Contro i PACS e dalla parte dei discriminati. Le famiglie normali.

Cosa s’intende parlando di PACS


In questione non è l’accordo privato, bensì il rilievo pubblico. E noi stiamo dalla parte dei discriminati. Le famiglie normali


di Fulvio Di Blasi e Alfredo Mantovano

In questione non è l’accordo privato, bensì il rilievo pubblico
di Fulvio Di Blasi
Ma che importa allo Stato dei pacs? C’è stato un tempo in cui perfino il contratto di compravendita – «Io ti prometto un bue e tu mi prometti 1500 euro» – non era protetto dall’autorità. Che significa? Significa che due persone erano pur libere di mettersi d’accordo, di obbligarsi reciprocamente a scambiarsi il bue con gli euro, ma che se poi una delle due cambiava idea nessun terzo più potente sarebbe intervenuto per forzarli ad adempiere il previo accordo.
Nella maggior parte dei casi succede così anche adesso. Se io dico a mio fratello: «Giulio, passa tu a vedere che succede a casa, e io ti prometto che alla tua festa canterò quella canzone che mi chiedi sempre»… in questo caso, anche se il giudice di turno che (di certo) ha intercettato la mia telefonata ne inviasse tempestivamente (come da protocollo) la trascrizione alla stampa, nessun terzo potrebbe comunque obbligarmi a cantare la canzone o, addirittura, a pagare a mio fratello un risarcimento per danni morali se io poi non cantassi. Il mio obbligo resterebbe meramente morale, tra me e mio fratello. E non per l’oralità dell’accordo: perché la maggior parte dei contratti, in Italia e in tutti i paesi civili, non richiedono la forma scritta e possono anche essere conclusi per telefono.
Lo Stato regola e disciplina la compravendita perché ha un interesse suo a legittimare e dare stabilità a questo accordo quando avvenga secondo certi criteri morali riconosciuti (proporzione tra bene e prezzo, mancanza di inganni o di violenza, ecc.). Senza l’aiuto extra dello Stato, i disordini e le tensioni sociali crescerebbero pericolosamente in proporzione alla volubilità e doppiezza delle parti, la mancanza di fiducia e affidabilità renderebbe impossibile il commercio, eccetera. È come se lo Stato dicesse: «Io riconosco la bontà di questo accordo e la sua rilevanza per il bene comune al punto che, se anche le parti dovessero avere dei ripensamenti o conflitti, sarò pronto a intervenire direttamente per proteggerne la validità».
Questo è ciò che il diritto fa con gli accordi privati che tutela: ne riconosce ufficialmente la bontà con le sue leggi (li legittima) e ne promuove la stabilità e durevolezza con la sua forza. Legittimità morale e stabilità.
Casi come quello di mio fratello e della canzone non meritano in genere attenzione giuridica. Ma altri accordi umani sono ritenuti così importanti per il bene comune da richiedere anche speciali politiche premiali (incentivazioni fiscali, affitti agevolati, buoni scuola e via elencando) e di educazione sociale. Regolamentare il matrimonio o i pacs significa ritenerli così importanti da cercare di farne sorgere di più e far durare di più quelli che sorgono. Ma interessa sul serio promuovere i pacs e creare incentivi per questo tipo di convivenza? Sarebbe indolore per il matrimonio?
Poco prima di don Abbondio, il matrimonio era regolato dal diritto canonico (il nostro diritto civile, si sa, è un derivato) e non richiedeva alcuna celebrazione pubblica. Bastava che due persone cominciassero a vivere insieme con l’intenzione di amarsi per sempre e formare una famiglia perché fossero, a tutti gli effetti, sposate. Nella dottrina cattolica, il matrimonio è un contratto che può anche concludersi per facta concludentia: cioè, col vivere insieme e compiere quello specifico atto sessuale che rende l’uomo e la donna una sola carne. Per intenderci, la Chiesa cattolica ha sempre creduto, e crede tuttora, che se un uomo e una donna non battezzati cominciano a vivere insieme con l’intenzione sincera di cui sopra, esse contraggono a tutti gli effetti matrimonio con tutte le responsabilità morali che ne derivano. [Le persone battezzate rispondono anche alla legge superiore del Sacramento.] Né la Chiesa né lo Stato costituiscono il matrimonio, ma lo riconoscono e lo dichiarano.
Manzoni ci narra di quel momento storico in cui, per esigenze di certificazione anagrafica, la Chiesa impose per la prima volta ai coniugi, come ministri del matrimonio, di esprimere esplicitamene il loro intento contrattuale davanti a un testimone qualificato (il parroco). Ciò, però, non cambia la sostanza del matrimonio, che è la convivenza consensuale tra uomo e donna fondata sull’amore e intesa a costituire la famiglia, che è il luogo dove il passato e il futuro della comunità politica s’incontrano e si conciliano. Sono queste caratteristiche che, per la loro importanza pubblica, hanno giustificato lungo i secoli l’evolversi di una particolare tutela giuridica.
Il matrimonio è una convivenza di fatto che viene riconosciuta e tutelata dal diritto. La sua importanza è sancita proprio dal fatto che altre convivenze vengono o vietate (poligamia, rapporti incestuosi) o permesse (con le uniche tutele per gli eventuali figli). È un paradosso e un sofisma cercare di attribuire diritti civili a una convivenza di fatto diversa dal matrimonio senza che ciò comporti la svalutazione di quest’ultimo. La verità è che, coi pacs, avremmo due tipi di matrimonio riconosciuti e tutelati dal diritto più o meno allo stesso modo: cioè, avremmo un nuovo concetto di matrimonio. È questo che vogliamo?


Dalla parte dei discriminati. Le famiglie normali
di Alfredo Mantovano
Ho due amici che vivono in una provincia dell’Italia Settentrionale, in un appartamento di loro proprietà. È di appena 70 metri quadri: lo hanno acquistato, con sacrificio, poco dopo il matrimonio. Lei lavora come infermiera professionale, lui come tecnico di laboratorio. Hanno cinque figli, il più grande dei quali ha appena iniziato a frequentare il liceo. Penso a loro nel pieno del dibattito di questi giorni sui Pacs. E, pensando a loro, che pure sono felici e riescono a vivere dignitosamente perché distinguono l’essenziale dal superfluo, chiunque può convincersi che oggi le discriminazioni, più di chi convive, riguardano chi ha deciso di sposarsi e di fare qualche figlio in più…
Qualche esempio? Detrazioni per la prima casa: vale la stessa percentuale per tutti, che si abbiano uno, tre, cinque o più figli, o che si sia single. Tariffe elettriche: ci sono agevolazioni per chi consuma poco; ma una famiglia di sette persone può spendere poco in energia elettrica? L’acqua: 90 mc consumati da sei persone diverse con sei contatori differenti hanno un costo totale di gran lunga inferiore della stessa quantità consumata da una famiglia di sei persone con un solo contatore. La casa popolare: non se ne fabbricano con la metratura prevista dai parametri di legge (118 mq.); al massimo se ne fanno di 100 mq. E così i miei amici, pur essendo i primi nella graduatoria, restano al palo: sono in troppi. Condizioni vantaggiose per un mutuo? Sì, ma solo fino al quarto figlio: guai a farne cinque.
Peccato che i genitori vivano d’amore e d’accordo: gli alimenti corrisposti al coniuge separato sono detratti dalla dichiarazione dei redditi, mentre il trasferimento della medesima cifra all’interno di una famiglia non scissa non comporta alcuna detrazione. D’altra parte, se un professionista assume la convivente può scaricare dalle tasse il costo della remunerazione e dei contributi; se assume la moglie no. Esistono agevolazioni senza limiti di reddito, dalle spese sanitarie alle ristrutturazioni edilizie; invece i limiti di reddito s’incontrano sempre per i sostegni alla maternità e per le deduzioni per i figli. E così via… Questo accade in un’Italia che, stando a quanto scrivono testate giornalistiche apparentemente autorevoli, avrebbe una classe politica succube del Vaticano.
Ovviamente non è solo un problema di classe politica; ma la politica può dare un contributo in termini di condizionamento, positivo o negativo. Nel famigerato messaggio all’Assemblea nazionale di Gayleft (domenica 11 settembre, alla Festa nazionale de l’Unità), il candidato premier dell’Unione Romano Prodi ha fatto propria la proposta che reca come prima la firma dell’on. Franco Grillini, con ciò condividendo l’individuazione di un tipo diverso di famiglia, che viene operata in tale progetto di legge. Diverso dalla Costituzione, dal codice civile, e dalla nostra tradizione sociale e giuridica, che ha sempre visto un unico concetto di famiglia, quello che si fonda su un vincolo tendenzialmente permanente nel quale ai diritti riconosciuti corrispondono sempre dei doveri.
Secondo l’Unione, invece, andrebbe individuata una unione alternativa, anche fra persone dello stesso sesso (lo si dice esplicitamente all’art. 2), in cui si rivendicano diritti senza il corrispettivo di doveri.
Pur essendo, come mi ha qualificato l’on. Grillini, un «integralista a tutto tondo», riesco a capire che le convivenze di fatto non si possono ignorare: i problemi ci sono e vanno affrontanti, e in parte lo sono già sul piano giurisprudenziale e amministrativo, e possono quindi esserlo anche sul piano normativo.
Per questo va bene che si prendano in esame tutti i casi critici e le questioni concrete che pongono le convivenze, che le si studi e che si venga loro incontro. Ma a una condizione: che si tenga conto che, a fronte di minoranze che si trovano in queste situazioni (e a fronte di una minoranza ancora più esigua che ricorre ai Pacs), esiste una maggioranza d’italiani che vive in famiglie normali, i cui diritti sono tanto più disconosciuti quanto più esse sono al loro interno numerose. Sono diritti ignorati anzitutto sul piano mediatico: non si può aprire un quotidiano senza trovare pagine e pagine dedicate a vicende di corna o di gay. Nella legislatura che sta per chiudersi si è iniziato a fare qualcosa di significativo in favore delle famiglie vere e con più figli: si tratta di decidere se proseguire, con maggiore lena e con segnali significativi da fornire già nella prossima Legge finanziaria, oppure – in base agl’impegni assunti dal professor Prodi – dire francamente ai miei amici che hanno voluto cinque figli che il loro caso è del tutto estraneo all’agenda politica.


Tratto da Il Domenicale N. 40 di Sabato 1 ottobre 2005