Cina: vogliamo aprire gli occhi sí o no ?

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“In Cina non esiste libertà religiosa”


Padre Cervellera: culto impedito senza controllo delle autorità

“In Cina non c’è libertà religiosa, ma il governo ha fallito clamorosamente la sua politica verso Chiesa cattolica che si è rivelata perdente sia nel tentativo di cancellare la fede che in quello di addomesticarla”. Padre Bernardo Cervellera, missionario del Pime, già professore all’Università di Pechino, responsabile dell’agenzia Asia News, ha con le vicende cinesi una lunga consuetudine che alimenta quotidianamente dal suo punto di osservazione privilegiato. Neppure la conversione del gigante comunista alle lusinghe del mercato deve averlo colto di sorpresa: il religioso se l’aspettava, almeno questa è l’impressione che da quando rileva che, in fondo, “capitalismo e comunismo non sono ideologie molto diverse: derivano entrambe dall’illuminismo materialista privo di una visione spirituale e pertanto nemico dell’uomo”.
Sarà per questo che oggi in Cina domina un concentrato ideologico di cinismo, che coniuga lo sfruttamento all’oppressione. Un potere inflessibile che non trova argini e censori neppure nel consesso delle cosiddette nazioni democratiche occidentali, ma che conserva un profondo timore per la religiosità in generale e il “pericolo” del cristianesimo in particolare.
Padre Cervellera, intorno a Natale capita che si rompa il silenzio dei media sui cattolici cinesi. Veniamo informati di vescovi rapiti e fedeli che muoiono in carcere come se si trattasse di episodi, di fatti occasionali. E’ questa la realtà della pratica cristiana sotto il governo di Pechino?
“La realtà è che in Cina non c’è libertà religiosa. Al massimo potremmo parlare di libertà di culto, purchè vengano seguite e messe in atto le istruzioni imposte dal governo. In sostanza, personale e luoghi di culto devono essere preventivamente riconosciuti e registrati dalle autorità: chi non accetta il controllo dall’alto non gode della facoltà di praticare la propria fede. E’ lo Stato che si arroga il potere di concedere la libertà religiosa, che invece è un diritto innato nell’uomo”.
Il regime comunista cinese, oltre all’olocausto di cristiani compiuto soprattutto all’epoca della “rivoluzione culturale” ha giocato anche la carta del “patronato” sulla Chiesa cattolica: se ne è costruita una di fedelissimi, controllata da una “Associazione patriottica”. Considerato che la repressione continua, vuol dire che Pechino ha sbagliato i suoi calcoli?
“Sono i due grandi fallimenti del governo cinese: primo, non è riuscito a estirpare la fede cattolica eliminando i religiosi, perchè la Chiesa cattolica clandestina conta più fedeli di prima; secondo, la chiesa ufficiale ha dimostrato di essere molto più vicino alla Santa Sede che al partito comunista. L’80% dei vescovi “riconosciuti” da Pechino ha chiesto e ottenuto dal Papa perdono e comunione. Si tratta di riconciliazioni che restano segrete per motivi di opportunità, ma i fedeli sanno benissimo quali sono i vescovi su cui fare affidamento”.
Però un gran numero di cattolici preferisce rischiare con la propria vita che con la propria anima. E vanno sul “sicuro”, al seguito del vescovi clandestini che non si piegano neppure formalmente all’ideologia comunista. Questi pastori finiscono in carcere, alcuni vengono uccisi… E i fedeli?
“L’eliminazione fisica sistematica appartiene al periodo maoista, anche se ci sono ancora dei vescovi che spariscono. Tra prelati e sacerdoti non “riconosciuti” alcune decine sono rinchiusi in carcere. Quanto ai fedeli, la discriminazione sul lavoro è praticamente inesistente nelle ditte private dove si guarda solo al rendimento. Nell’industria di Stato, invece, si incontrano maggiori difficoltà, analoghe a quelle che i credenti devono affrontare, ad esempio, per riuscire ad iscrivere i figli all’università. I cattolici “sotterranei”, invece, subiscono una maggiore repressione: sono arrestati se sorpresi durante pratiche religiose “clandestine” nelle loro abitazioni, e le case vengono distrutte”.
Insomma gravissime violazioni ai cosiddetti diritti dell’uomo. In Iraq i cristiani non erano perseguitati come in Cina, ma si è fatta una guerra per “democratizzare” il Paese di Saddam. Col governo cinese, degno erede dell’ideologia più criminale della storia, si intrecciano rapporti economici e si scambiano visite di cortesia. Ha un senso tutto questo?
Il mondo occidentale vede la Cina come un conveniente luogo di sfruttamento. Si va in Cina per approfittare della manodopera a basso costo, per turismo, per accordi economici. Non è un popolo con cui stringere amicizie o per cui ci si preoccupi dei diritti umani”.
Questo, evidentemente, vale nei confronti dei cristiani ma anche dei lavoratori…
“Le rivendicazioni fondamentali che dovrebbe avanzare il mondo occidentale nei confronti del governo cinese sono appunto la libertà religiosa e un minimo di condizione dignitosa per i lavoratori. C’è un popolo sfruttato, che non gode di alcun tipo di tutela o di previdenza sociale, che non conosce pensioni o assistenza sanitaria. In Cina si è realizzato un modello di capitalismo selvaggio che possiede la forza dell’ideologia comunista. Non c’è neanche da stupirsene: capitalismo e comunismo non sono molto diversi, derivano entrambi dall’illuminismo materialista: l’ideologia che manca della visione spirituale è nemica dell’uomo”.
E i cinesi, anche i non cattolici, hanno pagato un prezzo spaventoso alla barbarie comunista…
“I cattolici sono appena 15 milioni, però ogni famiglia cattolica conta almeno una vittima del maoismo. Con molta approssimazione si possono calcolare in una cinquantina di milioni le persone uccise durante il “grande balzo in avanti”, altri milioni quelle ammazzate dalle guardie rosse durante la rivoluzione culturale, poi ci sono altri milioni di vittime per le campagne contro gli intellettuali e i proprietari terrieri. Come si fa a quantificare, il governo non permette studi sul maoismo: è proibita la ricerca per il periodo precedente alla rivoluzione culturale: se cadono anche gli ultimi miti del comunismo, cosa resta a questo Paese?”.


di Giulio Ferrari
La Padania [Data pubblicazione: 11/01/2005]