Come sta l’Italia?

di Antonio Socci. Come sta l’Italia? Siamo davvero più poveri e in declino? Le cose stanno peggiorando? Questo ci stanno ripetendo da settimane le opposizioni, gran parte dei giornali, delle tv e certe corporazioni.

A questo affresco si contrappongono i dati statistici e le cifre enucleate da Berlusconi, Tremonti e Brunetta. Per esempio, quest’ultimo – da economista – ha sfidato tutti a ragionare proprio sui numeri: da quando è nato il governo Berlusconi, afferma Brunetta, l’occupazione è cresciuta del 2,1 per cento nel 2001, dell’1,5 nel 2002 e dell’1 per cento nel 2003. La disoccupazione è scesa dall’11 per cento all’8,5, un minimo storico che non si toccava da decenni.



Le tasse non solo non sono aumentate (come accadeva fino al 2001), ma hanno già cominciato a diminuire: nel 2000 la pressione fiscale era del 43 per cento del Pil e nel 2002 è scesa al 42,1.



Tutti i giornali ripetono che l’Italia si è impoverita, ma Brunetta – documenti alla mano – afferma che gli stipendi dei lavoratori non hanno perso potere d’acquisto: le retribuzioni lorde pro capite sono aumentate del 3,3 per cento nel 2001 (con un’inflazione al 2,7 per cento), del 2,6 nel 2002 (inflazione al 2,5) e del 3,1 per cento nel 2003 (inflazione al 2,7). Tanto che la spesa per consumi – diversamente da quanto molti ripetono – è cresciuta del 3,8 nel 2001, del 3,4 nel 2002 e dovrebbe arrivare addirittura al 5,3 nel 2003. Inoltre le persone che vivono sotto la soglia di povertà sono diminuite rispetto al 2000, da 7,9 milioni a 7,1 milioni: 800 mila persone tirate fuori dall’area della povertà.



C’è però più conflittualità sociale? Anche qui i numeri dicono di no. Durante i governi dell’Ulivo le ore di sciopero per ragioni contrattuali sono state in media 7,5 milioni all’anno, mentre col governo di centrodestra solo 6,8 milioni. E’ enormemente cresciuto invece un altro tipo di sciopero, quello per motivi politici e non contrattuali che è passato da 104 mila ore all’anno a 24 milioni per l’estrema politicizzazione dei sindacati (perfino un leader della Cgil come Antonio Panzeri ha attaccato Epifani perché insegue il massimalismo della Fiom invece di contrattare).



Berlusconi e il ministro Tremonti – considerato il momento storico-politico – rivendicano di aver compiuto una sorta di “miracolo economico”. Perché? Quando la CDL ha vinto le elezioni, nel maggio 2001, tutte le previsioni, sfornate da Fondo monetario e Commissione europea parlavano di una crescita per l’Europa del 3 per cento. Ma di lì a poco il mondo è precipitato in un baratro imprevisto.



L’11 settembre – con due guerre in due anni – ha sprofondato l’economia mondiale, poi una crisi delle borse “paragonabile a quella del 1929”, la destabilizzazione dovuta all’irrompere di grandi concorrenti sleali (sul piano commerciale) come la Cina, l’impatto dell’euro sul carovita, infine le grandi situazioni di crisi e frodi che hanno “distrutto ricchezza e risparmio”.



Questi “uragani” del tutto imprevisti hanno avuto per tutti un effetto nefasto. Ci si doveva aspettare che per l’Italia gli effetti fossero più negativi dati i noti handicap ereditati dal passato: l’enorme debito pubblico, il ritardo del Meridione, le infrastrutture vecchie e fatiscenti.



Invece – rivendica il governo – proprio l’Italia è riuscita a fare meglio degli altri. Col centrosinistra era, nella Ue, la “sorvegliata speciale”, a causa dei suoi conti pubblici ed ora è diventata – fra i grandi Paesi fondatori – la prima della classe (con Francia e Germania retrocessi dietro la lavagna). Pur dovendo gestire il terzo debito pubblico del mondo, si è superata una crisi planetaria riuscendo a tenere in ordine i conti senza una lira di tasse in più, anzi diminuendo la pressione fiscale complessiva, esonerando dalle imposte 700 mila pensionati (mentre 28 milioni di italiani pagano meno tasse).



Il governo inoltre ha aumentato le pensioni minime a 1 milione e 800 mila persone, aumentando anche le detrazioni per figli a carico. Inoltre sono state aiutate le imprese diminuendo le tasse (imposta sulle società, Irap e successione) e cancellando una congerie di adempimenti burocratici; sono stati creati 700 mila nuovi posti di lavoro, sono diminuiti i poveri. Tutto questo, ripetono Berlusconi e Tremonti, tenendo i conti pubblici in ordine, cioè mettendo fine agli sprechi.



Il governo rivendica anche altri meriti generali: c’è più sicurezza, e non solo sulle strade grazie al nuovo codice, ma nelle città; si è assestato un duro colpo al terrorismo; si è dato il via ai progetti e ai cantieri delle grandi opere per le quali sono stati mobilitati 165 miliardi di euro. E poi la riforma del sistema educativo, la “riforma Biagi” del mercato del lavoro e le privatizzazioni che hanno visto l’Italia al primo posto in Europa.



Fermiamoci qui. Naturalmente lo stesso Berlusconi sa e riconosce che c’è ancora molto da fare. Tuttavia l’affresco complessivo che si ricava da questo bilancio – a metà legislatura – è eccellente.



Ma allora perché i mass media fanno un ritratto del Paese totalmente capovolto? Perché gran parte della stampa è pregiudizialmente contro il governo. Quel loro affresco quotidiano è basato su impressioni veraci (per i tanti che hanno approfittato dell’euro aumentando i prezzi), ma sono dati parziali e valutazioni “a naso” del tipo “signora-mia-non-ci-sono-più-le-mezze-stagioni”. Un altro elemento che contribuisce a dare una sensazione negativa, è l’attuale conflittualità della maggioranza che – specialmente in campagna elettorale (ci siamo già dentro) – avrebbe interesse a mobilitarsi, unita, a rivendicare i successi ottenuti.



Le cronache bizantine di un’incomprensibile e interminabile “verifica” sono state devastanti. Sarebbe necessario nei tiggì serali avere il polso vero dell’economia italiana, sentire ministri che spiegano come si rimette in sesto l’Alitalia o come cambia la scuola, o come vogliono riformare la sanità, confrontandosi con gli scioperanti. Ma ciò non accade. E’ vero che dall’opposizione non arrivano mai proposte. E’ vero che se fosse stato al potere il centrosinistra, dopo l’11 settembre 2001, l’Italia non avrebbe avuto nessuna maggioranza in politica estera e la crisi economica sarebbe stata fronteggiata con l’ennesimo aumento delle tasse (come già viene prefigurato oggi da alcuni loro esponenti), cosa che avrebbe messo del tutto ko l’economia.



E’ anche vero che questo centrosinistra è tuttora diviso su tutto, pure sul simbolo. Ma la maggioranza deve fare il suo mestiere, spiegare cosa ha fatto finora e cosa intende fare nei prossimi due anni, deve coinvolgere anche emotivamente il Paese e ridare fiducia ai cittadini.



L’altroieri “Il Riformista” – che è un foglio di area dalemiana – nel suo editoriale scriveva: “c’è un sacco di gente in giro per l’Italia che fa, che produce, che pensa, che legge, che si sta guardando intorno, in cerca di qualcuno che possa svegliare il Paese. Gente che non si occupa di verifiche, ma che chiede alla politica una speranza e un nuovo inizio. Non si tratta di persone disposte a mettere tra parentesi il berlusconismo come un accidente sudamericano e tirannico, che non cancellerebbe la riforma Biagi, che non consegnerebbe la scuola italiana ai sindacati, non vorrebbe pagare più tasse e non ritirerebbe il tricolore da Nassiriya”.



Curiosamente “Il Riformista” ritiene che questa Italia aspetti D’Alema e Prodi. Ma – considerate le idee che ha – mi pare piuttosto che questa Italia si riconosca nelle riforme del governo Berlusconi e desideri che vada avanti più deciso. A meno che D’Alema e Prodi non siano diventati essi stessi sostenitori del governo su “riforma Biagi”, scuola, tasse e politica estera. Cioè su tutto.


Antonio Socci
© Il Giornale 11.2.2004