Il Cardinale Angelo Scola spiega la funzione pubblica delle religioni in Europa











Intervento del Patriarca di Venezia, Card. Angelo Scola, al Convegno Internazionale


  organizzato dal MEIC (Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale) dal titolo:


“Quale europa? Il caso Turchia”


[…] Voglio quindi presentare qualche osservazione sulla funzione pubblica delle religioni in Europa in tre punti. Dopo qualche breve cenno storico, dirò qualcosa sulla necessità per l’attuale società plurale e “post-secolare” di una sfera pubblica religiosamente qualificata, per concludere con un accenno al rapporto religioni-Stato e vita buona. Due considerazioni finali mi permetteranno un cenno di carattere generale sul caso Turchia. […]


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Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale


International Congress Which Europe? Turkey as a case-study


Venice, 10th-11th November 2006

Centro Culturale Don Orione Artigianelli – Venezia, Dorsoduro 909/a


La funzione pubblica delle religioni in Europa


Intervento di Angelo Card. Scola, patriarca di Venezia – 10 novembre 2006


Questo significativo Congresso Internazionale del Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale che, giova precisarlo, è stato deciso da più di un anno, affronta il “caso Turchia” e l’Europa e finisce così per porre a tema con ancor più forza la prima parte del titolo: quale Europa? Infatti, la candidatura della Turchia – che dall’origine è membro del Consiglio d’Europa – all’Unione Europea, per la sua particolare difficoltà, dovuta soprattutto all’elevato numero di abitanti e alla sua singolare configurazione storico-culturale legata all’Islam, sta svelando la debolezza strutturale in cui versa l’Unione Europea e impone un esame articolato di quale Europa si voglia costruire. Certo a partire da una considerazione realistica di tutti i fattori in campo che non si riduca però ad una miope Realpolitik.


Il cantiere di costruzione della Unione Europea è assai complesso ed impone alla Vostra assise l’intrecciarsi di punti di vista e di considerazioni economiche, politiche, culturali, sociali e religiose. Permettetemi, come uomo di Chiesa, di concentrarmi su queste ultime. Tanto più che, contrariamente a certe previsioni dominanti quasi fino alla caduta dei muri, non solo il processo di secolarizzazione non è sfociato nell’avvento di un “mondo mondano”, ma ci costringe piuttosto ad interrogarci su che cosa sia secolarizzazione se, come ha affermato Michael Burleigh, «il mix religione e politica sarà il tema dei prossimi cinquant’anni».


Voglio quindi presentare qualche osservazione sulla funzione pubblica delle religioni in Europa in tre punti. Dopo qualche breve cenno storico, dirò qualcosa sulla necessità per l’attuale società plurale e “post-secolare” di una sfera pubblica religiosamente qualificata, per concludere con un accenno al rapporto religioni-Stato e vita buona. Due considerazioni finali mi permetteranno un cenno di carattere generale sul caso Turchia.


 


1. Uno sguardo alla storia[1]


Nella storia europea le vicende religiose – con l’espressione intendo riferirmi a tutte quelle che hanno interessato il nostro Continente: dal politeismo del mondo greco-romano, alla rivelazione giudaico-cristiana, all’Islam e alle odierne, nuove realtà religiose – e le vicende socio-politiche si presentano, al di là delle necessarie distinzioni, così strettamente intrecciate da essere di fatto inseparabili. Nessun osservatore attento potrebbe negare che, con modalità storicamente mutevoli a seconda dei popoli e delle nazioni, l’elemento religioso appartenga al DNA di quell’universo che oggi tutti chiamiamo Europa[2]. Anzi occorre riconoscere che fino alle soglie della modernità, la dimensione religiosa ha costituito praticamente la radice del vincolo sociale. Così fu per i maggiori fenomeni di integrazione tra i popoli prima dell’epoca classica: non dipese proprio da una certa malleabilità del politeismo greco, efficacemente assecondata dal diritto romano, la convivenza tra popoli assai diversi all’interno dell’Impero[3]?


L’impeto della novità cristiana assunse poi, nel momento della crisi socio-politica legata al crollo dell’Impero, la funzione di principio di integrazione culturale e sociale per tutta l’Europa. Da una parte, in Occidente, la novità del cristianesimo fece da catalizzatore, favorendo l’unità tra i popoli cosiddetti barbari e le popolazioni romanizzate, creando l’originale sintesi culturale e politica del “Sacro romano impero”; dall’altra, in Oriente, il cristianesimo fu capace di acculturare le popolazioni slave all’interno di una nuova forma di civiltà che verrà definita bizantina e che plasmerà il tessuto sociale dell’Europa centro-orientale per almeno un millennio[4]. Il cristianesimo contribuì in modo essenziale a consolidare l’identità europea anche attraverso il rapporto dialettico con l’Islam.


Il caso dell’invasione musulmana della Spagna offre qualche significativo esempio dei frutti della “forzata convivenza” cristiano-islamica. È noto che talune opere fondamentali del patrimonio classico, sia in ambito giuridico che in ambito propriamente filosofico – si pensi ad Aristotele – ricomparvero nel panorama culturale europeo, grazie al lavoro di traduzione dall’arabo, proprio nel contesto dei rapporti tra musulmani e cristiani lungo i secoli di occupazione militare della penisola iberica. Gli storici più avveduti concordano nell’affermare che l’idea di una convivenza pacifica in Spagna tra i seguaci delle tre religioni monoteistiche – cristiani, musulmani ed ebrei – tra i secoli VIII e XV sia da ritenersi “parzialmente” erronea. Tuttavia, anche se la natura dialettica del rapporto con i musulmani è evidente per il permanente conflitto militare, si deve riconoscere che tale conflitto non impediva né una certa convivenza pacifica tra la gente del popolo (soprattutto attraverso il commercio), né l’esercizio delle cosiddette disputationes tra cristiani, ebrei e islamici.


Le esplorazioni geografiche del secolo XV – in particolare dell’America – hanno aperto all’incontro-scontro con realtà e civiltà irriducibilmente “altre” rispetto ai canoni della coscienza culturale europea dell’epoca. Tuttavia, pur rimettendo in gioco il rapporto tra esperienza religiosa, concezione antropologica e dinamiche della vita sociale e politica, non hanno impedito al mondo europeo di mantenere un rapporto strutturale con la propria fisionomia religiosa originaria, favorendo l’approfondimento della sua stessa identità[5].


Tale rapporto permane come costitutivo anche nel cinquecento, quando la crescente affermazione delle monarchie nazionali e l’avvento del protestantesimo costrinse l’intera Europa a ridiscutere – spesso in modo drammatico e non senza contraddizioni – i termini del nesso tra esperienza religiosa e vita sociale. Si cercarono allora sintesi nuove, che sfociarono nel particolare principio giuridico-istituzionale del «cuius regio, eius et religio»[6]. Questa nuova situazione costituisce una delle ragioni per cui la modernità del XVII-XVIII, impegnata nella critica della tradizione o nella sua difesa, non fu certamente proclive al riconoscimento della funzione storica educativa e progressiva del cristianesimo.


Esito di questo processo sono le varie figure della secolarizzazione del cristianesimo che si sono avvicendate nella storia, con intento programmatico, a partire da Hume e che hanno trovato sistemazione nella celebre opera kantiana La religione nei limiti della sola ragione (1793). Come ha osservato l’acuto storico Michel de Certeau questo processo ha condotto alla rimozione della religione dalla sfera pubblica. Scrive de Certeau che, con la modernità, «la religione comincia a essere percepita dall’esterno. Viene collocata nella categoria del costume, o in quella delle contingenze storiche. A questo titolo, essa si oppone alla Ragione o alla Natura»[7]. Si delineano in tal modo, a partire dal XVI secolo, le varie figure sostitutive del precedente rapporto tra religione e società civile: il tentativo di ricondurre a una delle confessioni religiose tutte le rivali (integralismo/fondamentalismo); quello di risalire ad una religione naturale universale, più fondamentale delle religioni storiche (naturalismo illuministico); quello di attribuire alla “politica” lo stesso ruolo di fattore unificante di cittadini, corpi intermedi, società civile e nazioni precedentemente ricoperto dalla religione (totalitarismo); e, infine, quello di assumere l’atteggiamento della “morale provvisoria”, cioè lo scetticismo (liberalismo agnostico).


Il risultato storico di questo processo è duplice. Da una parte l’uso politico della religione sia in senso autoritario (religione di stato) sia in senso liberale (religione come fattore di utilità sociale[8]). E dall’altra la privatizzazione della religione, la riduzione della religione a fatto privato, senza rilevanza o liceità pubblica. In ogni caso occorre riconoscere che ciò che la modernità non ha saputo o non è riuscita a pensare è la rilevanza pubblica della religione.


Sul tema religioni e politica il dibattito si è articolato in maniera diversa tra le due sponde dell’Atlantico. A dire degli studiosi negli Stati Uniti è presente – anche se non prevalente – una concezione che generalmente dà piena cittadinanza alle motivazioni religiose di ciascuno. In questo senso, basti pensare all’influenza politica degli Evangelicals. Già i Padri fondatori avevano in qualche modo voluto uno «Stato laico senza laicismo di Stato»[9]. La sfera politica è fin dall’inizio chiaramente separata dalla sfera religiosa, ma è disposta a dialogare con essa perché è cosciente che nessun governo può produrre cittadini morali, ma al contrario sono cittadini morali spesso, ispirati dalle religioni, a favorire la democrazia.


Oggi cristiani metodisti, battisti, pentecostalisti, in forte espansione non solo negli Stati Uniti ma anche in America Latina (Brasile), Asia, Africa (fanno proseliti in territori musulmani) intrecciano in profondità la loro fede con la cultura americana. Al di là del giudizio che si vuol dare su questi movimenti religiosi, che tuttavia conviene non sottovalutare, essi mi sembrano confermare l’affermazione che «vi è un’importante lezione nell’esperienza americana della diversità religiosa all’interno di una struttura politica e sociale democratica: la fondazione religiosa della cultura è sufficientemente ampia per accogliere coloro che tentano di vivere secondo una delle tre grandi tradizioni di fede abramitiche, preservando la libertà individuale di credere e praticare»[10]. Così è possibile affermare che, almeno in linea di massima, la motivazione religiosa può essere importata nell’ambito pubblico.


Oggi in Europa, invece, l’argomentazione che sembra prevalente è di altro tenore. Si sostanzia infatti nell’affermazione che quand’anche le convinzioni morali e le evidenze elementari avessero un legame con la religiosità della persona, il confronto pubblico di cui si nutre la democrazia deve assolutamente prescindere dalla radice religiosa.


Obbligare i credenti a comportarsi come se fossero atei (etsi Deus non daretur), a non menzionare per esempio la corrispondenza tra la razionalità e l’origine divina di una determinata prescrizione, non è un prezzo troppo alto per vivere in società[11]? Soprattutto siamo sicuri che non tolga qualcosa di positivo alla società?


 


2. Una sfera pubblica religiosamente qualificata


Quale potrebbe essere allora il nuovo profilo richiesto nell’attuale frangente storico per le religioni in Europa? In proposito mi pare auspicabile affermare la necessità del riconoscimento di una sfera pubblica plurale e religiosamente qualificata, in cui le religioni svolgano un ruolo di soggetto pubblico, ben separato dall’istituzione statuale e distinto dalla stessa società civile benché all’interno di essa[12].


Da parte del potere politico si tratta di superare il rapporto di tolleranza passiva nei confronti delle religioni a vantaggio di un atteggiamento di “attiva apertura”, che non riduca la rilevanza pubblica della religione agli spazi concordatari con lo stato. Da parte delle religioni è necessario l’abbandono di autointerpretazioni di tipo privatistico o fondamentalista per creare il terreno di un interscambio diretto con le altre religioni e le altre culture; uno spazio di dialogo in cui le religioni possono giocare il loro ruolo di discorso pubblico sui valori di civiltà ed esprimere il loro giudizio storico.


In sintesi: «La sfera pubblica religiosamente qualificata è quella che si dà all’interno di una società civile definita come il campo di incontro fra soggetti che entrano in scambi sociali (di mercato e di integrazione sociale) non già privati delle proprie appartenenze religiose, ma invece qualificati da tali appartenenze, e che interagiscono fra loro valorizzando tali appartenenze, nel contesto di una democrazia politica che regola la compresenza fra religioni diverse per il tramite di tali sfere di scambio. È il luogo della relazionalità civile elaborata dalle stesse religioni nel momento in cui agiscono fuori di se stesse, attraverso l’influenza che hanno sugli attori sociali»[13].


Una tale proposta rispetta il fatto che «la libertà si rivela sempre più come un fenomeno relazionale»[14], proprio in consonanza con la natura propria del rapporto bi-univoco tra verità e libertà, ampiamente approfondito a partire dalla modernità.


 


3. Stato e vita buona


Si tratta quindi di pensare in termini più rigorosi la fisionomia di uno stato capace di dar spazio in forma adeguata ad una società civile veramente plurale. Uno stato che non tema, ma sappia regolare positivamente gli aspetti conflittuali di cui una simile società non è mai priva. Penso ad uno stato non “distaccato” che, pur non facendo propria una specifica visione (Weltanschauung), sia dichiaratamente al servizio della persona e delle esigenze ultime che la costituiscono (desiderio di libertà e di felicità). Ma uno stato che faccia nel contempo propri i grandi valori che stanno a fondamento della stessa convivenza democratica (libertà civili e politiche) generata da corpi intermedi. Altrove ho parlato, anche se in stretto riferimento alla situazione italiana, di “nuova laicità”[15].


I valori infatti sono sempre calati nelle tradizioni particolari che le istituzioni contribuiscono certo a plasmare ma da cui non possono prescindere, se intendono restare fedeli alla storia da cui hanno avuto origine. Come non necessariamente si cade in una posizione “relativista” per il semplice fatto di limitarsi ad una considerazione autenticamente formale e procedurale della democrazia, così neppure si finisce automaticamente nel “fondamentalismo” per il fatto di ritenere che questa considerazione procedurale, pur dotata di una sua autonoma consistenza, possa essere formulata nella chiave di una assiologia che, con le debite distinzioni, continui a far valere gli effetti, secondo me benefici, della tesi di Böckenförde circa l’esistenza di un riferimento “prepolitico” di natura religiosa come necessario al rispetto dei diritti umani e al buon funzionamento delle democrazie.


I diritti fondamentali, se considerati secondo tutto il loro bagaglio di esigenze costitutive dell’esperienza elementare di ogni persona ed i valori della convivenza democratica, se calati nella storia particolare di un popolo, sono quindi a nostro avviso i tratti positivi che individuano uno stato autenticamente laico. Una simile istituzione statuale ha anche il compito di ordinare (e far fruttificare) la coesistenza di identità e religioni differenti. Non uno stato inteso come un anonimo vuoto contenitore da riempire a piacimento (opzione debole e, di fatto, irrealizzabile), ma come uno spazio, certamente non confessionale in cui, senza trascurare le tradizioni, ciascuno possa portare il proprio contributo all’edificazione del bene comune E questo deve avvenire nell’inevitabile e rispettosa logica del confronto e del riconoscimento che sola salva la vera natura del potere che è e deve restare servizio, anche quando sia costretto a far ricorso ad un certo uso della «forza per garantire il diritto» (Kant).


Si tratta non a caso dell’unica opzione che, evitando gli opposti pericoli dell’individualismo estremo e dell’oppressione del collettivo, tiene in adeguato conto il fondamento “relazionale” del potere[16]. Nessuno di noi infatti può concepirsi al di fuori di un rapporto: l’“individuo” non esiste mai come atomo separato, autosufficiente e quindi contrapposto, ma sempre anche come “alterità differente”[17]. Ciascuno è insieme “se stesso” (identità) e “altro” per “qualcun altro” (differenza). Concretamente, questa relazione si esprime nel processo di confronto dialogico e di riconoscimento da cui scaturisce ogni sana convivenza e su cui si fonda ogni legittimo potere.


Il nesso di identità e differenza, nella dinamica del confronto e del riconoscimento reciproco, è dunque insuperabile ed è generatore di democrazia. Non basta quindi una religione civile, né è proficuo ridurre la religione a puro privato individuale. È necessario un riconoscimento pieno delle fedi personali normalmente inseparabili da appartenenze comunitarie (religioni) capaci di immettere, senza privilegi, nel libero campo del confronto democratico plurale una proposta di vita buona ad un tempo personale e sociale.


In questo modo un’Europa che sappia custodire e promuovere una concezione ed un’esperienza umana come quella imperniata sul rapporto verità-libertà scaturita nel suo seno a partire dalla tradizione giudaico-cristiana, continuerà ad essere per le nazioni americane un imprescindibile interlocutore culturale. Ma sarà anche capace di intrattenere un rapporto adeguato con le raffinate civiltà asiatiche. Deciderà inoltre di assumere i suoi gravi ed improcrastinabili doveri verso il mondo africano, ascoltando finalmente il grido che ci giunge soprattutto dalla ormai endemica miseria dei paesi del Sud del Sahara.


4. E la Turchia?


            Il fenomeno che domina la scena mondiale, in questo inizio di terzo millennio, è un processo di inedita mescolanza di popoli, culture e civiltà che sono uso chiamare, dilatando un tema caro all’antropologia culturale, “meticciato di culture e di civiltà”. Con questo termine mi riferisco a un processo in atto e non ad una astratta teoria da applicare poi alla realtà. Guardo alla storia come a un intreccio di libertà: la libertà di Dio, la libertà dell’uomo e anche la libertà del maligno. Questo intreccio dà vita a circostanze, situazioni e rapporti assai complessi ed articolati che l’uomo può criticamente orientare, ma non può né annullare del tutto e soprattutto non può produrre a proprio piacimento. Ora, che ai giorni nostri sia in atto un mescolamento di popoli mai visto prima è evidente. Le statistiche più accurate parlano di due miliardi di persone in procinto di emigrare. Ma se Dio guida la storia, vuol dire che Dio che ci sta chiamando a questo mescolamento: non dobbiamo averne paura, ma chiederci come starci dentro, come assecondarlo criticamente e come orientarlo. Vanno ripensati i criteri per il rispetto della pluriformità nell’unità che non confondano le differenze né irrigidiscano le identità. In questa prospettiva va guardato il problema specifico che voi esaminate della candidatura della Turchia all’Unione Europea.


L’Europa non può non porsi con forza il problema del confronto con la Turchia e con ciò che essa rappresenta: questo confronto dovrà portare all’integrazione della Turchia nell’Unione? Non mi sento di darlo per scontato ma neppure di escluderlo. Posso offrire due spunti generali per un orientamento.


In primo luogo considero che il dato dei cristiani che vivono in Turchia, ed in particolare la presenza del Patriarcato ecumenico a Costantinopoli, costituiscono un fattore decisivo. Senza dubbio l’Europa è chiamata a farsene carico, e noi cristiani dobbiamo tenere in particolare conto la posizione dei soggetti ecclesiali che vivono in Turchia.


Per i cattolici l’urgenza ecumenica è decisiva e l’impegno a intensificare i rapporti con i nostri fratelli e ad un sempre più intenso legame con il Patriarcato di Costantinopoli dev’essere totale. Il sacrificio di don Andrea Santoro ne è luminosa conferma. Perciò dobbiamo prestare ascolto alla loro posizione anche circa la candidatura della Turchia all’Unione. È un fattore che può far pendere la bilancia in un senso piuttosto che in un altro. Evidentemente la questione va verificata con molta acribia, nel dialogo costante, tesi a scoprire le “ragioni” addotte da questi nostri fratelli.


Un secondo criterio orientativo per valutare il caso Turchia è relativo alla concezione e alla pratica dei diritti umani. Il rapporto religioni e politica ha bisogno del rispetto della natura di universale concreto propria delle religioni che non è meno decisiva dell’universalità propria dei diritti fondamentali, troppo spesso considerati come mera rubrica di regole poco contestualizzate storicamente. Non bisogna pensare i diritti umani in astratto, come un puro elenco di principi. Ed in proposito ci possono aiutare le religioni viste come soggetto pubblicamente qualificato. L’universalità dei diritti umani potrebbe trovare maggior efficacia se alimentata dall’universalità delle religioni. Le fedi religiose hanno portata universale. La loro universalità è però radicata nella concreta vita quotidiana delle persone e dei popoli. Se si imposta un corretto rapporto tra ragione, fede e religione l’esperienza religiosa può alimentare la promozione e la difesa dei diritti umani. Aiuta a non concepirli soltanto come diritti di individui separati ma piuttosto come diritti inalienabili delle persone che si nutrono di positive appartenenze comunitarie e sono capaci di un’azione ad un tempo capillare ed universale. In questo quadro la libertà religiosa non può non fungere da criterio guida anche per il caso Turchia.







[1] Riprendo ed approfondisco alcune riflessioni già pubblicate in A. Scola, Cristianesimo e religioni nel futuro dell’Europa, in Senato della Repubblica, L’identità dell’Europa e le sue radici. Storie, culture, religioni, Rubettino, Soveria Manelli 2002, 36-48.


[2] Uno sguardo sintetico sui rapporti tra la sfera religiosa e quella sociopolitica, con particolare riferimento al rapporto Chiesa-Stato, si trova in R. Minnerath, Eglise-Etat, in J.-Y. Lacoste (dir.), Dictionnaire critique de Théologie, PUF, Paris 1998, 383-385.


[3] So che taluni storici considererebbero questo giudizio un po’ troppo generoso. Sulla questione è utile: D. Sabbatucci (a cura di), La religione romana, in Storia delle religioni (fondata da Pietro Tacchi Venturi), vol. III, UTET, Torino 1971.


[4] Sul cristianesimo come principio di integrazione culturale e sociale (oltre al riferimento classico agli studi del Dawson) si possono ricordare alcune significative Settimane del CISAM di Spoleto, come Il monachesimo nell’Alto Medioevo e la formazione della civiltà occidentale, Atti della IV Settimana di studio (Spoleto 8-14 aprile 1956), Spoleto 1957; e soprattutto: Nascita dell’Europa ed Europa carolingia: un’equazione da verificare, Atti della XXVII Settimana di studio (Spoleto 19-25 aprile 1979), Spoleto 1981. Inoltre cfr.: G. Sergi, L’Europa carolingia e la sua dissoluzione, in La Storia. I grandi problemi dal Medioevo all’Età Contemporanea, a cura di N. Tranfaglia-M. Firpo, II/2, UTET, Torino 1993, 231-262 (il § 1: Le premesse: la dominazione franca e l’incontro latino-germanico, con indicazioni bibliografiche).


[5] Sull’influsso delle “nuove terre” nella costituzione dell’identità europea resta sempre stimolante la lettura di: P. Hazard, La crisi della coscienza europea, Einaudi, Torino 1968; J. Huizinga, Autunno del Medioevo, BUR, Milano 1995.


[6] La formula compare per la prima volta nelle Institutiones juris canonici, Francoforte 1612, del luterano Gioacchino Stephani. In proposito cfr. E. Iserloh, La pace religiosa di Augusta, in E. Iserloh – J. Glazik – H. Jedin, Riforma e controriforma XVI-XVII secolo. Storia della Chiesa VI, Jaca Book, Milano 19813, 353-360.


[7] M. De Certeau, La scrittura della storia, “Il pensiero scientifico” Ed., Roma 1977, 162-163.


[8] Montesquieu: «Tutte le religioni contengono dei principi utili alla società», in Lettres persanes, lett. 86.


[9] Cfr. A. Besançon, Situation de l’Église catholique, in «Commentaire», 113 (2006), 5-23, 11.


[10] C. Anderson, Religione e politica nello spirito americano, in «Oasis» 1 (2005) n. 2, 96.


[11] D. Novak D., La legge mosaica e il diritto naturale, in Daimon 4/041, 213-224.


[12] Cfr. P. Donati, Pensare la società civile come sfera pubblica religiosamente qualificata, in C. Vigna – S. Zamagni (a cura di), Multiculturalismo e identità, Vita e Pensiero, Milano 2002, 51-106.


[13] Ibid., 92.


[14] Ibid., 104.


[15] Cfr. A. Scola-G. E. Rusconi, Prove di dialogo, tra fede e ragione, in «Il Mulino» (2006) n. 2, 369-379.


[16] M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, Corso al Collège de France 1977-78, Milano Feltrinelli, 2004.


[17] Cfr. F. Botturi, Condizioni antropologiche dell’interculturalità, Intervento all’incontro del Comitato Scientifico del Centro Internazionale di Studi e Ricerche Oasis, Venezia 20-21 giugno 2005.


Tratto dal sito ufficiale della Diocesi di Venezia –  http://www.venezia.chiesacattolica.it – nella sezione Omelie e documenti del Patriarca.