Divorzisti d’Italia

\"L\'avvocatoAbbiamo sempre pensato che all’origine della dilagante tendenza divorzista presente nella società occidentale ci fossero soprattutto ragioni culturali, quel relativismo etico che ha minato alla base anche i rapporti tra le persone e che induce un numero sempre maggiore di mariti e di mogli a considerare il matrimonio un’esperienza a tempo, “finché dura”. Poi ci si può separare tranquillamente perché, come ci ripetono tutti da più parti, separarsi è bello. Rinnova le energie, ridona slancio e voglia di vivere. Oltre a tanti terribili guai e a tanta sofferenza, ma questo non si dice subito. Adesso, un avvocato di Bologna, Massimiliano Fiorin, aggiunge a questo sguardo preoccupato verso quel castello dalla fondamenta di sabbia – così è diventato il rapporto di coppia all’alba del terzo millennio – un’analisi puntuale. A rendere ancora più fragile il matrimonio, ad accrescere le possibilità di mandare tutti in frantumi in un periodo di tempo sempre più breve, c’è anche una vasta, articolata, munitissima struttura giuridica pensata e finalizzata soltanto questo obiettivo. Rendere separazioni e divorzi semplici, agili, facilmente raggiungibili. Spiega tutto in un saggio appena arrivato in libreria, “La fabbrica dei divorzi” (San Paolo, pag.300, euro 18) che ha il pregio di dire con chiarezza e competenza, ciò che in tanti da tempo pensavano. Un contributo rilevante al dilagare della “moda divorzista” si deve al sistema giuridico italiano che negli anni è andato via via strutturandosi come una macchina potente e oliata per spezzare, all’occorrenza, l’alleanza d’amore tra uomo e donna.

         Avvocato Fiorin, nella scelta di separarsi quanto pesa e quanto può influire l’atteggiamento dell’avvocato a cui ci si rivolge?
L’avvocato è tuttora il primo soggetto al quale si rivolgono i coniugi o i genitori in crisi, quando cominciano a pensare alla separazione.
Il più delle volte, gli avvocati seguono la loro vocazione di difensori dei diritti individuali, e quindi si limitano a puntare al risultato secondo le condizioni ritenute più vantaggiose per il cliente. Non si curano delle conseguenze del loro operato sugli altri componenti della famiglia.
Anche l’interesse dei figli, che dovrebbe essere un valore prioritario, spesso viene liquidato mediante una serie di luoghi comuni senza fondamento. Come quello per cui per i figli stessi sarebbe preferibile una separazione “serena” tra i genitori, piuttosto che crescere in una situazione conflittuale. Così, a volte accade che proprio i “familiaristi” si dimostrino i più micidiali nemici della famiglia.
         In che modo e con quale efficacia la cultura divorzista ha inciso e tuttora incide sugli orientamenti giuridici?
Tuttora, in linea di principio, il divorzio sarebbe ammesso dall’ordinamento italiano come “rimedio” estremo alle crisi familiari altrimenti irrisolvibili. Pertanto, chi vuole divorziare dovrebbe fornire motivazioni oggettive, e comprovare la gravità della situazione.
Invece, fin dagli anni ‘70, in Italia come nel resto del’Occidente, il divorzio è stato praticato come un fondamentale diritto di libertà. Come tale, esso non viene mai giustificato, ma piuttosto si trova ad essere garantito e favorito il più possibile dall’ordinamento.
Questo fattore giudiziario ha contribuito a rendere il divorzio un fenomeno di massa. Tant’è che oggi, in Italia, quattro separazioni legali su cinque sono concesse in forma consensuale, senza che negli atti giudiziari vengano nemmeno dichiarate le motivazioni. Vi è una cultura diffusa, alla quale la giurisprudenza si è prostrata, secondo la quale matrimonio e filiazione sono semplici scelte personali, che devono rimanere sempre subordinate al desiderio individuale.
         Un avvocato che avesse davvero a cuore il benessere dei coniugi e, quindi, della famiglia, avrebbe oggi in Italia gli strumenti giuridici per aiutare la coppia a ripensare alla propria scelta?
E’ impossibile pretendere che gli avvocati familiaristi si trasformino in “difensori del vincolo”, per usare un’espressione del diritto canonico. Tuttavia, sarebbe auspicabile che essi si dotassero di maggiori conoscenze sulle dinamiche delle crisi familiari, e non cedessero alla tentazione di rivendicare il più possibile gli interessi del cliente, spesso andando anche oltre le reali intenzioni di quest’ultimo, e frustrando ogni speranza di riconciliazione o di composizione della crisi.
Ormai si ammette comunemente, in psicologia, l’esistenza di micidiali “sindromi da separazione”. Si tratta di veri e propri disturbi della mente, che producono conflitti e sofferenze enormi, soprattutto a carico dei figli. Di tali sindromi, i professionisti coinvolti sono in qualche modo corresponsabili. Se non altro per essere incapaci di riconoscerle.
         Nel suo libro c’è un ampio capitolo dedicato alla trasformazione dell’atteggiamento della giurisprudenza a proposito sull’adulterio, in cui si spiega che oggi si arriva quasi a certificare il diritto di tradire etichettandolo di fatto come un “diritto alla felicità”. Vuol dire che etica e diritto di famiglia hanno proprio imboccato strade diverse?
Diciamo che il diritto si è ormai supinamente adattato alla mentalità dominante, che con il suo esasperato individualismo è nemica naturale della famiglia.
Molti genitori in crisi oggi arrivano a pensare – in buona fede – che sia la loro personale felicità ad essere necessaria per la felicità dei figli, anziché il contrario. Per questo, essi talvolta si illudono che la separazione e il divorzio da un coniuge non più affettivamente gradito sia sempre la cosa migliore, anche nell’interesse degli altri soggetti coinvolti. Ma è un inganno micidiale, che purtroppo molti operatori del diritto e della psicologia assecondano invece di contrastare.
         La cronaca si riversa purtroppo ogni giorno le conseguenze tragiche di quella che viene frettolosamente liquidata come conflittualità familiare. Alle radici di questa situazioni ci sono quasi sempre padri che non accettano la separazione. In queste situazioni qual è il margine di intervento dell’avvocato?
Ci vorrebbe una visione più complessiva e responsabile delle crisi familiari, e quindi la capacità di dire qualche “no” alle pretese più spietate di certi genitori conflittuali.
Da molti anni, si verificano separazioni che – per il modo con il quale vengono gestite – possono tranquillamente definirsi come “predatorie”, nei confronti del marito e del padre.
Con la nuova legge sull’affidamento condiviso del 2006 è stato posto un argine, ma vi è ancora molto da fare. Ci sono uomini che ancora oggi si ritrovano spogliati della loro casa, della loro famiglia, della loro genitorialità, nel giro di poche settimane, senza nemmeno saper dire come e perché sia successo. Basta chiedere ad un volontario delle mense della Caritas, per capire come la fabbrica dei divorzi sia divenuta una potentissima generatrice di “nuove povertà”.
Dicevamo che uno dei più reiterati e falsi luoghi comuni proclama che “separarsi è bello”. Si tace invece su quanto costi dirsi addio e su quanto poi incida sulla situazione economica dei due partner. Quindi la cultura divorzista ha saputo mascherare al meglio anche questa verità indubitabile, visto che lei parla proprio di avvocati senza scrupoli?
L’impoverimento collettivo, così come i numerosi fatti di sangue conseguenti alla separazione o al divorzio, sono solo la punta dell’iceberg di un malessere sociale profondo. Si tratta di quelli che ho chiamato “oceani di sofferenza”, generati dal divorzio facile.
A mio avviso, tra gli operatori del diritto è diffuso un vero e proprio abbaglio, che impedisce di affrontare certi problemi in modo adeguato. Si presuppone che il divorzio sia una conquista civile, e quindi un “bene”, mentre il male risiederebbe solo nella conflittualità che esso genera.  Ma al contrario, è proprio la prassi del divorzio “facile” che rende insostenibile e talvolta violento il conflitto genitoriale. In realtà, non ci si può illudere di risolvere gli effetti senza intervenire sulle cause.
         Alla fine del suo saggio c’è una sorta di decalogo del buon avvocato in cui lei inserisce, tra le altre, una regola che farà discutere. Quella dell’obiezione di coscienza in nome di un assioma che potremmo sintetizzare così: bene familiare uguale bene sociale. A quali principi si ispira?
Gli operatori del diritto a mio avviso dovrebbero aprirsi ad una visione più ampia della loro etica. In materia di famiglia, non dovrebbero valutare la propria professionalità soltanto sulla base dell’efficienza con la quale riescono a realizzare l’interesse individuale del cliente.
L’obiezione di coscienza alla quale penso io non consiste tanto nella capacità di dire “no”, e nemmeno nel far prevalere le ragioni del matrimonio su quelle dell’individuo. Piuttosto, si tratta di saper guidare i coniugi in crisi verso soluzioni che, tenendo conto anche delle ragioni della continuità familiare, alla fine si dimostrino più rispettose dei diritti di tutti.