DIPLOMAZIA E NON SOLO

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L’EUROPA SCATTI SUBITO. O MAI PIÙ


di Vittorio E. Parsi

Cinque ore di combattimenti per riacquistare il controllo dei ponti sull’Eufrate e impedire così ai miliziani di al-Sadr di impossessarsi di Nasiriyah. Nel pomeriggio il rapimento di due cooperanti sudcoreani, e il tentativo di estorcere con il ricatto al contingente italiano quanto non si era riusciti a ottenere con la forza delle armi. Quelli di ieri vanno ritenuti gli scontri a fuoco di maggiori dimensioni nei quali si siano trovate coinvolte le nostre truppe. Le quali, bisogna dirlo, hanno dato prova di valore e professionalità, riuscendo a limitare i danni. Non è detto però che le cose vadano sempre così.

Dopo i sunniti, anche gli sciiti sembrano dunque essere in balia di quei gruppi di radicali che inneggiano alla “rivolta”. Scagliandosi con le armi contro “gli stranieri”, i loro capi puntano deliberatamente al deterioramento generalizzato della situazione, dalla quale sperano di poter trarre domani un profitto politico. È il preludio a una possibile libanizzazione dell’Iraq. Ed è quanto va ragionevolmente impedito, se non si vuole che l’Iraq superato il suo passato di “Stato canaglia” a cui Saddam Hussein l’aveva condannato, si trasformi in un futuro “Stato fallito”, questa volta per responsabilità variamente ripartibili della comunità internazionale.


Già si levano le voci che invocano la resa. Ma oggi per quanto penosa si presenti la situazione, più che da queste voci voci occorre partire da un fatto incontrovertibile e per noi particolarmente carico di significati. L’Italia ha in Iraq i suoi soldati, esposti ai rischi che il mestiere del soldato di pace comporta. Essi non possono diventare ostaggi né del dibattito elettorale nostrano né dell’immobilismo europeo. Bene ha fatto il presidente Ciampi, capo delle Forze Armate, ad esprimere la solidarietà e l’orgoglio del Paese per i suoi militari, c he difendono la pace e la sicurezza a migliaia di chilometri da casa. Ma l’Italia ha anche il diritto di chiedere agli alleati nell’Unione Europea di uscire da un’ambiguità ormai inaccettabile. L’Europa è disponibile a sostenere concretamente la creazione di un governo iracheno responsabile e rappresentativo di quel Paese oppure no? Ritiene che sia nell’interesse della sicurezza collettiva contribuire alla stabilizzazione e alla democratizzazione dell’Iraq o preferisce lasciare che gli iracheni se la sbrighino da soli?


Sarebbe imperdonabile se la prossima tornata elettorale per l’Europarlamento impedisse ai governi europei e ai vertici dell’Unione di chiarire qual è la strategia politico-militare dell’Europa. Non è il momento di dichiarazioni confuse, che possono apparire troppo orientate a non dispiacere questo o quel troncone di elettorato. È piuttosto l’ora della responsabilità e dei progetti concreti, nella consapevolezza che neppure l’auspicato coinvolgimento dell’Onu sarà di per sé in grado di far cessare subito e senza costi la violenza in Iraq. Lavorare per la pace in Iraq significa saper assumere posizioni ferme riguardo a ciò che è accettabile e a ciò che non lo è. Questo implica la capacità di assumersi i rischi e gli oneri conseguenti. L’Italia ha dimostrato in queste drammatiche ore di saperlo fare. Stiamo aspettando di sapere se anche l’Europa – comprese Francia e Germania – lo è. Vorremmo capire se l’Europa è disponibile a offrire il proprio contributo per un contingente militare che agisca sotto l’egida dell’Onu e con il coordinamento della Nato (questo il senso di una recente intervista di Kofi Annan).
Se tale disponibilità non esiste, qualcuno dovrà spiegare quale alternativa concreta intende offrire. Non vorremmo che, proprio a seguito del peggioramento della situazione, anche chi oggi “pretende” l’immediato passaggio dei poteri all’Onu non si stia convertendo al più facile e semplicistico “ritiro immediato delle truppe” che, come è stato autorevolmente sottolineato, sarebbe “semplicemente” un disastro totale.


© Avvenire, 7 aprile 2004