Cosa è successo davvero a Recife
Una storia di aborto di una minorenne si può raccontare in vari modi. Si può scrivere che l’arcivescovo del posto ha scomunicato (in realtà ha richiamato l’esistenza della scomunica latae sententiae) i medici che hanno procurato l’aborto a una bambina di 9 anni, rimasta incinta (di due gemelli) dopo essere stata abusata dal suo patrigno, e la madre di lei che ha acconsentito. Oppure si può raccontare che la madre e il padre (separati) della bambina inizialmente rifiutavano l’aborto, che la madre è stata convinta ma il padre no, e che per poter compiere l’aborto la bambina e la madre sono state trasferite precipitosamente da una clinica a un’altra all’insaputa del padre, che formalizzando il suo diniego avrebbe potuto bloccare la procedura. Si può raccontare che nel paese teatro del dramma ogni anno partoriscono quasi 30 mila minorenni sotto i 14 anni senza che sia invocato l’“imminente pericolo di vita” che richiederebbe l’effettuazione di un aborto legale. Che la vita di una bambina di 9 anni è certamente in pericolo durante una gravidanza, ma che una valida assistenza e un parto cesareo garantirebbero la sua vita e quella dei due innocenti che un bruto l’ha costretta a concepire. Che abortire o non abortire in un caso dato è sempre un dilemma senza risposte preconfezionate. Indovinate quale dei due racconti ha dominato i giornali europei in occasione della vicenda della bambina di Alagoinha in Brasile, portata ad abortire in una clinica di Recife sull’onda di una campagna di stampa e grazie a un blitz dell’organizzazione femminista Curumin.
TEMPI 25 aprile 2009