in senso scorretto].
L’ambito deliberativo deve fare i conti con la realizzazione estremamente concreta del vero bene umano in un contesto storico, geografico, economico, tecnologico, culturale assai vario. Da ciò non può non derivare normalmente una pluralità di deliberazioni tutte accettabili dal punto di vista dell’ambito etico ed antropologico [= pluralismo legittimo]. Ma il pluralismo deliberativo non è determinato dal principio che tutte le concezioni della vita buona sono ugualmente valide o dall’impossibilità di darne un giudizio veritativo [= pluralismo inaccettabile].
Come si vede l’impegno del cristiano per la città è frutto di vera sapienza e grande prudenza. Non per caso Tommaso pensa che la prudenza sia soprattutto la virtù di chi ha responsabilità del bene comune, e che la prudenza politica è la più alta forma della virtù della prudenza.

3. OBIEZIONI ALL’IMPEGNO DEL CRISTIANO

Non è mia intenzione prendere in esame tutte le obiezioni che si muovono contro questa modalità di porsi dentro all’edificazione della città dell’uomo. Mi limito ad alcune che ritengo essere più serie.
Prima obiezione: l’impegno del cristiano per la città contraddice una delle fondamentali acquisizioni della moderna civiltà politica in quanto quell’impegno intende costruire la città dell’uomo secondo una concezione religiosa delle vita, imponendola di fatto anche a chi non la condivide.
Risposta: l’obiezione argomenta sulla base del concetto di laicità. In questa discussione questo termine veicola o può veicolare due significati che è bene tenere accuratamente distinti.
Laicità significa imparzialità e neutralità dello Stato nei confronti di ogni fede religiosa. Neutralità a livello di risultati: nella vita associata nessuna fede religiosa deve avere trattamenti di favore. Neutralità a livello di giustificazioni: nessuna decisione politica deve essere argomentata, giustificata appunto, in base ad una fede religiosa.Rispondendo dunque all’obiezione in quanto usa questo concetto di laicità, faccio le seguenti riflessioni.
a) Benché storicamente alcune fondamentali verità antropologiche e coerenti criteri operativi siano stati un apporto della fede cristiana, tuttavia in essi la ragione umana come tale si è riconosciuta, e pertanto essi sono condivisibili da ogni persona umana.
Orbene, l’impegno del cristiano per la città è progettato non secondo verità e criteri operativi incomprensibili ed inammissibili da parte di chi non crede, ma esclusivamente secondo verità e criteri in cui ogni uomo può riconoscersi.
b) Che una verità ed un criterio operativo siano al contempo insegnate dalla Chiesa e ragionevolmente condivisibili, non le priva della legittimità di essere presenti nel dibattito pubblico. «La laicità, infatti, indica in primo luogo l’atteggiamento di chi rispetta le verità che scaturiscono dalla conoscenza naturale sull’uomo che vive in società, anche se tali verità siano nello stesso tempo insegnate da un religione specifica, perché la verità è una sola» [Congr. per la Dottrina della fede, Nota sull’impegno … cit. 6,§2; EV 21/1423].c) Che lo Stato sia laico non esige che lo sia anche la nazione e il popolo. Ogni nazione ha una sua storia, una sua cultura che può essere ispirata da una religione specifica. Ciò comporta che il rapporto fra lo Stato e questa religione non è identico che colle altre, pur dovendo tutte godere di uguale libertà. La diversità di trattamento non deve riguardare l’esercizio della libertà. Se non vado errato questo stabilisce anche la nostra Costituzione. Il rapporto Stato – Chiesa cattolica è regolato dal regime pattizio di carattere internazionale; con le altre confessioni religiose da Intese.

Se invece si intende per laicità la neutralità e l’imparzialità dello Stato sia di risultati che di giustificazioni nei confronti di qualsiasi concezione di vita buona, allora dico che questa laicità di fatto non esiste (a); non è possibile né teoricamente né praticamente (b); non è desiderabile che esista (c). Non mi fermo ora a trattare questo importante e complesso aspetto della questione. L’ho fatto lungamente nella lezione di apertura della Scuola di formazione sociale-politica, alla quale rimando.

Seconda obiezione: è l’insegnamento stesso della Chiesa che afferma «l’autonomia delle realtà temporali», e la conseguente «autonomia» dei fedeli laici nella gestione delle medesime. Ma un progetto di impegno per la città come sopra configurato sottomette la realtà della stessa, ad un magistero che non le appartiene e quindi ad un’autorità estranea [autonomia vs. eteromia]; sottomette una parte dei cittadini ad un’obbedienza che li priva di fondamentali diritti inerenti alla cittadinanza.
Risposta: distinguo i due aspetti o momenti dell’obbedienza.
a) A riguardo dell’autonomia delle realtà temporali, occorre fare una distinzione di decisiva importanza.
Se per autonomia si intende connotare la logica propria ed interna ad ogni espressione della socialità umana in ragione ed alla luce del suo fine specifico, la progettazione sociale-politica non attiene in alcuna maniera all’insegnamento della Chiesa, dal cui compito esula completamente formulare soluzioni concrete ad ancor meno tecniche a questioni temporali.Se per «autonomia» si intende che esistono ambiti dell’agire umano che possono/devono prescindere dalla verità circa il bene della persona umana e conseguenti criteri morali operativi, allora deve essere respinta perché porta alla devastazione dell’umanità della persona. Orbene l’insegnamento della Chiesa come tale si muove a questo livello.b) A riguardo del secondo aspetto della questione, occorre pure fare un’importante distinzione.
Se per «autonomia» si intende che nell’impegno del cristiano per la città, al cristiano stesso è richiesto di non fare riferimento alla dottrina circa la propria coscienza, questo concetto di autonomia deve essere respinto. Sia perché in questo modo si afferma pericolosamente che l’attività politica possa essere sradicata da convinzioni morali vere; sia perché si negherebbe al cristiano, di fatto, di agire nella costruzione della città dell’uomo.Se per «autonomia» si intende la pluralità di progettazioni nel senso che abbiamo spiegato, allora l’autonomia va affermata e difesa.

CONCLUSIONE

Già nel 1939 Th. S. Eliot scriveva: «Io non considero il problema del cristianesimo come quello di una minoranza perseguitata: un cristiano trattato come nemico dello Stato ha una vita molto più dura, ma più semplice. M’interessano piuttosto i pericoli di una minoranza tollerata: può ben darsi che, nel mondo moderno, venire tollerato si riveli la cosa più intollerabile per un cristiano» [L’idea di una società cristiana, in Opere, Bompiani, Milano 2001, pag. 1504].La tolleranza la si esercita nei confronti di chi è ritenuto non omogeneo e non omologato e omologabile. Il problema è che rischiamo di costruire non una città neutrale, ma una città disumana: una città di individui non di persone.

Mons. Caffarra, Arcivescovo di Bologna
20 gennaio 2006