Ci fa un po’ di spavento questa giustizia tanto clemente

Sette anni per un massacro. Ma questa è giustizia seria?

Ci fa un po’ di spavento questa giustizia tanto clemente, che pare la declinazione giuridica dell’educazione data a una generazione: dal vietato vietare, all’incapacità tremula di qualsiasi ‘no’…

di Marina Corradi


Anche l’ultima delle giovani assassine della suora di Chiavenna tornerà presto in semilibertà. Convergenza di indulto e sconto per buona condotta, e le 19 coltellate che aveva inflitto «per ordine di Satana» a suor Maria Laura Mainetti insieme a due amiche alla fine varranno appena sette anni in carcere.
Le due complici più giovani sono affidate ai servizi sociali da tempo. Ora tocca ad Ambra, il capo di quella mattanza senza una ragione contro una donna inerme. Farà volontariato, annuncia il ‘Corriere’ che ne dà la notizia. E, subito il cronista telefona in convento a Chiavenna: ma voi, Madre, avete perdonato? La Madre superiora umanamente esita, dice della fatica, del desiderio e della interiore resistenza a fare come suor Laura, che morendo disse alle assassine: «Pregherò Dio di perdonarvi». Il cronista chiede allora se si sente, la superiora, di fare gli auguri ad Ambra che torna libera. No, risponde quella dolente, «non riesco a pensare a niente».
Insomma, niente auguri. Questi cattolici: eppure non dovrebbero porgere subito l’altra guancia? E invece, dopo ben sette anni, ancora non si sentono di augurare buona fortuna a una ragazza che, come per gioco, massacrò una sorella. È così facile dire «perdono», diamine, si poteva ben dare al cronista questa soddisfazione.
Invece a noi sembrava che questo sconto, fra indulto e il resto, a una ragazza che come per noia decise di uccidere, e andò avanti a colpire fino alla diciannovesima coltellata, potesse suscitare riflessioni più urgenti che l’interrogare di intimi, forse anche pudichi perdoni. Cioè, ci parrebbe che qualcosa non funzioni – e non è la prima volta – se, a fronte di un delitto bestiale, bastano sette anni. E non per l’ansia di un intento afflittivo, non certo dicendo che dopo un simile omicidio un minorenne debba morire in carcere. A 17 anni si ha diritto a sperare di poter ricominciare da capo. Ma dopo avere almeno passato dentro un tempo tale, che i parenti della vittima possano tollerare di rivedersi l’assassino davanti; e che gli altri, quelli che stanno a guardare, non pensino che la giustizia è una benevola pacca sulle spalle: va’, per questa volta passi, vai a fare del volontariato.
Ci parrebbe pericoloso, indurre questo dubbio in tempi in cui Novi Ligure o Perugia diventano subito l’oscuramente invidiato teatro di eroi dark – quelli che, agli occhi di un povero sottoproletariato mediatico, almeno ce l’hanno fatta,a diventare famosi.
Rischioso, in tempi di facile suggestione televisiva, creare attorno a delitti feroci, oltre a un sinistro odore di gloria, anche una sottintesa logica buonista: fra minore età, sconti e indulti, da certe storie si esce con poco. Se un massacro vale sette anni, che sarà mai uno stupro di gruppo a una compagna, o andare allo stadio col coltello?
Goliardate. Ci fa un po’ di spavento questa giustizia tanto clemente, che pare la declinazione giuridica dell’educazione data a una generazione: dal vietato vietare, all’incapacità tremula di qualsiasi ‘no’.
Inquietano un pochino, questi ragazzi di buona famiglia che non ricordano cos’hanno fatto una sera perché erano troppo spinellati, ma in cella non disfano neanche la valigia, «tanto esco domani, vero, avvocato?». Convinti che appunto è roba da ragazzi, e papà metterà tutto a posto.
Ci turbano, questi nostri figli sventati, più dei rumeni; e, anche, che l’unica cosa veloce della giustizia italiana sia la fretta nel liberarli, ci preoccupa. Più che la timida ritrosia di certe suore, che si sforzano nel loro convento di perdonare come pure vorrebbero, e chissà perché non riescono ad augurare, ben sette anni dopo, buona fortuna a chi massacrò senza un motivo una sorella.

Avvenire 12 dicembre 2007