La globalizzazione frena anche i salari d’Occidente; Maurizio Blondet, Avvenire 07/02/2004
I sondaggi lo confermano: almeno 76 italiani su cento trovano che la vita è rincarata o – ed è lo stesso – che il loro potere d’acquisto sta calando a ritmi allarmanti. Può essere di (magra) consolazione sapere che non accade solo a noi. Né solo agli europei, tentati di dare la colpa delle loro disgrazie all’euro. Anche gli americani vedono restringersi il loro potere d’acquisto come un paio di jeans appena lavati.
Anzi, negli Stati Uniti, il fenomeno è più trasparente e brutale. Là tendono a scomparire i posti di lavoro ad alta remunerazione, mentre si espandono i lavori meno pagati. Tipicamente, è facile essere licenziato come programmatore di software (fra questi, la disoccupazione è raddoppiata negli ultimi tre anni) ma trovare un nuovo posto come addetto alberghiero, alla ristorazione o in un altro servizio “per il tempo libero”, che sono i settori in crescita.
La differenza è pesante. Secondo le statistiche dell’Ufficio del Lavoro americano, tra il novembre 2001 e il novembre 2003, in Florida, il salario annuo medio è passato da 35.353 dollari a 29.929: ossia 5.379 dollari in meno. In due soli anni, un taglio salariale del15 per cento. Alla ricca California non va meglio: là lo stipendio medio annuo è passato in due anni da 57.800 dollari a 34.742, una decurtazione del 40 per cento.
Nel complesso, la paga media statunitense è scesa in due soli anni da 44.570 a 35.410 dollari, con un calo di reddito per le famiglie del 21 per cento. Più di 8 mila dollari in meno, 16 milioni di vecchie lire.
Non è che negli Stati Uniti chiudano le industrie. Semplicemente, trasferiscono i posti in India e in Cina. La General Electric Capital Service sta assumendo in India sedicimila indiani. La Ibm chiude circa 10 mila posti in America per riaprirli in India e soprattutto Cina: dove un programmatore software con tre anni di esperienza costa 12 dollari l’ora, contro i 59 di un suo collega americano di pari anzianità. In Gran Bretagna succede lo stesso. Se volete prenotar e un posto in treno Londra Birmingham e chiamate al telefono le Ferrovie Britanniche, vi risponde una signora che abita a Mumbay o a Bangalore, e che lo fa in buon inglese per un decimo della paga di un centralinista britannico. Mezzo milione di posti di lavoro emigreranno dall’Inghilterra all’India nei prossimi cinque anni.
Nel mondo anglosassone, insomma, appare tutto brutalmente chiaro: perdete il posto in industrie che pagano bene, e lo ritrovate in quelle che pagano meno.
In Italia, dove il lavoro è meno flessibile, la cosa segue altre logiche. Il calo del potere d’acquisto delle famiglie avviene per attrizione dei prezzi, per inflazione strisciante e non riconosciuta, per blocco di fatto dei salari. Ma il motivo è in fondo lo stesso: il grande risucchio dei posti di lavoro verso l’Asia. Come in due vasi resi di colpo comunicanti il livello del liquido tende a pareggiarsi, così è avvenuto per l’economia di Cina e India, oggi comunicanti con l’Occidente nell’unico mercato globale: il livello dei salari occidentali tende a cadere verso quelli asiatici, mentre i salari asiatici tendono a salire verso i nostri. Il guaio è che, da noi, il costo della vita non cala velocemente come i salari. Anzi. Ma questo è tutto un altro problema che meriterebbe un supplemento d’indagine.