– La cronaca si riversa purtroppo ogni giorno le conseguenze tragiche di quella che viene frettolosamente liquidata come conflittualità familiare. Alle radici di questa situazioni ci sono quasi sempre padri che non accettano la separazione. In queste situazioni qual è il margine di intervento dell’avvocato?
Ci vorrebbe una visione più complessiva e responsabile delle crisi familiari, e quindi la capacità di dire qualche “no” alle pretese più spietate di certi genitori conflittuali.
Da molti anni, si verificano separazioni che – per il modo con il quale vengono gestite – possono tranquillamente definirsi come “predatorie”, nei confronti del marito e del padre.
Con la nuova legge sull’affidamento condiviso del 2006 è stato posto un argine, ma vi è ancora molto da fare. Ci sono uomini che ancora oggi si ritrovano spogliati della loro casa, della loro famiglia, della loro genitorialità, nel giro di poche settimane, senza nemmeno saper dire come e perché sia successo. Basta chiedere ad un volontario delle mense della Caritas, per capire come la fabbrica dei divorzi sia divenuta una potentissima generatrice di “nuove povertà”.
Dicevamo che uno dei più reiterati e falsi luoghi comuni proclama che “separarsi è bello”. Si tace invece su quanto costi dirsi addio e su quanto poi incida sulla situazione economica dei due partner. Quindi la cultura divorzista ha saputo mascherare al meglio anche questa verità indubitabile, visto che lei parla proprio di avvocati senza scrupoli?
L’impoverimento collettivo, così come i numerosi fatti di sangue conseguenti alla separazione o al divorzio, sono solo la punta dell’iceberg di un malessere sociale profondo. Si tratta di quelli che ho chiamato “oceani di sofferenza”, generati dal divorzio facile.
A mio avviso, tra gli operatori del diritto è diffuso un vero e proprio abbaglio, che impedisce di affrontare certi problemi in modo adeguato. Si presuppone che il divorzio sia una conquista civile, e quindi un “bene”, mentre il male risiederebbe solo nella conflittualità che esso genera. Ma al contrario, è proprio la prassi del divorzio “facile” che rende insostenibile e talvolta violento il conflitto genitoriale. In realtà, non ci si può illudere di risolvere gli effetti senza intervenire sulle cause.
– Alla fine del suo saggio c’è una sorta di decalogo del buon avvocato in cui lei inserisce, tra le altre, una regola che farà discutere. Quella dell’obiezione di coscienza in nome di un assioma che potremmo sintetizzare così: bene familiare uguale bene sociale. A quali principi si ispira?
Gli operatori del diritto a mio avviso dovrebbero aprirsi ad una visione più ampia della loro etica. In materia di famiglia, non dovrebbero valutare la propria professionalità soltanto sulla base dell’efficienza con la quale riescono a realizzare l’interesse individuale del cliente.
L’obiezione di coscienza alla quale penso io non consiste tanto nella capacità di dire “no”, e nemmeno nel far prevalere le ragioni del matrimonio su quelle dell’individuo. Piuttosto, si tratta di saper guidare i coniugi in crisi verso soluzioni che, tenendo conto anche delle ragioni della continuità familiare, alla fine si dimostrino più rispettose dei diritti di tutti.