Chi crede che il fallimento dei servizi segreti internazionali sulle armi di Saddam Hussein abbia convinto George W. Bush ad abbandonare la sua dottrina post 11 settembre, cioè agire con risolutezza prima che la minaccia terroristica diventi imminente e promuovere la democrazia in Medio Oriente a fini di sicurezza nazionale, rischia di non aver capito né la natura dell’attuale Amministrazione americana né la sua politica estera e di sicurezza.
New York.
Il Washington Post ha svelato i prossimi passi di Bush che dimostrano come la sua dottrina non sia stata affatto messa in soffitta. Al G8, il vertice degli otto maggiori paesi del mondo che si riunirà a giugno in Georgia, la Casa Bianca presenterà agli alleati un “Grande piano per il Medio Oriente” che consiste in un ambizioso progetto per promuovere la democrazia nella regione, ispirato al modello usato negli anni 80 per diffondere la libertà nell’Europa dell’Est (un’idea che piace anche al candidato democratico John Edwards).
Funzionari della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato hanno già cominciato a parlarne con gli alleati europei. Non ci sono ancora i dettagli, ma l’idea è quella di chiedere ai governi dei paesi arabi e del Sud-est asiatico di adottare importanti riforme politiche, rispettare i diritti umani, concedere diritti alle donne e avviare riforme economiche. Come contropartita, le nazioni occidentali offriranno aiuti economici e politici. Il progetto, spiegano alla Casa Bianca, parte dall’idea che in Medio Oriente, come si legge sui rapporti dell’Onu, esistano voci che invocano democrazia e riforme. A costoro, Bush vuole offrire il sostegno necessario. L’iniziativa, ha detto Shibley Telhami, analista del più importante centro studi liberal, la Brookings Institution, “proietta l’Amministrazione oltre i problemi immediati e istituzionalizza una politica di cambiamento per la regione”.
Bush aveva anticipato il progetto mercoledì, in un poco pubblicizzato discorso alla libreria del Congresso: “Cerchiamo di far avanzare la democrazia per la più pratica delle ragioni: le democrazie non sostengono i terroristi né minacciano il mondo con armi di distruzione di massa. L’America sta inseguendo una lungimirante strategia di libertà in Medio Oriente. Per troppo tempo la politica americana si è girata dall’altra parte mentre uomini e donne venivano oppressi, i loro diritti ignorati e le loro speranze soffocate. Quell’era è finita”.
Bush ha annunciato di voler raddoppiare il finanziamento alla National Endowment for Democracy (80 milioni di dollari) di concentrare gli sforzi per elezioni, mercato, stampa e sindacati liberi, di offrire prestiti e consigli per incoraggiare la cultura dell’impresa e che, in settimana, partirà una nuova televisione mediorientale, Alhurra (“La Libera”), che trasmetterà notizie, film, sport, intrattenimento e programmi educativi per milioni di persone della regione.
Come fece Bill Clinton
Il documento strategico sulla Sicurezza Nazionale del settembre del 2002, passato alla storia come quello che ha codificato il diritto al “primo colpo”, alla guerra preventiva, in realtà ha sancito anche la dottrina del regime change e della promozione della democrazia. In quel documento, fin dalle prime righe, si legge che gli Stati Uniti useranno la situazione creata dall’11 settembre “per estendere i benefici della libertà in giro per il mondo”. Gli obiettivi sono proprio quelli del cambiamento dei regimi totalitari quale migliore arma di protezione interna: “Lavoreremo attivamente per portare la speranza di democrazia, sviluppo, libero mercato, e libero commercio in ogni angolo del mondo”. Nel capitolo 7 del documento c’è scritto che gli Stati Uniti “parleranno chiaramente delle violazioni delle non negoziabili richieste di dignità umana, usando la voce e il voto nelle istituzioni internazionali per far avanzare la libertà; useranno gli aiuti per promuovere la democrazia e aiutare chi combatte in modo non violento per essa, assicurando che chi si muoverà verso la democrazia sarà premiato per i passi compiuti; faranno della libertà e dello sviluppo delle istituzioni democratiche i temi chiave delle relazioni bilateriali, pressando i governi che negano i diritti umani”. E così via.
George Bush, domenica alla Nbc, ha spiegato così la sua dottrina: “La migliore strada per rendere sicura l’America è promuovere la libertà, la società aperta, e incoraggiare la democrazia”. La guerra preventiva è solo un aspetto, dunque. La clintoniana Madeleine Albright a settembre aveva spiegato su Foreign Policy come il diritto all’intervento preventivo sia sempre stato nella disponibilità dei presidenti americani. Vedete se vi è familiare questo episodio: gli Stati Uniti scatenano un attacco missilistico su un’altra nazione, sostenendo che lo fanno per rispondere a un attacco terroristico di Osama bin Laden e per evitare che in quello Stato si costruiscano armi di distruzione di massa che qualcuno potrebbe usare contro l’America. Dopo l’attacco, si scopre che i servizi si erano sbagliati, non c’erano laboratori né armi di distruzione di massa. Bush 2003 in Iraq? No, Bill Clinton 1998 in Sudan.
“Il mistero non è cosa l’Amministrazione Bush abbia elaborato ha scritto la Albright, che ha ricordato anche gli attacchi clintoniani in Afghanistan e Iraq ma perché abbia scelto di creare una discussione globale su quella che è sempre stata un’opzione residuale, facendola diventare una dottrina altamente pubblicizzata. In realtà nessun presidente degli Stati Uniti riconoscerebbe un trattato internazionale che impedisse azioni necessarie a prevenire un imminente attacco agli Stati Uniti”.
L’inglese William Shawcross, nel suo libro “Allies” appena uscito, ricorda come nel 1941 Franklin Delano Roosevelt e Winston Churchill firmarono la Carta atlantica antinazista che, al punto otto, diceva: “Dal momento che nessuna pace futura potrà essere mantenuta se armamenti terrestri, marini e aerei continuano a essere impiegati da nazioni che minacciano, o potrebbero minacciare, aggressioni fuori dalle loro frontiere, crediamo che il disarmo di queste nazioni sia essenziale”. Le parole non sono molto diverse da quelle di oggi. Shawcross ricorda anche il più efficace degli atti di guerra preventiva degli ultimi anni. Era il 1981 e l’aviazione israeliana attaccò il reattore nucleare iracheno di Osirak che Saddam comprò da Chirac (Ochirac).
Gli israeliani attaccarono perché il reattore non era ancora pronto, perché la minaccia non era imminente. Viceversa sarebbe stato impossibile distruggerlo senza diffondere materiale radioattivo in una zona popolata. Sta proprio in questo il paradosso del ragionamento di chi, in assenza di armi di distruzione di massa irachene, sostiene che non era urgente fermare Saddam. Oggi si sa che le armi non c’erano, ma c’erano programmi, capacità, strumenti, scienziati, soldi e volontà di procurarsele. La tesi è: se Saddam non ha le armi non è necessario fermarlo perché non le ha. Se le ha, però, non si può intervenire proprio perché le ha e, sapete, potrebbe usarle.
Le ragioni dell’azione preventiva sono ancora valide, ha spiegato il neocon Max Boot sul Weekly Standard, proprio perché, come c’è scritto nel documento sulla Strategia di Sicurezza Nazionale del 2002, riguardano “le minacce emergenti, prima che siano completamente formate”. Secondo William Safire, la dottrina del primo colpo era riferita proprio alle minacce “non imminenti”, in quanto la guerra preventiva è sempre stata legittima nel caso in cui l’intervento anticipi le mosse di uno Stato che mobilita minacciosamente eserciti, marina e aviazione. Nel caso di terroristi o di Stati che li sostengono non è più così, non c’è più movimento di eserciti convenzionali. Per questo, si legge nel documento Bush, “dobbiamo adattare il concetto di minaccia imminente alle capacità e agli obiettivi degli avversari di oggi”.
Nel suo libro “Waging Modern War” (2001), il generale e candidato anti Bush Wesley Clark, sintetizza bene: “Le nazioni e le alleanze devono muoversi presto per affrontare le crisi perché quando sono ancora ambigue possono essere risolte più facilmente. Ritardare aumenta i costi e i rischi. Agire presto è l’obiettivo cui devono far ricorso statisti e capi militari”.
La dottrina Bush non è finita. Al contrario, è appena iniziata, come mostra la proposta sul Medio Oriente. Favorire la democrazia, far cadere le dittature ed esportare la libertà è l’azione preventiva più efficace che ci sia.
Christian Rocca
(C) IL FOGLIO, 10 febbraio 2004