L’EMBRIONE UMANO: «FIGLIO» O «STRUMENTO TECNOLOGICO»?

Editoriale de La Civiltà Cattolica


fasc. 3718 del 21 maggio 2005



Il contrastato tema dell’embrione umano, anche in vista dei prossimi referendum, è ampiamente dibattuto nei mezzi di comunicazione. Le pressioni di un notevole numero di scienziati e di abili tecnologi, da una parte, e, dall’altra, una Medicina sempre più tecnologizzata in vista di nuovi tentativi terapeutici — purtroppo non preceduti da una dovuta corretta sperimentazione — quale la “fecondazione in vitro” (FIV), hanno portato a dimenticare, fino a rifiutare, la reale natura del soggetto umano al suo apparire: è stata, cioè, offuscata e negata la verità del “concepito”, che è “figlio”. Per completare il quadro si sono aggiunte tesi di qualche filosofo, secondo le quali l’embrione umano sarebbe un “insieme di cellule” umane, il quale, tuttavia, non costituirebbe un reale individuo umano, ma lo sarebbe soltanto “in potenza” per diventare tale a un dato momento, da stabilire per convenzione, nel processo del suo sviluppo. Si tratta, in realtà, di una grave aggressione alla più debole di tutte le creature umane. Un richiamo ai principali tentativi di questa aggressione permetterà di rivelarne la grave ingiustizia.

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Il primo atto ufficiale contro l’embrione umano avvenne nel 1990. R. G. Edwards, il padre tecnico della prima bambina concepita in vitro, riconosciuti i gravi fallimenti della tecnica della FIV, che portava a una immane ecatombe di soggetti umani allo stadio embrionale, in un Convegno internazionale affermava con forza: “Insisto sulla necessità di studiare la crescita in vitro per migliorare l’alleviamento della infertilità e delle malattie ereditarie e per approfondire altri problemi scientifici ed etici”. Ottima, ovviamente, l’intenzione; ma debole e pericoloso il pensiero che condusse nel 1990 all’approvazione a forte maggioranza, da parte delle due Camere inglesi, di una legge la quale consentiva che “la ricerca avrebbe potuto essere condotta su ogni embrione umano risultante dalla fertilizzazione in vitro, qualunque ne sia la provenienza, fino al termine del quattordicesimo giorno dalla fertilizzazione”. Da allora milioni di embrioni umani, in molte nazioni, sotto la protezione della legge o no, sono stati privati della loro vita e ridotti allo stato di “materiale da ricerca”.



La stessa “Convenzione dei diritti umani e la biomedicina”, faticosamente preparata e definitivamente adottata dai ministri del Consiglio d’Europa il 19 novembre 1996, si limitava a raccomandare, all’articolo 18: “Dove la legge permette la ricerca sugli embrioni in vitro, questa dovrebbe assicurare un’adeguata protezione dell’embrione”. Quale adeguata protezione? Non stava forse più alla base dell’etica della sperimentazione clinica sull’uomo il principio che questa dev’essere preceduta da un’ampia sperimentazione su animali a lui fileticamente più prossimi? Norma questa stabilita per evitare che il soggetto umano potesse diventare oggetto di sperimentazione rischiosa e non a suo vantaggio.



Ma proprio per sfuggire a questa norma, che avrebbe impedito ogni ricerca sugli embrioni umani, erano stati inventati e attribuiti in nome della scienza, contro gli stessi dati della scienza, il titolo e la qualità di “pre-embrione” all’embrione umano dei primi 15 giorni. Qualità nominale ma falsificatrice — come altre introdotte più recentemente quali pre-zigote e ootide — che negava all’embrione la dignità di “soggetto umano” e il diritto alla vita proprio nei suoi primi giorni di intensa e autonoma attività secondo la legge scritta nel suo piano-programma inciso nel DNA. Peggio ancora però, sorvolando su queste situazioni pseudo-scientifiche, oggi si afferma con incomprensibile e abusiva leggerezza che non è la scienza che “possa cavarci le castagne dal fuoco”, perché essa non può esprimersi in questo campo, ma è la società che deve definire per convenzione la qualità della nostra esistenza, in modo analogo a quanto avviene quando si definisce, ad esempio, che a 18 anni incomincia la maggiore età. Si era così preparato il terreno e aperta la via a qualsiasi abuso su questo “soggetto uomo” e “figlio” nelle primissime fasi della sua esistenza.



A giustificazione di questo evidente grave abuso era stata espressa un’attenuante: la necessità di rendere più efficiente la nuova tecnologia della riproduzione medicalmente assistita. Si impone allora una domanda: tutta questa sperimentazione condotta ormai dal 1969 — anno in cui si iniziò a lavorare intensamente sugli embrioni umani nella prospettiva di dare un “figlio sano” a coppie desiderose di averlo — a quali risultati ha condotto? La risposta è data dalle cifre elaborate da organismi ufficiali. Quelle preparate per l’Europa dalla Società Europea di Riproduzione Umana ed Embriologia (ESHRE) relative al 1999, in cui sono inclusi anche i dati di 44 cliniche della fertilità italiane, registrano su 258.460 cicli iniziati — cioè 258.460 donne nelle quali è stato fatto l’impianto di embrioni prodotti in vitro — una media di solo il 21% di esse che sono riuscite ad avere il “bambino in braccio”; media che, secondo la stessa fonte, scenderebbe per l’Italia al 17%, il 25% delle quali con gravidanze bi-, tri- e anche tetra-gemellari. Insomma, a tutt’oggi, il “bambino in braccio” è ancora il privilegio di una coppia su cinque o sei che lo desiderano. Scienza e tecnologia, in 36 anni, non hanno risparmiato né ricerche né mezzi per superare gli ostacoli; ma, finora, i risultati sono fortemente deludenti per la massima parte delle coppie che affrontano questa via lunga, faticosa e costosa, e sono gravemente danneggiate da tre punti di vista: fisico, psicologico ed economico. Si tratta di una richiesta e, peggio, di un’offerta incosciente, se non ingannatrice da parte dell’offerente. Un prodotto farmacologico che avesse analoghi risultati sarebbe immediatamente eliminato dal commercio.



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Ma c’è qualcosa di più grave, totalmente dimenticato e volutamente sottaciuto nell’informazione: è l’elevatisssima incidenza di embrioni — tutti “figli” — destinati, con piena coscienza, a morte certa. Tutte le statistiche confermano quanto nel 2001 affermava R. M. L. Winston, uno tra i più noti operatori in questo campo: “Soltanto il 10% circa degli embrioni trasferiti producono un bambino, e circa 40.000 generati ogni anno durante questi trattamenti in Gran Bretagna non possono essere trasferiti e periscono”. Morte “programmata”, che si sta estendendo, sotto una forte spinta eugenistica, alla eliminazione volontaria di ogni embrione diagnosticato — attraverso le tecniche offerte dai progressi della citogenetica e della genomica umana — suscettibile di manifestare serie patologie, o giudicato diverso da quello voluto, o in sovrappiù rispetto all’”uno” desiderato.



Situazioni e prospettive, ormai da tempo in atto, che hanno condotto lo stesso Winston a scrivere nel 2002 in un articolo dal titolo “Stiamo ignorando i danni potenziali della fecondazione in vitro e i trattamenti correlati?”: “Non si dovrebbe permettere che la disperazione dei pazienti, l’arroganza medica e le pressioni commerciali siano gli aspetti chiave determinanti in questa produzione di esseri umani. Portare un bambino al mondo è la più seria responsabilità. Non possiamo ignorare le nubi che si stanno addensando su queste terapie”. In realtà, qualunque ragione pseudoscientifica si cerchi di portare, siamo di fronte chiaramente a una voluta strage degli innocenti. A questo hanno condotto l’introduzione e lo sviluppo, in campo medico, di una tecnologia pensata, forse in buona fede, per andare incontro a un desiderio di vita, ma sfociata in una involuzione di morte. Ed è difficile comprendere come sia possibile essere indifferenti, da ambedue le parti, richiedenti e medico, all’omicidio multiplo intenzionale che accompagna i pochissimi nati. Purtroppo, nella cultura di oggi, l’alto concetto di “figlio” è stato degradato a quello di prodotto pseudo-terapeutico, molto costoso per chi lo compra e ingiustamente assai fruttuoso per chi lo offre.



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Il secondo atto ufficiale contro l’embrione umano avvenne nel 2001. Un gruppo di ricercatori della Wisconsin University, a Madison negli Stati Uniti, pubblicava un lavoro in cui si dimostrava la possibilità di ottenere, dalle cellule di embrioni umani al quinto giorno circa dalla fecondazione, cellule pluripotenti non ancora differenziate, dette cellule staminali embrionali (ESc). In realtà, sulla base di precedenti ricerche compiute sul topo, esse avrebbero potuto dare origine, in seguito a differenziazione spontanea o indotta, a cellule dei più diversi tipi di tessuto. Sembrava di aver trovato finalmente una fonte inesauribile di cellule da cui derivare altre cellule — nervose, muscolari, epiteliali, ematiche ecc. — che, impiantate in organi malati con le dovute attenzioni per evitarne il rigetto, ne avrebbero consentito la riparazione, ridonando così la salute a soggetti affetti da gravi patologie. A una considerazione esclusivamente scientifica e tecnologica, pareva aprirsi una grande speranza per la Medicina. Non si restò fermi neppure a livello politico. Sotto le pressioni di scienziati, medici e pubblico, in Gran Bretagna il Governo Blair nel giugno 1999 chiedeva la formazione di un Comitato per “esaminare se avrebbero dovuto essere permesse nuove aree di ricerca su embrioni umani, capaci di condurre a più ampie conoscenze su, ed eventualmente a nuovi trattamenti di tessuti o organi malati o danneggiati”. Il 14 agosto 2000 era reso noto il testo definitivo del Documento preparato dal Comitato. Si proponeva il “sì” per due nuovi procedimenti, che estendevano l’uso di embrioni umani precoci a due nuovi campi di ricerca: 1) la preparazione di cellule staminali embrionali; e 2) la clonazione terapeutica. La risposta del Governo fu immediata, e di piena approvazione delle due proposte, in seguito alla votazione delle Camere che aveva raggiunto circa i due terzi dei voti favorevoli. Era così legalmente approvato un ulteriore passo nell’aggressione all’embrione umano, ridotto a prezioso strumento tecnologico sotto l’egida di una “buona azione” medica.



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La preparazione delle cellule staminali embrionali implica in realtà: a) la produzione di embrioni umani in vitro o l’utilizzazione di quelli sopravvanzati ai trattamenti di fecondazione in vitro nelle pratiche di riproduzione tecnicamente assistita, crioconservati o meno; b) il loro sviluppo fino allo stadio di “blastocisti” di circa 60-120 cellule; c) il prelievo, da queste, delle cellule — circa 30-40 — che ne costituiscono la cosiddetta “massa cellulare interna” (ICM): operazione questa che implica l’arresto dello sviluppo embrionale e la distruzione dell’embrione; d) la coltura di queste cellule, con particolari accorgimenti e in adatti terreni, sino alla formazione — in seguito alla loro ininterrotta moltiplicazione — di popolazioni di cellule autonome dette “linee cellulari”, capaci di moltiplicarsi per mesi e anni conservando le caratteristiche proprie di “cellule staminali” e dette perciò “cellule staminali embrionali”. Per la loro utilizzazione, tuttavia, era necessario ottenerne le “cellule differenziate”, dotate di ben determinate caratteristiche strutturali e funzionali quali, ad esempio, cellule muscolari, nervose, epiteliali, ematiche, germinali e molte altre. Ma proprio questo ulteriore passo, assolutamente indispensabile, ha incontrato finora serie difficoltà, facili a comprendere da un punto di vista biologico: si tratta soprattutto di identificare gli specifici processi molecolari che sottostanno alle impressionanti prestazioni di ciascun tipo di cellule staminali, compito in realtà complesso e arduo.



È qui sufficiente ricordare la testimonianza del fallimento di questa linea di ricerca che i tre più grandi gruppi di lavoro, presso rinomatissime imprese farmaceutiche, hanno voluto esprimere dopo tre anni di ricerche intensamente volute e altamente finanziate: testimonianza ampiamente riportata in un articolo pubblicato sulla grande rivista scientifica Science, del 21 marzo 2003, che porta il titolo: “Le cellule staminali perdono lo splendore del mercato”, e introdotto con l’affermazione: “Le imprese in gara per trasformare le cellule staminali embrionali in vista di trattamenti medici stanno riducendo il loro personale e, in alcuni casi, le loro attese”. D’altra parte, i grandi e ormai rapidi progressi nel campo delle cellule staminali cosiddette “adulte”, di cui ciascuno di noi è dotato e facilmente ottenibili da tessuti di feti abortiti spontaneamente e oggi anche dal sangue del cordone ombelicale o dal tessuto mesenchimale dei pazienti stessi, lasciano già intravedere che la provocatoria e, da un punto di vista bioetico, non corretta linea di ricerca sulle cellule staminali embrionali non è affatto indispensabile per una prudente e seria medicina riparativa, anzi devia inutilmente grandi risorse economiche, che permetterebbero risultati più rapidi e sicuri se venissero devoluti alla ricerca sulla cellule staminali “adulte”. Basterebbe ricordare la completa guarigione di ustioni gravissime ed espanse, oggi raggiungibile utilizzando le cellule staminali presenti in piccoli frammenti di cute dello stesso soggetto, direttamente amplificate in coltura e capaci di dare popolazioni elevatissime di cellule epidermiche in quantità tali che basterebbero a coprire l’epidermide di centinaia di individui.



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La clonazione terapeutica venne proposta come un ulteriore passo per la preparazione di cellule staminali embrionali immunologicamente compatibili con il soggetto a cui avrebbero dovuto servire per un trattamento di medicina rigenerativa. Essa richiede il trasferimento del nucleo di una cellula somatica di un dato soggetto in un ovocita umano denucleato a cui segue, anche se molto raramente, lo sviluppo embrionale dell’ovocita transnucleato fino allo stadio di blastociste, l’estrazione da questa della massa cellulare interna (ICM), la produzione delle cellule staminali e, infine, delle cellule differenziate desiderate. Queste cellule curate, se necessario, attraverso terapia genica, sarebbero allora pronte per l’impianto nel paziente, senza rischi di rigetto. In questo caso, ovviamente, l’embrione che riesce a iniziare il suo sviluppo è un “clone” allo stadio embrionale del soggetto donatore del nucleo, costruito a puro scopo di ricerca in vista di possibili applicazioni in campo terapeutico.



Di fatto il procedimento della clonazione terapeutica, che è propriamente clonazione di embrioni umani a fine di ricerca (research cloning) in prospettiva terapeutica, è già stato tentato con scarsi risultati, tanto che i primi a cimentarsi — J. B. Cibelli e collaboratori — nel 2001 concludevano il loro lavoro affermando: “Noi insistiamo che l’uso del trasferimento nucleare (NT) nella riproduzione umana è allo stato attuale ingiustificato”. Tuttavia, anche se la società ne fu frastornata e il titolo di un serio commento sulla rivista Science affermava: “La notizia della clonazione accende dibattito e scetticismo”, i tentativi di apertura a questa nuova tecnologia continuano: il 10 agosto 2004, la Human Fertilization and Embryology Autority (HFEA) concesse la richiesta autorizzazione per la clonazione terapeutica a un gruppo di ricercatori dell’Università di Newcastle e nel febbraio 2005 al Roslin Institute; e in Giappone si sta premendo fortemente per un consenso definitivo a questa tecnologia, sulla quale sinora era stata posta una moratoria fino al giugno 2004.



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Le posizioni e le decisioni prese dalle nazioni che hanno affrontato le importanti prospettive e gli ineludibili seri problemi etici di questo nuovo campo di ricerca, pur variando nell’estensione e nei limiti normativi, mettono in evidenza una situazione grave nelle società del mondo cosiddetto “sviluppato”: cioè la caduta o il serio pericolo del crollo di due dei più fondamentali valori sociali: la dignità dell’essere umano e il suo diritto alla vita dal concepimento. In breve, allo stato attuale, in ambedue le linee di ricerca, gli embrioni umani, sviluppati fino al quinto giorno circa, rispettivamente dalla fecondazione o dalla transnucleazione, sono distrutti allo scopo di ottenerne cellule staminali capaci di dare origine, in seguito a processi di differenziamento, a particolari tipi desiderati di cellule, a seconda del tessuto da riparare.



Per chi riflette sulle responsabilità delle proprie azioni si impone, allora, una domanda: qual è la ragione o quali sono le ragioni addotte, o che si dovrebbero addurre, per ritenere giustificata e lecita la distruzione — senza mezzi termini, l’uccisione — di tanti embrioni umani? La risposta è data nel Rapporto Donaldson sopra ricordato. Essa dice: “Alcuni affermano che l’embrione non richiede né merita alcuna particolare attenzione morale in ogni caso; il Comitato invece ritiene preferibile la posizione di coloro che riconoscono all’embrione uno statuto speciale in quanto potenziale essere umano, ma sostengono che il rispetto dovuto all’embrione è proporzionale al suo grado di sviluppo, e che questo rispetto, soprattutto negli stadi iniziali può essere controbilanciato dai benefici potenziali derivanti dalla ricerca”. Tuttavia, lo stesso Comitato Donaldson con molta onestà e prima delle altre due posizioni aveva voluto riconoscere e sottolineare che “una significativa corrente di pensiero” ritiene “l’utilizzo di qualunque embrione per scopi di ricerca immorale e inaccettabile”.



Quest’ultima, in realtà, è la posizione alla quale conducono la conoscenza della verità biologica dell’embrione umano e la riflessione razionale sopra il suo reale stato ontologico. Posizione che non è un’imposizione che la Chiesa cattolica fa in nome della fede che professa, contribuendo con tale comportamento — come si cerca di far credere — a impedire il progresso scientifico; ma è, al contrario, come afferma espressamente l’Istruzione Donum vitae, un intervento “ispirato all’amore che essa deve all’uomo aiutandolo a riconoscere e rispettare i suoi diritti e i suoi doveri”. Riconoscimento dettato dalla ragione, cioè dall’uomo che riflette su se stesso e sulle sue azioni, derivandone le proprie responsabilità.



Scienza e tecnologia, pervase da un senso di onnipotenza e di autonomia, e appoggiate da forze politiche e sociali che hanno a disposizione potenti e avvincenti mezzi massmediali, nonostante brillanti scoperte e straordinari progressi, stanno dimenticando la grandezza vera dell’essere umano, che è già presente — anche se invisibile agli occhi — in quel minimo soggetto umano che, come dimostrano una scienza e una sapienza oggettive, inizia il suo cammino al momento della fecondazione. È incisivo il ricordo che Giovanni Paolo II lasciava ai membri della Pontificia Accademia delle Scienze il 29 ottobre 1994: “Non bisogna lasciarsi affascinare dal mito del progresso, come se la possibilità di realizzare una ricerca o mettere in opera una tecnica permettesse di qualificarle immediatamente come moralmente buone. La bontà morale si misura dal bene autentico che procura all’uomo considerato secondo la duplice dimensione corporale e spirituale”.


La Civiltà Cattolica


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