I peccati (non confessati) dell’Espresso…

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UN EPISODIO AVVILENTE
E… INQUIETANTE

Su L’ESPRESSO del 1° febbraio scorso Riccardo Bocca ha pubblicato un articolo dal titolo «Benedette assoluzioni. Eutanasia, condom, staminali, omosessualità. Nei confessionali di cinque città abbiamo raccolto le risposte dei preti. Che molto spesso sono in netto contrasto con le direttive di papa Ratzinger». Si tratta di un articolo che riportava le trascrizioni di fittizie confessioni raccolte in 24 chiese di cinque città, tentando di interrogare i confessori su argomenti «scottanti». Il fatto è profondamente scorretto dal punto di vista professionale e, per i credenti, costituisce una manipolazione e un sacrilegio nei confronti del sacramento della penitenza, che la Chiesa condanna con la scomunica.
L’OSSERVATORE ROMANO non ha esitato a definire questa inchiesta “oltraggiosa”. «Vergogna, – ha scritto il giornale della Santa Sede – non c’è altra parola per esprimere il nostro sconcerto verso un’operazione disgustosa, indegna, irrispettosa, particolarmente offensiva. Un’offesa verso il sentimento religioso di milioni di persone, ma che, annotiamo tra l’altro con tristezza e rammarico, non sembra aver suscitato reazioni in nessuno di quanti in altre circostanze si erano pronunciati in difesa del senso religioso altrove offeso». Ma in Italia oggi soltanto i cattolici possono essere impunemente offesi…
Questo «episodio avvilente» mette in luce una volta di più l’inadeguatezza dell’Ordine dei giornalisti, caratterizzato come sempre più spesso accade dall’assenza. Molti ritengono che sia giunto il momento di valutare più approfonditamente il modo con il quale l’Ordine vigila sulla deontologia dei suoi iscritti.

Riportiamo l’editoriale dell’ultimo numero della rivista “LA CIVILTÀ CATTOLICA” che analizza questo disgustoso e sacrilego episodio.

Un episodio avvilente

Su “L’Espresso” del 1° febbraio scorso Riccardo Bocca ha pubblicato un articolo dal titolo «Benedette assoluzioni. Eutanasia, condom, staminali, omosessualità. Nei confessionali di cinque città abbiamo raccolto le risposte dei preti. Che molto spesso sono in netto contrasto con le direttive di papa Ratzinger». E nella presentazione afferma: «Ma come la pensa il grande esercito dei preti italiani, quelli che tutti i giorni ascoltano i fedeli, le loro difficoltà e le loro perplessità? Come si comportano, nella pratica, questi sacerdoti in bilico tra i princìpi della dottrina e quelli più terreni della pastorale? E soprattutto: sono in grado di affrontare temi tanto impegnativi? Per capirlo, siamo entrati nel posto dove possono esprimersi con la massima serenità: il confessionale. Abbiamo costruito identità fittizie e dichiarato peccati immaginari, legati alle questioni più scomode della società contemporanea: dalla dolce morte alla droga, dalla prostituzione alle truffe, dal sesso con minori al battesimo nelle coppie miste. Le loro risposte, raccolte in 24 chiese italiane, da Torino a Palermo, da Milano a Napoli e Roma, sono qui pubblicate».


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Prima di entrare nel merito dell’«inchiesta» ne vogliamo sottolineare la precomprensione e l’obiettivo, come emergono già dalle poche righe che abbiamo riportato in apertura: mostrare il contrasto tra «le direttive di papa Ratzinger» e le posizioni dei confessori, e inoltre presentare i «sacerdoti in bilico tra i princìpi della dottrina e quelli più terreni della pastorale». È l’atteggiamento di eterno «ritorno» sulle pretese «divisioni» all’interno della comunità ecclesiale tra il Papa e i sacerdoti: si tratta di un leit motiv ricorrente su certa stampa, che non impressiona più nessuno. A ciò si aggiunge l’«ignoranza» o pretesa tale su che cosa sia la confessione, un sacramento che la Chiesa circonda della segretezza più assoluta perché è in gioco il rispetto di ciò che c’è di più intimo nella persona umana.
A colui o a coloro che si sono recati in confessionale spacciandosi per una persona pentita o almeno seriamente interessata a verificare la bontà o meno del proprio comportamento non interessava affatto il fine del sacramento della penitenza — riconciliarsi con Dio —, ma soltanto «provocare» con l’inganno il sacerdote affinché, sotto la «guida» del giornalista, mostrasse che «nelle confessioni i preti contraddicono i no del Papa», che cioè essi giudicherebbero in modo non conforme alla dottrina cattolica, ma in modo del tutto arbitrario le azioni denunciate dal penitente.
Come ogni credente sa, il confessore nell’esercizio del suo ministero ritiene di trovarsi davanti a una persona con una sua storia, un suo itinerario di fede e di peccato e, alla luce del Vangelo e della morale, cerca di guidare la coscienza del fedele a scorgere i passi in avanti possibili, e quindi doverosi, verso una crescita della sua vita cristiana. Si tratta di un cammino che non si ferma mai durante la propria vita terrena, ma il cui percorso è segnato da una progressione, nonostante le possibili «vie trasversali», le cadute o i momenti di ritorno indietro. Ecco perché affermare che «i sacerdoti sono in bilico tra i princìpi della dottrina e quelli della pastorale» significa partire da posizioni molto lontane dalla realtà del rapporto tra penitente e confessore, quasi si trattasse di un’applicazione «meccanica» di regole, che invece verrebbero «interpretate» in maniera molto «personale» da parte dei confessori.
Per di più, come è stato sottolineato da molti teologi moralisti, nelle risposte dei confessori pubblicate dal giornalista ci sono alcuni passaggi formulati in modo ambiguo. Ad esempio, si cerca di «condurre» il confessore ad affermare, correttamente secondo la dottrina cattolica, che quello che conta nell’agire morale è il giudizio della propria coscienza. Questo è verissimo. Ma ci si dimentica di aggiungere — soprattutto per il lettore odierno immerso in un clima in cui domina in qualsiasi materia e problema l’«assolutezza del soggetto» il quale in tal modo può decidere ciò che vuole — che il giudizio della propria coscienza dev’essere illuminato dalla verità e, a tal fine, specialmente nei problemi nuovi o che si presentano in termini del tutto inediti, il ricorso al Magistero è di grande aiuto per la formazione di una coscienza «retta».


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Circa poi il merito dell’«inchiesta» non possiamo fare a meno di manifestare la nostra profonda amarezza per la leggerezza con cui è stato profanato il sacramento della penitenza. Certo è legittimo cercare di «conoscere» il pensiero del «grande esercito» dei confessori, ma il modo scelto per cercare di farlo è del tutto scorretto professionalmente dal punto di vista della deontologia del giornalismo; è condannabile moralmente, trattandosi di un inganno; giuridicamente poi, secondo molti, potrebbe configurare il reato di vilipendio della religione. Da un punto di vista professionale ci sono un modo corretto e uno scorretto di procurarsi le notizie: quello scelto — strumentalizzare, ridicolizzare e profanare il sacramento della penitenza — è indubbiamente un modo scorretto. La confessione costituisce per i credenti lo strumento maggiore della misericordia di Dio offerta, attraverso il ministero del sacerdote, ai peccatori. Si tratta di un rapporto che vede, da una parte, il desiderio di conversione del fedele e, dall’altra, la parola di perdono rivolta, nel nome di Gesù, dal confessore. Tutta questa realtà soprannaturale, stando alle parole de L’Espresso, viene trasformata in un semplice dibattito sull’eventuale condanna o conferma di alcuni comportamenti, con l’intenzione sin dall’inizio della totale inesistenza e nullità del sacramento. È veramente avvilente.

Dal punto di vista dell’etica professionale, un giornalista non può mettere scandalisticamente in pubblico cose che gli sono state dette in stretto segreto da una persona alla quale egli non si è presentato come giornalista; quindi cose dette in un clima che sottintende un reciproco patto di riservatezza, il quale diventa, nel professionista che ha ricevuto le confidenze, obbligo di segreto professionale. Più correttamente lo stesso risultato poteva essere ottenuto, ad esempio, frequentando un corso di preparazione al matrimonio durante il quale rivolgere le stesse domande a un sacerdote — e in questo caso le risposte potevano essere pubblicate trattandosi di una riunione pubblica — oppure presentarsi come giornalista a un confessore e porgli le stesse domande garantendogli però l’anonimato.


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Un episodio simile, fra gli altri, era avvenuto già nel 1973 (cfr Civ. Catt. 1973 II 55-60), con la pubblicazione del volume “Il sesso in confessionale”, che conteneva la registrazione di 112 confessioni, scelte tra le 632 realizzate in quattro anni da due giornalisti. All’epoca la Congregazione della Dottrina della Fede, il 23 marzo 1973, pubblicò la seguente Dichiarazione: «Essendo ora diffusa la notizia della prossima pubblicazione di un volume recante il testo di vere o simulate confessioni sacramentali, la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede […] rende noto che chiunque commette il vilipendio al Sacramento della Penitenza, registrandone le confessioni vere o simulate che siano, e chiunque prende formalmente parte a tali e simili pubblicazioni, come autore o come collaboratore, si pone con ciò stesso fuori della comunione della Chiesa, cade cioè “ipso facto” nella scomunica». Per comprendere il significato di questo intervento e giustificarne la severità — commentava la nostra rivista nel 1973 —, si deve tener presente che la Chiesa ha sempre protetto con tutti i mezzi a sua disposizione il sacramento della penitenza da tutto ciò che potesse esporlo al disprezzo e al vilipendio o che potesse allontanare da esso i fedeli. Certo la scomunica — tuttora in vigore per casi simili — è un provvedimento che la Chiesa non prende a cuor leggero e senza un profondo rammarico: tuttavia, più che un provvedimento punitivo, essa è una pena «medicinale», cioè ha lo scopo di far prendere coscienza della gravità della colpa commessa e di indurre il colpevole a pentirsi per poter così essere riammesso nella comunione della Chiesa. La scomunica è soltanto un provvedimento grave che l’autorità ecclesiastica prende in certe circostanze per porre il cristiano di fronte alle proprie responsabilità e per riprovare apertamente certi comportamenti che hanno provocato scandalo nella comunità ecclesiale.


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Vogliamo concludere questo breve commento a un «episodio che avvilisce» la professione giornalistica e che costituisce, per i credenti, una manipolazione del sacramento della penitenza con quanto affermò, già nel 1973, il prof. Sergio Cotta: «Ogni autentico rapporto personale si basa sulla fiducia delle parti, sul rispetto reciproco della loro umanità e delle loro opinioni. L’inganno distrugge la libertà e la disponibilità dell’incontro umano, dando vita a un’amara spirale di sospetti. L’inganno degrada il rapporto personale a un gioco di astuzie e di soprusi che rivela il disprezzo che si ha per l’altro e soprattutto la bassezza morale di chi compie l’inganno. Nessun pretesto cronachistico o di inchiesta sociologica può giustificarlo. Nel caso di queste registrazioni si lede quella sfera di riservatezza e di intimità, senza la quale non si ha persona umana. Ma, cosa ancor più deleteria, si attenta gravemente a quella reciprocità della fiducia che costituisce la base stessa di una società di uomini liberi e coscienti, rispettosi della libertà e della coscienza altrui».
Oggi viviamo in un tempo nel quale la maggioranza dei cittadini vive un rapporto spesso contraddittorio con la comunità ecclesiale: da un lato grande fiducia nell’istituzione Chiesa, soprattutto quando è fonte di servizi alle persone (si pensi, alla stima di cui godono il volontariato e la Caritas); dall’altro tendenza all’indifferenza nei confronti della dimensione soprannaturale e religiosa della Chiesa. Di qui «l’assordante silenzio» dei media nei confronti della pubblicazione dell’«inchiesta» sui confessori.
È possibile che oggi in Italia soltanto i cattolici possano essere offesi pubblicamente e impunemente? Forse la tolleranza nei confronti di tutto, in nome del relativismo imperante, sarebbe la stessa nei confronti di un episodio di oltraggio simile nei confronti dell’islamismo (per timore di una fatwa?) o dell’ebraismo?
Infine questo «episodio avvilente» mette in luce una volta di più l’inadeguatezza dell’Ordine dei giornalisti, caratterizzato come sempre più spesso accade dall’assenza. Molti ritengono — secondo noi purtroppo giustamente — che sia giunto il momento di valutare più approfonditamente il modo con il quale l’Ordine vigila sulla deontologia dei suoi iscritti.


“La Civiltà Cattolica” 2007 I 319-323, quaderno 3760 del 17 febbraio 2007