Cina, lo sfruttamento all’ombra di Paperino
Dopo le denunce contro le fabbriche locali che lavorano per la Disney, le accuse: “I vostri fornitori sono schiavisti”. Il caso a pochi giorni dall’apertura di Disneyland Hong Kong…
PECHINO – Libri di Topolino, album colorati con le figure del pesciolino Nemo, agendine e giochi con i popolari personaggi dei cartoons di Walt Disney. Sono le prove a carico in un impressionante dossier sugli abusi dei diritti umani nelle fabbriche cinesi. Dietro gadget e giocattoli che vengono venduti ai bambini del mondo intero dalla multinazionale Disney ci sono migliaia di operai cinesi pagati 60 euro al mese.
Costretti a lavorare 13 ore al giorno, e vittime di una tragica serie di incidenti in fabbrica: dita e mani amputate, morti sul lavoro. Le accuse sono documentate da un gruppo di ricercatori universitari di Hong Kong che sono riusciti a raccogliere le testimonianze degli operai e rivelano le loro scoperte in un voluminoso rapporto con il titolo “In cerca della coscienza di Topolino“. La denuncia esce a tre settimane dall’inaugurazione del nuovo parco divertimenti Disneyland-Hong Kong, che è giĂ stato al centro di controversie, in un periodo critico per i vertici della Disney in America. Uno dei fornitori della Disney è l’azienda tipografica Hung Hing, posseduta da azionisti di Hong Kong e con tre fabbriche nella cittĂ meridionale di Shenzhen. Dagli stabilimenti della Hung Hing escono fumetti, libri educativi per bambini, giochi interattivi, manuali per l’uso di giocattoli, scatole colorate. Non solo con il marchio Walt Disney. La Hung Hing fornisce pubblicazioni per l’infanzia anche ad altre multinazionali americane come Mattel e McDonalds. Le immagini gioiose di questi prodotti per bambini sono in contrasto con le condizioni di vita degli operai, ai limiti dello schiavismo.
Ecco alcuni passaggi della lettera scritta da un operaio: “I guardiani ci maledicono e ci trattano come criminali. Gli alloggi sono lontani, ogni giorno qualche operaio che rientra a dormire viene investito da un’auto, ferito o ucciso, e non c’è assistenza sanitaria. I nostri salari sono miserabili, 600-700 yuan al mese (60-70 euro, ndr) e solo per l’alloggio ne spendiamo 100. Dopo aver lavorato un mese cerchiamo cosa ci resta in tasca: pochi spiccioli. Onorevoli dirigenti, non potete trovare nel vostro cuore un po’ di compassione?”. Il rapporto elenca i piĂą recenti infortuni sul lavoro, in certi casi documentandoli con fotografie: un operaio di 24 anni schiacciato a morte dalla macchina che fa i buchi nella carta; un altro fulminato dalla corrente di una tagliatrice; operaie con le dita amputate o la schiena spezzata. Due altri fornitori cinesi della Disney si trovano nella zona di Dongguan, sono le imprese Nord Race e Lam Sun (quest’ultima fornisce i suoi prodotti di plastica anche a Mattel, Wal-Mart e Pepsi Cola). In queste fabbriche viene violata perfino la legislazione cinese sul lavoro, che pure non è certo avanzata nel tutelare i diritti. Il salario minimo legale nel Dongguan è fissato a 3,43 yuan l’ora (34 centesimi di euro) ma questi operai sono pagati 2,9 yuan all’ora. Fare gli straordinari è obbligatorio – la giornata media è 13 ore di lavoro – eppure spesso non sono pagati.
Un trucco per spremere gli straordinari gratis consiste nell’aumentare gli obblighi di produttivitĂ : a un reparto è stato fissato l’obiettivo di migliorare il rendimento del 30% alzando la produzione di agendine a 520 l’ora; se quell’obiettivo non è raggiunto a fine giornata gli operai devono fermarsi in fabbrica finchĂ© non hanno completato la produzione, senza aver diritto a un compenso. Le aziende addebitano agli operai fino a 185 yuan al mese per le spese di alloggio e vitto, anche se si tratta di dormitori con stanze di 8 letti in 12 metri quadrati, e il cibo “è di una qualitĂ così infima che si vede dal colore che ha”. Nei reparti di produzione regna un calore oppressivo e non ci sono ventilatori. Un giorno di assenza dal lavoro viene sanzionato con 100 yuan di multa. Quando degli operai hanno osato protestare per chiedere dei miglioramenti salariali, sono stati picchiati dalle guardie giurate, e i capi dell’agitazione sono stati licenziati.
“Che cosa succederebbe – si chiedono i ricercatori di Hong Kong che hanno redatto l’indagine – se i piccoli fan di Topolino sapessero che i loro quaderni e giocattoli sono macchiati dal sudore, dal sangue e dalle lacrime di lavoratori sfruttati?” Tra le richieste che rivolgono alla multinazionale americana: che indichi nomi e indirizzi di tutte le imprese a cui ha subappaltato le produzioni; esiga da queste fabbriche la disponibilitĂ a ricevere ispezioni senza preavviso da parte di organismi indipendenti; i lavoratori possano ricevere una formazione sui propri diritti; in ogni stabilimento sia creata una rappresentanza degli operai.
La Walt Disney americana ha reagito a questa denuncia annunciando che incaricherĂ una organizzazione non profit, la Verite, di indagare sulle accuse. “Collaboreremo – si legge nel comunicato ufficiale – per assicurare un’investigazione approfondita di queste accuse e prendere le misure adeguate a rimediare le violazioni”. Non è la prima volta che Disney prende questo impegno. Tre mesi fa Repubblica aveva pubblicato rivelazioni su un’altra fabbrica-lager, la He Yi di Dingguan, che produce giocattoli per la Disney pagando salari da fame. GiĂ allora la Disney aveva dovuto ammettere. Avevo scritto alla direttrice delle Corporate Communications della Walt Disney Consumer Products negli Stati Uniti, Nidia Caceros Tatalovich, per avere una reazione ufficiale di fronte allo scandalo dei “giocattoli della miseria”.
Aveva risposto che “una verifica condotta (in seguito alle denunce delle associazioni umanitarie, ndr) ha confermato la validitĂ di varie accuse”. La direttrice delle relazioni esterne aggiunse che la Disney stava “incoraggiando” il management dell’azienda a migliorare le condizioni in fabbrica. Le ispezioni promesse in risposta a queste denunce sono spesso una farsa.
Alla Lam Sun nell’ottobre 2004 una visita di rappresentanti di MacDonald’s e Wal-Mart si concluse con un “voto elevato” e la “soddisfazione per l’abilitĂ dell’azienda nell’onorare gli ordini e nel migliorare la qualitĂ dei prodotti”. L’ispezione era stata annunciata in anticipo. I capi della Lam Sun avevano costretto la maggioranza dei lavoratori a restare nei dormitori. Su 3.000 dipendenti, gli ispettori ne avevano visto solo due o trecento, debitamente ammaestrati a rispondere come voleva l’azienda. Il nuovo caso esplode a poche settimane dall’inaugurazione della Disneyland di Hong Kong, che aprirĂ il 12 settembre. Si attendono 30.000 visitatori al giorno, soprattutto un turismo familiare del ceto medioalto dalle grandi cittĂ cinesi: Pechino, Shanghai, Canton. Gli attivisti di Hong Kong cercheranno di sensibilizzare anche i visitatori di Disneyland perchĂ© sappiano chi produce i giocattoli e i ricordi in vendita nei negozi del parco. Una prima contestazione, degli ambientalisti, ha avuto successo: sono riusciti a far togliere dai futuri menu dei ristoranti di Disneyland la zuppa di pinna di pescecane, per proteggere una specie minacciata. Un episodio che ora appare quasi folcloristico, in confronto al dramma delle fabbriche – lager.
Gli operai cinesi non sono una razza in via d’estinzione e la battaglia per difendere i loro diritti sarĂ piĂą lunga e difficile: investe un modello di sviluppo di cui profittano non solo le multinazionali straniere. In quanto alla Disney, questa vicenda la colpisce dopo che la multinazionale californiana è stata agitata in casa sua da uno scandalo di altra natura. Il suo consiglio d’amministrazione è finito sulle prime pagine di tutti i giornali Usa – e anche in tribunale – per aver licenziato per scarso rendimento dopo soli 14 mesi il numero due dell’azienda, Michael Ovitz. Con una buonuscita da 140 milioni di dollari.
di Federico Rampini
La Repubblica – 22 agosto 2005