Al Meeting di Rimini una mostra su Solzhenitsyn

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Le fughe nella neve per salvare il capolavoro di Solzhenitsyn

Al Meeting di Rimini la mostra “Vivere senza menzogna” (dal 24 agosto al 30 agosto; presentazione il 26), realizzata dall’associazione Russia Cristiana, è interamente dedicata al tragitto umano e artistico dello scrittore Aleksandr Isaevic Solzhenitsyn, scomparso due settimane fa…

 

Mosca, la seconda metà di novembre del 1962. Il signore con l’aria un po’ strana va all’edicola: vuole quella rivista lì, ma il nome non gli viene. La giornalaia cerca di aiutarlo, lui un po’ si stizzisce perché è così chiaro: «Ma sì, quella dove c’è scritta tutta la verità». L’edicolante fa un cenno, ha capito. È l’undicesimo numero della “Novyj Mir”, sulla quale è pubblicato uno dei romanzi più esplosivi del Ventesimo secolo.
La prima parola di “Una giornata di Ivan Denisovic” viene scritta da Aleksandr Isaevic Solzhenitsyn il 18 maggio 1959. Ha già alle spalle anni di gulag, due cancri e centinaia di pagine scritte “per il cassetto”, in totale clandestinità. Un’idea del 1950 («Come descrivere tutta la nostra vita nel lager? Di fatto, basta descrivere una giornata nei particolari più minuti, una giornata nella vita di un comunissimo detenuto, vi si rispecchierà tutta la nostra vita») prende corpo in 5-6 settimane. L’anno dopo, per la prima volta, Solzhenitsyn apre il cassetto e fa leggere a due conoscenti il testo della “Giornata”. È la «fine del mutismo», come titola uno dei pannelli della mostra che il Meeting di Rimini dedica al premio Nobel 1970 scomparso due settimane fa, e che sarà presentata martedì 26 alla presenza della biografa e collaboratrice del maestro russo, Ljudmila Saraskina, autrice di un eccezionale racconto della vita di Solzhenitsyn direttamente rivista dal protagonista, e appena uscita in Russia. L’esposizione “Vivere senza menzogna” (dal 24 agosto al 30 agosto; presentazione il 26), realizzata dall’associazione Russia Cristiana, è interamente dedicata al tragitto umano e artistico dello scrittore; la luce che assume con la recente scomparsa di Solzhenitsyn, avvenuta a Mosca lo scorso 31 luglio, la rende uno degli appuntamenti più significativi della rassegna riminese, e la trasforma nel migliore omaggio alla memoria di uno dei più grandi personaggi del Novecento, in piena sintonia con il titolo del Meeting di quest’anno (“Protagonisti o nessuno”).
Piagato e quasi ucciso dalla morsa dei gulag, soffocato nella sua attività di scrittore, il protagonismo autentico del russo non è, nel percorso suggerito dalla mostra che Libero anticipa, misurato dalla fama né dal Nobel né dal peso politico – pur devastante – che le sue opere hanno rappresentato nel crollo del comunismo. È invece nella scoperta, documentata attraverso un genio narrativo che pochissimi altri hanno sfiorato, che il rifiuto di essere schiavi non comporta essere padroni, ma riconoscersi creati e destinati al legame infinito con la libertà e la bellezza. La “vita senza menzogna” invocata da Solzhenitsyn è così possibile anche dentro la più grande delle menzogne, quella di un totalitarismo che azzittisce l’espressività umana in quanto ha di più puro.
I pannelli più interessanti riguardano le vicende personali dello scrittore, in un primo momento fortemente coinvolto con l’ideale rivoluzionario. È lui stesso a raccontare, con impietosa e ironica onestà, l’atteggiamento di fronte all’imposizione del leninismo, che da subito inizia la sua morsa di arresti e deportazioni. «Nella nostra grande città ogni notte mettevano dentro qualcuno, ma io di notte non giravo per le strade… E di giorno le famiglie degli arrestati non mettevano fuori la bandiera a lutto, e i miei compagni di scuola non dicevano nulla dei padri che gli avevano portato via». Il popolo diventa così nemico di se stesso. Solzhenitsyn riconosce il potere della menzogna, e il dramma personale di ogni coscienza: «Chiuda pure il libro il lettore che si aspetta di trovarvi una rivelazione politica», scriverà infatti nell’Arcipelago: «Fosse così semplice! Se da una parte ci fossero gli uomini neri e bastasse distinguerli! Ma la linea che separa il bene dal male attraversa il cuore di ognuno». Vengono le tragedie della guerra (si arruola volontario), poi dell’arresto con la deportazione, quindi della malattia, vinta nel 1952 e poi affrontata (un tumore all’inguine), ancora, due anni dopo. «Benedetta sia la prigione», grida Solzhenitsyn, che ha riabbracciato la fede dei padri e individuato il nocciolo di ciascun uomo, l’unico puntello da opporre, prima di qualsiasi abbrivio politico, prima di qualsiasi esito letterario, prima di qualsiasi mossa dell’io. Lo chiamerà «punto di vista proprio», lo chiamerà anima, o ancora «posizione a se stante»: è la memoria del proprio essere creature di Dio a lanciarlo nell’opera della memoria cui dedicherà tutta la lunga esistenza (quasi 90 anni) in un commovente servizio al suo popolo. Un popolo che sintetizza nella figura di Matrjona, la vecchia contadina ignorante che darà rifugio allo scrittore diventando il simbolo del giusto senza cui «non esiste il villaggio, né la città, né tutta la terra nostra».
Ivan Denisovic è la superficiale, detonante punta di questo iceberg. L’uomo che non china come tutti la testa sulla scodella del lager ma conserva la sua inspiegabile dignità è il modello dello scrittore. Il libro inizia a circolare nei samizdat, dove è immediatamente riconosciuto come un capolavoro. Solzhenitsyn ha deciso: nel 1961 lo consegna al direttore della rivista letteraria “Novyj Mir”. Il quale, dopo averlo letto, esclamerà: «Dicono che hanno ucciso la letteratura russa. Un corno! Eccola qui, in questa cartelletta». Le migliaia di copie stampate nella capitale vengono prese d’assalto. Per organizzare le ristampe, il mensile fa stilare ai fortunati lettori una lista di amici e conoscenti che desiderano entrarne in possesso. La Russia si sveglia, e il regime se ne accorge. Solzhenitsyn ingaggia una partita a scacchi contro il comunismo. È più che mai risoluto a portare a termine l’ “Arcipelago Gulag”, che ha nella testa e nel cuore da anni. Nel settembre 1965, dopo il sequestro del suo archivio, lo scrittore ripiega in un casolare in Estonia. Qui scrive ricopiando altre due volte ogni pagina. Due famiglie, le uniche a sapere del suo rifugio, lo aiuteranno. Racconterà il membro di una di esse: «Prendevo l’autobus fino a Vasula, dove scendeva tanta gente. In questa folla mi dissolvevo anch’io. Poi raggiungevo il casolare sugli sci (distava tre chilometri). Portavo qualche provvista». Solzhenitsyn lavorava di notte, raccogliendo – lui, clandestino – le memorie degli “invisibili” che gli facevano arrivare i loro racconti da tutta la Russia attraverso una rete di collaboratori che si esponevano a rischi incalcolabili. Al mattino l’uomo si vedeva consegnare una copia del manoscritto e faceva il percorso a ritroso. Non sapeva che un’altra famiglia, all’oscuro di tutti, faceva lo stesso.
Solo in questo modo l’opera è sopravvissuta anche al tradimento di una dattilografa che, sotto le torture del Kgb, ha rivelato il nascondiglio di uno dei manoscritti. Solo così è arrivata l’esplosiva pubblicazione nel 1973. Anche così è caduto il comunismo. Grazie a protagonisti come Solzhenitsyn, e come il suo Ivan Denisovic, che, una volta suonata la campana della fine dei lavori forzati nel lager, continuava, con cura e pazienza, il lavoro che aveva iniziato. Grazie a uomini che hanno testimoniato un modo di trattare le cose che è rapporto con la bellezza della vita, e che nessun potere può scalfire o svuotare di senso. Protagonisti da cercare e imitare anche oggi, senza muri e senza ideologie.

di Martino Cervo
Libero 19 agosto 2008