«Ah, sono proprio contento. Adesso finalmente ci sistemiamo». Il giorno dopo l’approvazione del disegno di legge sui Dico le telecamere della Rai inquadrarono un giovane napoletano soddisfatto. «Lei e la sua fidanzata allora andrete a iscrivervi in comune?», chiese la giornalista. «No, non ci penso proprio… ci troviamo un bravo vecchiariello e così poi lui ci lascia la pensione e magari anche l’eredità».
La schiettezza partenopea svela così, senza bisogno di complicate analisi, uno dei rischi maggiori connessi al riconoscimento delle unioni di fatto sul piano previdenziale: quello delle truffe. Degli arrangiamenti di comodo: patti di convivenza che verrebbero stretti con il solo fine di “assicurare” una pensione di reversibilità al superstite, destinata a durare anche decenni. Pensiamo, ad esempio, al caso di un pensionato 80enne e una giovane di 20 anni che potrebbero trovare “conveniente” stringere un Dico, in maniera da lasciare a lei la pensione una volta che l’uomo sia deceduto. Il sistema previdenziale pubblico si troverebbe a pagare un assegno per altri 40-50 anni, fino alla morte della giovane.
Un’ipotesi non proprio limitata se solo si pensa alle numerosissime convivenze già in atto tra anziani e badanti, nella gran parte dei casi senza un regolare contratto di lavoro. E ancora: si potrebbero sviluppare delle differenziazioni inique. Già oggi, per fare un altro esempio, il nipote, orfano di genitori, che sia a carico del nonno ha diritto alla pensione di reversibilità . Ma solo fin tanto che non abbia redditi propri, sia minorenne o abbia meno di 26 anni se iscritto all’università . Lo stesso nipote, se stringesse un Dico con il nonno, invece, maturerebbe il diritto all’assegno di reversibilità vita natural durante, solo eventualmente ridotto in presenza di altri redditi. Si potrebbe continuare con altri esempi, ma bastano questi per comprendere come la vera molla per stringere un Dico non starebbe tanto nella natura del rapporto, più o meno more uxorio della coppia di conviventi, quanto in un mero ragionamento economico. Tutti i soggetti non legati da vincoli matrimoniali potrebbero in un modo o nell’altro cercare di arrangiare un rapporto di convivenza più o meno fittizio per assicurarsi una (immeritata) tutela previdenziale. Facendo lievitare i costi a livelli insostenibili.
Questo della spesa è un capitolo certamente difficile da stimare a priori. Innanzitutto perché il disegno di legge governativo rimanda alla trattativa sul riassetto previdenziale la specificazione dei criteri di ammissione al beneficio e potrebbero essere previsti dei limiti temporali. Poi perché è difficile stimare, all’interno dell’universo delle coppie oggi conviventi (circa 550mila) quanti sarebbero effettivamente interessati a stringere un Dico o Pacs o un altro patto simile. Alcuni esperti, però, hanno calcolato che – se attualmente ogni anno vengono accese circa 250mila nuove pensioni di reversibilità con un costo intorno al miliardo di euro – ipotizzando altri 50mila assegni derivanti dai Dico, la spesa si innalzerebbe di 200 milioni di euro l’anno. «Cifre non certo trascurabili. Ma il vero problema potrebbe essere un allargamento incontrollato della platea degli aventi diritto», sottolinea Giuliano Cazzola, ex sindacalista e sindaco dell’Inps. E infatti ben più “pesanti” sono le previsioni di un altro esperto di previdenza, Giuseppe Pennisi: «Una stima preliminare afferma che nei primi 20 anni di introduzione, un istituto come i Pacs costerebbe in termini di pensioni di reversibilità , oltre 83 miliardi di euro, pari a 3.500 euro per ogni lavoratore.
Solo nell’ultimo anno della stima, il costo totale sarebbe di quasi 8 miliardi in totale, cioè 340 euro per contribuente. Si tratta però di un calcolo approssimato per difetto. Perché se si vogliono prendere per buone le dichiarazioni degli esponenti del movimento gay, secondo i quali “ci sarebbero dai 2 ai 3 milioni di coppie pronte a stringere un Pacs”, allora bisognerebbe moltiplicare per 4 o 5 volte le stime iniziali».
Costi sostenibili? No, se solo si considera l’attuale situazione della previdenza, che già pone serie ipoteche sul futuro previdenziale dei giovani. E per la quale ci sarà già bisogno di reperire nuove risorse già nell’immediato per finanziare la riduzione dello scalone delle pensioni d’anzianità e l’auspicato aumento delle minime. In definitiva, l’aumento degli assegni di reversibilità richiederebbe o un ennesimo inasprimento fiscale oppure il taglio di altre pensioni.
Più in generale, infine, si rischia di snaturare uno strumento che ha uno scopo preciso: difendere il coniuge debole, ripagarne il “sacrificio” nella cura familiare, l’eventuale rinuncia al lavoro e soprattutto permettere la sopravvivenza del nucleo familiare una volta deceduto l’unico (o il principale) percettore di reddito. Nato nel 1939 dopo la guerra in Etiopia, l’istituto della pensione di reversibilità è stato poi via via “raffinato” nel corso del tempo ma (al di là dei figli sempre tutelati) resta in sostanza l’unico vero presidio riservato alle coppie che abbiano contratto matrimonio. Solo nel rapporto di coniugio, infatti, si realizza quella piena comunione morale e materiale, quell’assunzione pubblica di doveri e responsabilità reciproche fra marito e moglie, che giustificano l’interesse dello Stato a tutelare il soggetto superstite, provvedendo a versargli un assegno entro certi limiti di reddito e di condizioni.
Diritto che – non a caso – si estingue se il superstite contrae un nuovo matrimonio (e in questi casi purtroppo si verificano tante convivenze di comodo). «Tutte le altre tutele per i conviventi già esistono oppure possono essere facilmente attivate grazie al diritto privato – commenta Vincenzo Ferrante, ordinario di Diritto della previdenza alla Cattolica di Milano –. La pensione di reversibilità è l’unico vero nodo. D’altro canto, però, quando ne discuto con i miei studenti faccio sempre questo esempio: è come se io volessi comprare un’auto disconoscendo il contratto di compravendita. Nessun concessionario potrebbe consegnarmela. E allora: o accetto le regole di vendita, o la rubo e non sarebbe giusto. Oppure me la fabbrico da solo, con altri mezzi».
Il coniuge riceve il 60%
La pensione ai superstiti – o di reversibilità , se la persona deceduta era già pensionata – è l’assegno previdenziale che, alla morte del lavoratore, spetta ai componenti della sua famiglia. La pensione spetta: al coniuge, anche se separato o divorziato, a condizione che abbia beneficiato di un assegno di mantenimento e non si sia risposato; ai figli (tutti, senza differenze) che alla data della morte del genitore siano minori, studenti o inabili e a suo carico; ai nipoti minori che erano a carico del parente defunto (nonno o nonna). In mancanza del coniuge, dei figli e dei nipoti ne hanno diritto anche i genitori e, in mancanza di questi, i fratelli celibi e le sorelle nubili. Le quote di pensioni spettanti sono il 60% della pensione maturata dal lavoratore deceduto al coniuge; 20% a ciascun figlio se c’è anche il coniuge; 40% a ciascun figlio, se del tutto orfani. L’importo della pensione viene ridotto del 25%, del 40% e del 50% a seconda dei redditi percepiti dal beneficiario.
da Avvenire del 23 marzo 2007