Ex brigatista rosso al Ministero dell’Interno

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C’È UN EX TERRORISTA AL VIMINALE


Al Viminale, nella sede del ministero dell’Interno, c’è un ex brigatista rosso che ricopre un incarico politico di una certa delicatezza. Si chiama Roberto Del Bello, è nato il 27 settembre del 1960 a San Donà di Piave, in provincia di Venezia, e…

Al Viminale, nella sede del ministero dell’Interno, c’è un ex brigatista rosso che ricopre un incarico politico di una certa delicatezza. Si chiama Roberto Del Bello, è nato il 27 settembre del 1960 a San Donà di Piave, in provincia di Venezia, e nel 1981 fu arrestato dai carabinieri nell’ambito della vasta inchiesta sul rapimento – che di lì a poco si sarebbe concluso in uno degli omicidi più barbari della storia della Repubblica – di Giuseppe Taliercio, dirigente della Montedison di Porto Marghera. Processato e ritenuto colpevole del reato di banda armata, Del Bello nel 1985 fu condannato in primo grado a quattro anni e sette mesi di prigione. Pena confermata successivamente sia in appello sia in Cassazione. Infatti, anche se Del Bello nome di battaglia “Nicola” – non fu tra i condannati per il sequestro e l’omicidio di Taliercio, il processo accertò la sua appartenenza alle Br: nella sua casa i carabinieri recuperarono alcuni “dossier” contenenti nomi, targhe delle auto e altri appunti sulla vita privata di esponenti delle forze dell’ordine e di magistrati impegnati in prima fila nella lotta al terrorismo, oltre a materiale analogo su industriali e politici nel mirino dei terroristi. Oggi, al Viminale, Del Bello svolge il ruolo di segretario particolare di Francesco Bonato, sottosegretario del governo Prodi in quota Rifondazione Comunista. Proprio nelle stanze veneziane del partito di Fausto Bertinotti si è cementato lo stretto rapporto tra Bonato e Del Bello, che è anche consigliere alla provincia di Venezia, eletto nelle liste del Prc, nonché segretario provinciale dello stesso partito. Così, portato dalla laguna a Roma dal compagno Bonato, l’ex terrorista rosso Del Bello vede adesso il suo nome stampato a pagina 67 del libro blu in cui sono elencati i nomi di tutti i membri del governo Prodi e dei loro più stretti collaboratori.
LE ACCUSE E I PROCESSI Le porte del carcere si aprono davanti a Del Bello il 10 giugno del 1981. L’accusa è di aver partecipato al sequestro di Taliercio, che sarà ucciso dalle Brigate rosse dopo 47 giorni di prigionia. A Del Bello si arriva per deduzioni, come recitano le carte processuali di cui Libero ha potuto prendere visione: «Va subito osservato come l’imputato sia stato inquisito prima degli altri, quando ancora era in corso il sequestro Taliercio, perché era risultato che in questa azione era stato usato un pulmino con targa identica ad un furgone della Breda; azienda dove lavorava il Roberto». Prove del suo coinvolgimento nell’azione specifica non ce ne sono e lo stesso pm, durante la requisitoria, chiede il proscioglimento di Del Bello dalle accuse di sequestro di persona e omicidio. Ma a suo carico c’è dell’altro. Durante il processo di primo grado Del Bello è chiamato infatti a rispondere del materiale trovato nella sua abitazione al momento dell’arresto: «Erano stati rinvenuti», si legge nella sentenza, «alcuni appunti sulla lotta armata e sulle Cellule Comuniste Combattenti, un manuale del guerrigliero, un volantino intestato “Comitato di lotta” e altro materiale», ovvero, tra le altre cose, resoconti dettagliati su magistrati e carabinieri impegnati nella lotta al terrorismo. Tanto basta ai giudici della Corte d’Assise di Venezia per condannarlo a 4 anni e 7 mesi di reclusione per «associazione con finalità di terrorismo o eversione e partecipazione a banda armata», come recita il dispositivo del 20 luglio del 1985, che conclude infliggendo a Del Bello anche «5 anni di interdizione dai pubblici uffici». La stessa sentenza che lo condanna, ordina la scarcerazione di Del Bello per decorrenza dei termini. Il ricorso in appello è inutile: in secondo grado la condanna è confermata. La sentenza emessa dalla Corte d’Assise d’Appello di Venezia, il 16 luglio dell’86, dice che «nel corso del dibattimento l’imputato Del Bello nega qualunque tipo di coinvolgimento o legame con le Br», perdendo in questo modo anche il vantaggio delle attenuanti concesse ad altri compagni che invece ammettono il proprio ruolo all’interno dell’organizzazione. Tanto che la Corte spiega che si «esclude l’assoluzione», e «va esclusa anche l’ipotesi del favoreggiamento che non attiene ad un “partecipe” nonché l’applicabilità delle attenuanti (…). Per queste ultime basta riferirsi alla gravità della condotta ed alla carenza di sincerità processuale», facendo cenno ad un altro passaggio in cui si spiegavano le basi su cui gli inquirenti le gavano Del Bello alla colonna veneta delle Br. «Vi è poi quel conclamato collegamento tra la Breda-Navicolor ove Roberto Del Bello lavorava, e la targa del furgone usato per l’azione Taliercio. Elemento questo, che evidenzia ancor di più l’infondatezza della spiegazione fornita dall’imputato per avvalorare la sua estraneità al sodalizio. E in verità», prosegue la Corte d’Assise d’appello, «anche la reazione all’arresto è sintomatica delle appartenenze ad un gruppo collettivo che lo vedeva “politicamente” impegnato: fu compilato a pennarello bleu e rosso un manifesto di protesta con cui si rivendicava il diritto alla libertà del Roberto. Del resto Savasta (il capo della colonna veneta delle Br, ndr) riferisce di aver incontrato in Venezia il “Nicola” (cioè Del Bello Roberto) che aveva conosciuto tramite Francescutti, il quale indica il gruppo operaio Sandonatese come quello composto dai militanti Del Bello (Roberto e Danilo), Znidarcic e Iseppin. E in particolare, riferito al Roberto, il Francescutti puntualizza di avere avuto con lui numerosi incontri, riscontrando vivace interesse per il dibattito politico e gli chiese di allargare nel campo del proprio lavoro l’area delle simpatie per le Br. Sono parole sintomatiche», sostiene la Corte, «che si dicono solo per un militante». E conclude: «Partecipazione a tutti gli effetti, quindi, come rivela il nome di battaglia a condanna che si impone in tutta evidenza; nella misura fissata dal primo giudice dal momento che è stata irrogata la pena sulla base dei minimi e non vi è presupposto alcuno per far luogo ad attenuanti». Pena confermata, dunque. Del Bello non si rassegna. Ma l’11 luglio del 1987 anche la Cassazione rigetta il suo ricorso e conferma la condanna. Gli ermellini rileggono tutti gli atti e in particolare prestano attenzione a un passaggio della sentenza d’appello, in cui si leggeva che «Del Bello però, asseriva di non far parte di nessun gruppo e smentiva Savasta che asseriva di averlo conosciuto come militante». Inoltre, «spiegava la documentazione in suo possesso come elaborazione di sue idee, come scritti politici ricopiati da pubblicazioni» e «precisava ancora che i numeri scritti sui fogli erano del tutto irrilevanti, mentre alcuni nomi si riferivano a componenti di Consiglio di maggioranza del Comune di San Donà di Piave. Affermava di avere annotato qualche volta numeri di targhe di auto, ma solo perché spinto dal sospetto di avere ricevuto minacce da individui di ideologia fascista. Invece i nomi dei magistrati, avvocati e carabinieri li aveva annotati perché trattavasi di persone distintesi nella lotta alla corruzione». Tutte queste spiegazioni fornite da Del Bello alla Corte d’Appello non convincono la Cassazione, che scrive: «Ulteriori dati sulla sua attività di militante provengono dal sequestro di documenti in occasione del suo arresto quando si indagava sul sequestro Taliercio: appunti sulla lotta armata e sulle Cellule comuniste Combattenti, un manuale del guerrigliero, volantini, ma soprattutto, annotazioni su persone, numeri di targa, ecc. riferentesi a magistrati, avvocati e carabinieri, impegnati nella lotta al terrorismo, personalità politiche o industriali: annotazioni o schedature, osservano giustamente i giudici di merito, costituenti l’ossatura della controinformazione utilizzata dal sodalizio eversivo per i suoi piani».
DENTRO AL VIMINALE. Una volta fuori dal carcere, Del Bello non ha altri guai seri, sebbene non manchi di farsi notare nei disordini durante alcune manifestazioni. Nel 1991 ottiene la cancellazione dell’interdizione dai pubblici uffici. Lavora come supplente di scuola elementare fino al 1997 e abbraccia la carriera politica. Nominato segretario provinciale di Rifondazione Comunista, nel 2004 è eletto consigliere alla provincia di Venezia. Nel maggio 2006 il compagno Bonato lo porta con sé a Roma. A Venezia, chi li conosce dà per scontato che il sottosegretario all’Interno sia informato su ogni dettaglio del passato del suo più stretto collaboratore. Più complesso capire quanti, al Viminale, sappiano chi è veramente il segretario particolare di Bonato. Fonti del ministero tendono ad escludere che tra i pochi al corrente di tutto ci sia Giuliano Amato. «Il ministro è persona estremamente prudente», spiegano a Libero, «e molto difficilmente, se avesse saputo del passato di Del Bello, avrebbe avallato la sua nomina». Si tratta comunque di supposizioni. La prima domanda, quindi, riguarda proprio il ministro: Amato è stato avvertito? In caso affermativo, è pronto a condividere la responsabilità politica della nomina? Se invece, come appare probabile, si dovesse scoprire che Amato non sa nulla, si aprirebbe un problema politico: perché il sottosegretario non ha ritenuto opportuno informare il suo ministro che intendeva portare un ex terrorista rosso dentro al ministero dell’Interno?



di FAUSTO CARIOTI e ROBERTA CATANIA
Libero 3 novembre 2006


Sull’argomento leggi anche: Un ex terrorista al Viminale – http://www.poteresinistro.it/notizie/blg_663.htm