Con il mitra, per la pace

Raud ha ventuno anni e domenica ci ha scortati in chiesa con il fucile mitragliatore. Mentre passavamo accanto alla riproduzione della grotta di Lourdes, con la statua della Madonna e i ceri accesi, altri ragazzi, tutti armati, se ne restavano nei paraggi o sulla strada sbarrata nei due punti di accesso.


Intanto dalla chiesa venivano i canti e le preghiere. Nessuna auto e nessuna faccia sconosciuta poteva passare da quella via dove si affaccia anche una moschea con i suoi altoparlanti che diffondo la voce del muezzin. Proprio in questa chiesa, una settimana fa, nella domenica di sangue cristiano in Iraq, la strage è stata evitata.
«Il guidatore dell’auto bomba che doveva colpirci aveva tentato di entrare per parcheggiare nel piazzale della parrocchia della chiesa caldea di Sant’Elia a Baghdad. Di fronte all’insistenza dell’autista un nostro giovane di guardia ha spianato il mitra per essere più deciso e così l’auto ha fatto marcia indietro ed è esplosa lontano. Purtroppo ha ucciso un nostro parrocchiano», racconta padre Bashar Warda, parroco della chiesa al termine della messa del pomeriggio. «Ci dobbiamo solo difendere e niente più. Noi non dobbiamo attaccare nessuno», aggiunge il sacerdote.
A Baghdad è stata una domenica con gli edifici religiosi protetti e le strade sbarrate alle auto, mentre i più giovani, chi sul tetto di vedetta, chi lungo la via a pattugliare, erano armati di Kalashnikov, autorizzati dal governo e dagli americani. Per paura di nuovi attacchi e comunque ancora sotto choc, per quanto accaduto sette giorni prima, e con ancora le lacrime per i parenti e i figli rimasti uccisi, «molti fedeli hanno preferito restare a casa», confermano i sacerdoti. In alcune chiese, quelle più danneggiate dalle esplosioni i riti religiosi sono stati officiati solo la mattina. Come è accaduto nella chiesa Caldea di Pietro e Paolo. Dove c’è stato il numero più alto di vittime, uccise proprio al termine della funzione dei vespri, mentre uscivano dall’edificio: «Durante la messa ai fedeli ho detto che questa situazione non ci deve fare paura – dice padre Fares Toma -. Perché le bombe non ci impediranno di vivere la nostra fede in Dio che ci salverà dal male». Ma chi è il nemico, chi il diavolo che porta morte e distruzione anche nei luoghi di preghiera? La domanda resta senza una risposta. «La violenza fa il gioco di chi non vuole un Iraq unito e quindi si colpisce anche nelle minoranze – aggiunge padre Warda -. Una strategia per scatenare l’attenzione dell’opinione pubblica occidentale, per dire che quello che si sta facendo in Iraq è sbagliato. Ma questa gente non riuscirà nell’intento. Perché se c’è una Chiesa che è perseguitata significa che è una Chiesa viva e poi l’Iraq è unito. Molti musulmani, religiosi e laici ci hanno espresso solidarietà e vicinanza».


Dal Nostro Inviato A Baghdad Claudio Monici
(C) Avvenire, 10-8-2004


 


Titolo originale: DOMENICA IN CHIESA. I cristiani: «Non dobbiamo aver paura delle bombe»