All’Islam moderato serve un partito come la nostra Dc

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di Massimo Introvigne (il Giornale, 26 settembre 2004)
Da qualche tempo, partecipando a congressi dove si dibatte su islam e democrazia, mi imbatto spesso in un professore di Londra che si chiama William Hale. Oltre a essere un conoscitore della Turchia, Hale è invitato per una sua competenza specifica la cui attinenza con l’islam non sembrerebbe a prima vista evidente: è un esperto delle democrazie cristiane europee e della loro storia. L’esperienza democristiana può davvero servire all’islam?

L’idea di democrazia cristiana nasce nelle società europee e latino-americane dopo l’illuminismo e la Rivoluzione francese. È perché ci sono laicisti che predicano la separazione assoluta fra religione e politica, che nascono “democratici cristiani” che si affermano in disaccordo con il laicismo. Tuttavia, questo disaccordo si esprime in forme diverse. Alcuni accettano la separazione come inevitabile, e si accontentano di portare nella politica separata dalla religione una testimonianza ancorata a una fede vissuta a livello individuale.
Altri contestano la separazione e, senza cadere nell’eccesso opposto di una fusione o confusione fra religione e politica (che è invece lo specifico di tutti i fondamentalismi), propongono di sostituire il laicismo con la laicità, la separazione con una distinzione che non escluda la collaborazione e l’ispirazione cristiana della vita sociale. Il magistero cattolico rifiuta la prima forma di democrazia cristiana, quella che accetta la separazione e si esprime nel Sillon francese di Marc Sangnier, condannato da Roma nel 1910, e più tardi in Italia nella forma teorizzata da Giuseppe Dossetti, quel “dossettismo” che diventerà egemone negli ultimi decenni della DC.
La seconda forma – che vuole distinguere la religione dalla politica, ma non separarle – è quella che negli anni 1950 trova la sua elaborazione dottrinale nel magistero del Papa Pio XII, e ispira gli elettori (anche se non sempre e non tutti gli eletti) dei partiti che dominano a lungo la vita politica in Italia e in Germania.
Il “dossettismo” non interessa e non serve all’islam. Il ritorno dell’islam sulla scena sociale nasce precisamente dal rifiuto della separazione laicista tra religione e politica. Il modello democristiano “degli anni 1950” offre invece all’islam di oggi un’alternativa sia al fondamentalismo (che rifiuta non solo la separazione ma anche la semplice distinzione fra politica e religione) sia al laicismo e all’ipotetico “dossettismo islamico” che restano confinati a pochi intellettuali senza seguito.
La formula del primo ministro turco Erdogan, “democrazia conservatrice”, e analoghi slogan indonesiani e malesi si muovono in un ambito idealmente vicino alle democrazie cristiane degli anni 1950.
Ci sono però due problemi. Nell’islam sunnita, dove non esistono né clero né gerarchia, non c’è un Pio XII che possa garantire l’ortodossia del modello: il consenso va conquistato giorno per giorno attraverso la faticosa elaborazione dei politici e degli intellettuali.
E il ceto medio, la borghesia che sosteneva le democrazie cristiane italiana e tedesca, si vede in Turchia, in Indonesia, in Malesia, ma non ancora nei paesi arabi.
Tuttavia, la nascita di un “Partito del Centro” in Egitto (dove sta crescendo una borghesia islamica) è interessante. Anche altrove, la crescita di una società civile e di un ceto medio favorirà probabilmente quella voglia di democrazia cristiana – ma alla Pio XII, non alla Dossetti – che è tra i tratti più promettenti del nuovo islam conservatore.