Finalmente si rompe il silenzio su un grande pensatore e tomista italiano

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Un «cercatore di verità» tra le frontiere rischiose del sapere


Cornelio Fabro vigile vedetta speculativa del XX secolo e grande tomista, fu il primo traduttore e il maggiore conoscitore italiano del pensiero di Kierkegaard. Nella sua opera la riscoperta di una fede «radicale» che non cede al modernismo. Forse anche per questo la sua figura è stata molto “silenziata”…

UN «CERCATORE DI VERITÀ» TRA LE FRONTIERE RISCHIOSE DEL SAPERE


Cornelio Fabro vigile vedetta speculativa del XX secolo


In una memoria autobiografica Cornelio Fabro scrive: «Posso e devo dire che il mio incontro con Kierkegaard è stato decisivo, non meno di quello con s. Tommaso, Kant, Hegel, Marx (…) sia per afferrare l’unità sotterranea del pensiero filosofico nelle varie epoche della cultura, sia per cercare dall’interno la radice o le radici del suo polimorfismo, del suo alzarsi e abbassarsi… nei vari secoli». È significativa questa nota che rivela l’interesse per il problema della libertà non disgiunto da quello sull’essere e sulla verità. Alla voce «Kierkegaard», redatta per l’Enciclopedia Filosofica Sansoni, lo stesso Fabro si richiama a sporadiche traduzioni (spesso indirette) delle Opere del pensatore Danese in italiano, prima che prendesse corpo la sua impresa di traduttore di Kierkegaard e di suo esegeta. Ci sollecita il ricordo di Cornelio Fabro (1911-95) nel 150° anniversario della morte del Pensatore danese anche a motivo della recente riedizione di Neotomismo e Suarezismo (1941), che appare come quarto volume delle Opere Complete, EDIVI, 2005, importante per l’approfondimento dell’esegesi tomista. Chi ha conosciuto personalmente padre Fabro può testimoniare del suo impegno di sacerdote stimmatino, di docente universitario, di consultore di vari Dicasteri della Curia Romana, di conferenziere apprezzato. Molti lo stimano per la traduzione degli scritti kierkegaardiani a cui ha dedicato anni di lavoro. Per molti versi Cornelio Fabro può essere considerato pioniere cattolico della «diffidata» cultura moderna e contemporanea. Viene da chiedersi: è stato egli spirito avventuroso, assetato di moderna curiositas, oppure paladino di tradizionalismo ortodosso in seno al cattolicesimo? Il grande tomista di Flumignano si è sempre considerato «cercatore di verità»: Come tale ha frequentato frontiere rischiose del sapere, ben corazzato del metodo scientifico dell’Aquinate al quale non interessavano tanto le opinioni altrui («quid homines senserint») quanto piuttosto il modo stesso di presentarsi della verità alla ragione («quomodo se habet veritas»). Da questa divisa metodica e programmatica scaturisce non poca luce sul fatto di poterlo definire o meno tradizionalista, apologeta, integralista… Ciò che lo qualifica come pensatore metafisico è lo spessore del suo argomentare teoretico a diretto contatto con le fonti di autori classici, nel solco plurisecolare della tradizione cristiana, per venire a capo di ciò che la ragione umana è in grado di scoprire da sé e quanto di verità è apportato dalla Rivelazione biblica. Il resto va considerato aspetto biografico accessorio: l’ardimento meditativo di «solitario», l’interlocutore difficile, il giudice severo della cattiva coscienza e delle approssimazioni dilettantistiche di tanta pubblicistica coeva sia in ambito ecclesiale sia in partibus infidelium. Se si tengono presenti questi aspetti biografici, allora si coglie debitamente l’ampia spettrografia degli approfondimenti su questioni teoretiche, etiche, scientifiche e religiose del padre Fabro organizzata secondo la logica del rendere ragione del Fondamento assoluto, delle deduzioni logiche particolari, dell’indagine fenomenologica sulla realtà esperita, delle capacità umane di intendere, volere e realizzare la libertà personale nella luce della trascendenza divina. Interpretazione, questa, che scaturisce dal magistero di Tommaso d’Aquino e gli consente di cimentarsi, senza complessi di inferiorità, con i nomi eccellenti della modernità: Kant, Hegel, Marx, Comte… Occorre aggiungere che Cornelio Fabro ha saputo raccogliere le sfide antimetafisiche e antiumanistiche della cultura atea e nichilista del Novecento, evidenziandone le contraddizioni, le ipocrisie ideologiche e le funeste incidenze sull’animo giovanile. L’antiumanesimo strutturalista del Novecento ha radici remote che da Cartesio arrivano a Kant. In modo crescente e spericolato si sono avanzati dubbi sull’identità della persona che sarà predicata come «incognita» da Kant e trasposta in valore etico. Col sopraggiungere dell’idealismo ottocentesco si darà risalto al divenire temporale, aprendo alla considerazione di tre schemi di storia: quella naturale (evoluzionistica), quella sacra (teologica) e quella sociale (marxista). Uomo e mondo vengono abbordati in termini di correlazione e non più di entità sostanziali nella filosofia del Novecento. La relazione consente l’apertura agli altri, la sorpresa dell’evento, la valorizzazione dell’etica della comunicazione e del discorso, non senza un sottofondo di ambiguità. Orbene, a tutte queste «novità» filosofiche padre Fabro ha dato risposta critica vanificandone le pretese immanentistiche, stigmatizzandone relativismo e scetticismo, capovolgendo gli esiti fallimentari della coscienza antropocentrica in coscienza creaturale essenzialmente relazionata a Dio e gerarchicamente attestantesi nel mondo come reciprocità con altre coscienze libere e rapportata alla natura infrarazionale. Il discorso metafisico ed esistenziale del Fabro si colloca, in quanto proposta alternativa di ontologia creazionista, entro la cornice delle grandi voci della cultura filosofica del secolo XX: neoidealismo, positivismo, marxismo ed esistenzialismo ateo, nella decisiva rivendicazione della libertà della persona, del senso religioso dell’esistenza, della vera natura della religione cristiana, della trascendenza di Dio. L’incontro con Kierkegaard lo ha sensibilizzato ai drammi e alle speranze dell’uomo comune per infondergli coraggio e fiducia nei giorni di fatica e di sofferenze, dischiudendogli il senso fondamentale dell’esistenza, protesa alla felicità e alla redenzione escatologica di Gesù Cristo. Nel terzo Coro de La Rocca Thomas S. Eliot esibisce metaforicamente l’incapacità del sapere pragmatico a fornire il senso metempirico della vita: «Mille vigili che dirigono il traffico non sanno dirvi né perché venite né dove andate». Tale senso metafisico non è dato cogliere neppure nei messaggi «disumani» di Nietzsche, Heidegger, Sartre… Cornelio Fabro lo ripropone alla luce dell’intensa meditazione kierkegaardiana: pungolo efficace che allerta evangelicamente la coscienza. Il Danese soleva dire: «io ficco il dito sulla piaga» e «costringo – come Socrate – a prendervi cura delle vostre anime». Questo «esercizio di cristianesimo» padre Fabro lo ha proposto magistralmente in termini di rigoroso discorso ontologico e metafisico che può essere trascritto nelle seguenti scansioni esistenziali di Romano Guardini: «essere è un verbo; esistere è un atto; esistere come uomo è un’operazione: Questa operazione racchiude in sé il momento del possesso della potenza, dell’esercizio di essa, della responsabilità di essa». Si tenga presente che il contesto di questa affermazione riguarda il tremendo uso che l’uomo oggi può fare della bomba attomica! (Ansia per l’uomo, I, 282). Nutrire ansia per l’uomo, per la sua verità e per il suo destino temporale ed eterno, è stato il compito di vigilanza e di vedetta speculativa del padre Fabro nel secolo XX, fertile di opinioni, di ardimenti e di empietà. Non per nulla Augusto Del Noce gli riconosceva doti di filosofo autentico e raro, non tanto perché, heideggerianamente, «ha pensato in grande» quanto piuttosto perché ha pensato profondamente, uomo, mondo e Dio in dimensione metafisica e storica, mantenendo distinti i piani della ragione e della fede pur nel postulato del loro reciproco implicarsi. E, si sa, pensare filosoficamente la realtà non è la stessa cosa che spiegarla scientificamente. La società ha bisogno dei «mille vigili che dirigono il traffico», ma ha più bisogno di spiriti pensosi che sappiano rispondere a interrogativi persistenti: da dove veniamo?, dove andiamo?, chi è il saggio e che cosa propone?… «Il filosofo, dice Merleau-Ponty, è colui che si risveglia e parla»; nei termini più radicali di E. Lévinas, il filosofo è colui che vigila nella notte! Con lo sguardo rivolto all’indietro e in avanti Cornelio Fabro ha tracciato la rotta della vita cristiana, allertando contro distrazioni mondane, illusioni, seduzioni e pessimismi e consentendo, di conseguenza, la possibilità di scansare la disperazione nell’impatto con Scilla e l’esaltazione antropocentrica che ribolle tra le spire di Cariddi.


di Paolo Miccoli
L’Osservatore Romano (13 dicembre 2005, p. 3)


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CORNELIO FABRO L’«ALLIEVO» DI S.TOMMASO


NELLA SUA OPERA LA RISCOPERTA DI UNA FEDE «RADICALE» CHE NON CEDE AL MODERNISMO


Una settimana di belle notizie fabriane. Quasi in coincidenza con l’articolo dell’Osservatore romano che vi abbiamo inviato, è uscito nel quotidiano “Il Giornale” di Milano del 16 dicembre un interesante articolo di Maurizio Schoepflin su Cornelio Fabro e il Progetto Culturale che porta il suo nome. Il nostro ringraziamento al giornalista per la nota e per l’apprezzo che dimostra in confronto di Fabro. Con la scomparsa di Cornelio Padre Fabro, avvenuta dieci anni fa a Roma, il panorama filosofico italiano perse una delle figure di maggior spicco. Se l’emergere di nuove vocazioni per gli studi della metafisica è un evento ancora tutto da verificare, certo è l’inizio della pubblicazione delle Opere complete per i tipi dell’Editrice del Verbo Incarnato e per impulso del Progetto culturale Cornelio Fabro, che ha sede a Segni, in provincia di Roma, ed è diretto da Elvio Celestino Fontana. Il primo scritto fabriano proposto all’attenzione dei ricercatori si intitola La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso d’Aquino (pagg. 428, euro 35): si tratta di un testo risalente al 1939, che fin dal titolo indica con chiarezza quale fu il centro attrattivo di tutta la speculazione di Fabro, ovvero la filosofia di San Tommaso. Nell’Aquinate, Fabro vide un pensatore di straordinaria attualità, capace di interloquire fecondamente con la modernità e di svelarne le drammatiche debolezze. E proprio riguardo al rapporto tra cristianesimo e cultura moderna, padre Fabro non esitò a lanciare un accorato appello contro ogni cedimento e ogni compromesso che ai suoi occhi la coscienza cattolica aveva iniziato a manifestare, in particolare attraverso la cosiddetta teologia progressista, che egli giudicò viziata da un eccessivo antropologismo. Fabro riteneva che l’apertura del cattolicesimo al mondo non dovesse comportare un annacquamento delle sue verità, neppure di quelle che apparivano più scomode per la mentalità contemporanea, quale è quella della presenza del male e del peccato: egli non voleva che il Vangelo venisse edulcorato nell’illusione che ciò potesse servire a ricondurre il mondo a Dio,ma piuttosto riteneva che soltanto la radicalità della fede autentica sarebbe stata in grado di riconquistare al cristianesimo la mente e il cuore dell’uomo moderno. Ma non per questo Fabro eluse il confronto con la filosofia moderna e contemporanea: fu il primo traduttore e il maggiore conoscitore italiano del pensiero di Kierkegaard, il filosofo danese della prima metà dell’Ottocento considerato l’anticipatore dell’esistenzialismo. La sua interpretazione dell’opera kierkegaardiana, che egli giudicò meno lontana dal tomismo di quanto si possa ritenere a prima vista, rimane un punto fermo della storiografia filosofica del Novecento. I biografi ci informano che Cornelio Fabro fu un bambino dalla salute estremamente cagionevole, addirittura incapace di parlare fino all’età di cinque anni (affascinante e misteriosa l’analogia con San Tommaso, soprannominato il «bue muto» a motivo della sua forte inclinazione al silenzio!); ma ci fanno anche sapere della sua attività di scrittore (ben cinquantaquattro volumi), e ci dicono dei suoi lunghi anni di insegnamento universitario e degli innumerevoli riconoscimenti tributatigli da prestigiose istituzioni civili e religiose. Sempre i biografi ricordano anche che egli fu un prete che non si sottrasse mai al suo ministero: confessore, predicatore, Fabro considerò la cattedra universitaria il suo pulpito preferito e la ricerca filosofica un vero e proprio cammino ascetico.


di Maurizio Schoepflin
Il Giornale, Venerdì 16 dicembre 2005