Il felicissimo lasciato del Card. Ruini

Prolusione del Cardinal Ruini al Forum su “La ragione, le scienze e il futuro delle civiltà” nell’ambito del Progetto Culturale della Conferenza Episcopale Italiana


Di seguito il testo della Prolusione svolta venerdì 2 marzo 2007 dal Cardinale Camillo Ruini, allora presidente della Conferenza Episcopale Italiana.

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Il compito assegnatomi è quello di introdurre l’argomento, in rapporto al Pontificato di Benedetto XVI. Poi i Proff. Coda, Boffi e Riccardi interverranno sui tre nuclei tematici indicati nel titolo di questo VIII Forum, che è il primo dopo il Convegno di Verona e il secondo dopo l’elezione dello stesso Benedetto XVI. Il quadro generale con il quale ci confronteremo è ben noto ed è stato già dibattuto tra noi, pur sotto titoli diversi. Perciò questa relazione introduttiva rischia di essere scontata, anzi sostanzialmente ripetitiva rispetto alla prolusione del Forum precedente. Più che sul quadro generale, mi soffermerò pertanto su alcuni punti di criticità, presupponendo evidentemente sia il Convegno di Verona sia il discorso del Papa a Regensburg.

1. Vorrei accennare anzitutto agli orientamenti e ai compiti emersi per il progetto culturale dal Convegno di Verona. Subito dopo aver proposto il fondamentale obiettivo di allargare gli spazi della nostra razionalità, e in concreto di riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene e di coniugare tra loro la teologia, la filosofia e le scienze, nel pieno rispetto dei loro metodi propri e della loro reciproca autonomia – come avventura affascinante nella quale merita spendersi per dare nuovo slancio alla cultura del nostro tempo e per restituire in essa alla fede cristiana piena cittadinanza –, Benedetto XVI ha affermato che il progetto culturale della Chiesa in Italia è “senza dubbio, a tal fine, un’intuizione felice e un contributo assai importante”. Sono parole molto impegnative e responsabilizzanti, che collocano il progetto culturale nel quadro del grande servizio che l’Italia è chiamata a rendere all’Europa e al mondo e che implicano una profonda continuità con le espressioni fondamentali del discorso di Giovanni Paolo II al Convegno di Loreto – citate dallo stesso Benedetto XVI all’inizio del discorso di Verona – sulla fiducia di poter operare affinché la fede in Gesù Cristo continui ad offrire, anche agli uomini e alle donne del nostro tempo, il senso e l’orientamento dell’esistenza ed abbia così un ruolo guida e un’efficacia trainante nel cammino della nazione verso il suo futuro.

Questo compito, “culturale” nel senso più specifico e più alto (del “fare cultura”, anzitutto al livello delle intuizioni e delle idee portanti), sta dentro al compito globale del “grande sì” che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza e che rappresenta il modello fondamentale dell’evangelizzazione e della pastorale proposto da Benedetto XVI, oltre che naturalmente dello stesso progetto culturale. Questo grande sì il Papa lo ha presentato e articolato come “forte unità tra una fede amica dell’intelligenza e una prassi di vita caratterizzata dall’amore reciproco e dall’attenzione premurosa ai poveri e ai sofferenti”, unità che, oggi come nei primi secoli, è la chiave dell’efficacia della missione cristiana nel mondo.

In concreto, il cammino del progetto culturale si collega strettamente alla “novità”, non soltanto metodologica, che il Convegno di Verona ha proposto, sia nella sua preparazione che nel suo svolgimento, e che consiste nell’articolazione in cinque ambiti di esercizio della testimonianza (la vita affettiva e la famiglia, il lavoro e la festa, l’educazione e la trasmissione della cultura, la povertà e la malattia, i doveri e le responsabilità della cittadinanza): ciascuno di questi ambiti è assai rilevante per l’esistenza umana e tutti confluiscono nell’unità della persona e della sua coscienza. Questa novità pertanto non solo “adatta” la pastorale all’attuale contesto socio-culturale, ma corrisponde all’indole profonda dell’esperienza cristiana, caratterizzata da un’attenzione primaria alla persona e alla sua concreta situazione di vita, con i rapporti, gli affetti, gli interessi, i problemi, le attese che la configurano. Si tratta di un approccio pastorale e “capillare” alla questione antropologica, considerata sul versante delle prassi di vita oggi diffuse.

Il progetto culturale ha parimenti molto a che fare con quella missionarietà dell’intero popolo di Dio, e in esso specificamente dei laici, su cui ho insistito nel concludere il Convegno di Verona, parlando di apostolato o diaconia delle coscienze, esercitati esplicitando le ragioni della propria fede e traducendo in comportamenti effettivi e visibili la propria coscienza cristianamente formata, così da tentare sempre di nuovo la saldatura tra fede e vita e da cercare di mantenere viva la caratteristica “popolare” del cattolicesimo italiano – assai valorizzata dal Papa –, senza ridurlo ad un “cristianesimo minimo”, secondo l’espressione usata a Verona da Don Franco Giulio Brambilla. Come processo in corso, o “cantiere aperto”, il progetto culturale ha ricevuto dunque da Verona un impulso di concretezza ma anche un più preciso orizzonte: dopo l’emergere della questione antropologica, il grande tema della verità, bellezza e “vivibilità” del cristianesimo, da pensare, vivere e proporre nelle condizioni di oggi e di domani, specialmente in rapporto alla ragione ed ai codici etici dell’Occidente neoilluminista, che tenta di universalizzare il suo secolarismo. Questo è il grande obiettivo della testimonianza e della missione cristiana nel Pontificato di Benedetto XVI.

2. Prima del Convegno di Verona c’era stato il discorso di Regensburg, con le successive polemiche sull’Islam e sui suoi rapporti con la ragione e con la violenza, oltre che con il cristianesimo. Molto meno si è discusso del vero tema di quel discorso, che è incentrato sull’affermazione che “non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio” e sfocia nel programma di allargare gli spazi della razionalità, proponendo così un dialogo, anzi un nuovo incontro della fede cristiana con la ragione del nostro tempo. Pochi giorni fa J. Habermas, ultimo dei grandi rappresentanti della scuola di Francoforte ed autorevole interlocutore dell’allora Cardinale Ratzinger nel dibattito avvenuto il 19 gennaio 2004 a Monaco di Baviera ed edito anche in italiano dalla Morcelliana, ha rilanciato (in un articolo pubblicato parzialmente su “Il Sole.24 Ore” del 18 febbraio con il titolo Alleati contro i disfattisti, che uscirà integralmente nel prossimo numero della rivista Teoria politica) la proposta di un’alleanza tra la ragione illuminata, ossia “la coscienza rischiarata della modernità” e “la coscienza teologica delle religioni mondiali”, al fine di “mobilitare la ragione moderna contro il disfattismo che le cova dentro” e che si manifesta “sia nella declinazione post moderna della «dialettica dell’illuminismo» sia nello scientismo positivistico”. Secondo Habermas, la ragione moderna può facilmente venire a capo di questo disfattismo sul piano strettamente teorico, ma, nella situazione concreta, non su quello della ragione pratica: essendo venuta meno la garanzia della filosofia della storia, essa comincia infatti a “dubitare della forza motivazionale delle sue buone ragioni”.

Qual’è però il tipo di alleanza che Habermas propone? Non “ambigui compromessi tra ciò che resta inconciliabile”, ossia tra la prospettiva antropocentrica della ragione moderna e quella derivante dal pensiero geocentrico e cosmocentrico. Se le due ragioni o coscienze vogliono davvero parlare l’una con l’altra (e non solo l’una dell’altra), le religioni devono riconoscere l’autorità della ragione “naturale” (le virgolette sono di Habermas), vale a dire i fallibili risultati delle scienze nonché i principi universalistici dell’egualitarismo giuridico, mentre la ragione secolare non deve impancarsi a giudice delle verità religiose, anche se resta vero che essa, “da ultimo, accetta per «ragionevole» soltanto ciò che si mostra traducibile nei suoi discorsi”, che devono essere, almeno idealmente, accessibili a tutti. In concreto si tratta di una ragione che la scienza moderna ha costretto a sbarazzarsi per sempre della metafisica, limitando la filosofia “alle sole competenze generali dei soggetti di conoscenza, linguaggio e azione”. E’ stata spezzata pertanto, secondo Habermas, la sintesi di fede e ragione costruita a partire da S. Agostino fino a S. Tommaso. La filosofia moderna ha saputo così appropriarsi criticamente dell’eredità del pensiero greco (cioè appunto anzitutto della metafisica), ma ha drasticamente respinto da sé il sapere giudaico-cristiano della salvezza, ossia la rivelazione e la religione. Non si tratta di incollare adesso questo strappo, ma di capire che la ragione secolare supererebbe l’attuale opacità del proprio rapporto con la religione se prendesse sul serio quell’origine comune di filosofia e religione che rinvia alla rivoluzione dell’immagine del mondo che accadde a metà del primo millennio avanti Cristo. Solo comprendendo entrambe le tradizioni che risalgono ad Atene e a Gerusalemme come facenti sostanzialmente parte della propria genesi storica, la ragione secolare potrà comprendere pienamente se stessa e i suoi figli (Habermas intende sia i credenti sia i non credenti) potranno accordarsi circa la loro identità e posizione nel mondo.

Su queste basi, nell’ultima parte del suo articolo, Habermas critica il discorso di Regensburg, con il quale Benedetto XVI avrebbe dato una piega sorprendentemente antimoderna al dibattito su ellenizzazione o deellenizzazione del cristianesimo, e in tal modo una risposta negativa alla domanda se i teologi cristiani debbano sforzarsi di venire a capo delle sfide suscitate da una ragione moderna e dunque postmetafisica. Richiamandosi alla sintesi di metafisica greca e fede biblica elaborata a partire da Agostino fino a Tommaso, Benedetto XVI negherebbe la bontà delle ragioni che hanno prodotto nell’Europa moderna una polarizzazione tra fede e sapere. Per quanto egli affermi di non voler “tornare dietro l’illuminismo e congedarsi dalle scienze moderne”, mostra tuttavia “di voler respingere la forza degli argomenti contro cui quella sintesi metafisica ha finito per infrangersi”. Habermas conclude che non gli sembra vantaggioso “mettere tra parentesi – escludendole dalla genealogia di una «ragione comune» di credenti, non credenti e altrimenti credenti – quelle tre spinte di deellenizzazione (cfr il discorso di Regensburg) che hanno contribuito a far nascere l’idea moderna della ragione secolare”.

3. Mi sono soffermato a lungo su questo intervento di Habermas perché esso ci permette di cogliere con precisione i veri nodi del dialogo-confronto-nuovo incontro tra fede cristiana e razionalità contemporanea, sui quali J. Ratzinger – Benedetto XVI si è cimentato da ultimo nel discorso di Regensburg ma fin dalla sua prolusione del 1959 all’Università di Bonn, dedicata al Dio della fede e al Dio dei filosofi, che sta finalmente per uscire in italiano presso la Marcianum Press, e poi attraverso tutto il suo lavoro teologico, da Introduzione al cristianesimo fino a Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo e a L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, ed ora nei suoi interventi come Pontefice.

E’ impossibile non rilevare nel discorso di Habermas un paio di “precomprensioni” abbastanza datate e oserei dire anacronistiche, che mostrano come anche un pensatore di alto livello e proteso alla ricerca di un’alleanza con il pensiero cristiano rimanga tuttora condizionato nel suo approccio ad esso. La prima è il ricondurre la fede e la teologia cristiana alle prospettive derivanti dal pensiero geocentrico e cosmocentrico. Basterebbe ricordare in proposito l’Enciclica Dives in misericordia, n.1, dove Giovanni Paolo II affermava invece che la prospettiva del cristianesimo è simultaneamente e inseparabilmente antropocentrica e teocentrica, formulando questa precisa diagnosi: “Mentre le varie correnti del pensiero umano nel passato e nel presente sono state e continuano ad essere propense a dividere e perfino a contrapporre il teocentrismo e l’antropocentrismo, la Chiesa invece, seguendo il Cristo, cerca di congiungerli nella storia dell’uomo in maniera organica e profonda. E questo è anche uno dei principi fondamentali, e forse il più importante, del Magistero dell’ultimo Concilio”.

La seconda precomprensione di Habermas sta nel ritenere che la sintesi tra metafisica greca e fede biblica sia stata elaborata a partire da Agostino per arrivare a Tommaso. Proprio nel discorso di Regensburg Benedetto XVI ci ha detto che con l’affermazione “In principio era il lógos” l’evangelista Giovanni “ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio”, nella quale “tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi”, e pertanto l’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco “non era un semplice caso”, ma aveva invece una sua “necessità intrinseca”. A Regensburg il Papa presenta con brevi parole le fasi di sviluppo di questo processo, a partire dall’“Io sono” con cui Dio si rivela a Mosè nel roveto ardente, ma ad illustrare e fondare tutto ciò J. Ratzinger ha dedicato a più riprese molte pagine, nei libri che ho già ricordato. In virtù di questa sintesi già il primo Concilio ecumenico, quello dell’anno 325 a Nicea, assai prima che Agostino nascesse, poteva affermare solennemente che il Figlio è “consustanziale” (omooúsios) al Padre, come professione di fede vincolante per tutti i credenti in Cristo. Ho formulato un piccolo riassunto di questi punti del lavoro teologico di J. Ratzinger – dando anche i riferimenti bibliografici – nella relazione che ho tenuto ai sacerdoti di Roma il 14 dicembre scorso e che sarà pubblicata a brevissimo termine presso le edizioni Cantagalli, in un libretto dal titolo Verità di Dio e verità dell’uomo.
Qui mi preme piuttosto chiarire un interrogativo, avanzato anzitutto in ambito cattolico, su come si concili l’affermazione secondo la quale “In principio era il lógos” è “la parola conclusiva del concetto biblico di Dio” con l’altra, posta a titolo dell’Enciclica di Benedetto XVI Deus caritas est, che Dio è agápe (1 Gv 4,8.16) e in concreto che “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (Deus caritas est, 1). Certo, si può e si deve anzitutto precisare che in Dio lógos e agápe, ragione-parola e amore, si identificano, ma J. Ratzinger – Benedetto XVI non si limita a questo. Per lui il legame intrinseco tra la fede biblica e l’interrogarsi greco è soltanto una metà del discorso: l’altra metà è costituita dalla novità radicale e dalla diversità profonda della rivelazione biblica rispetto alla razionalità greca, anzitutto riguardo al tema centrale della religione che è Dio. Il Dio della Bibbia supera infatti radicalmente ciò che i filosofi avevano pensato di Lui, non soltanto perché Egli, in quanto Creatore sommamente libero, è distinto dalla natura in un modo ben più decisivo di quel che poteva avvenire nella filosofia greca, ma soprattutto perché questo Dio non è una realtà a noi inaccessibile, che noi non possiamo incontrare e a cui sarebbe inutile rivolgersi nella preghiera, come ritenevano i filosofi. Al contrario, il Dio biblico ama l’uomo e per questo entra nella nostra storia, dà vita ad un’autentica storia d’amore con Israele, suo popolo, e poi, in Gesù Cristo, non solo dilata questa storia di amore e di salvezza all’intera umanità ma la conduce all’estremo, al punto cioè di “rivolgersi contro se stesso”, nella croce del proprio Figlio, per rialzare l’uomo e salvarlo, anzi per chiamarlo ad un’intima unione di amore con Lui. E’ questo il senso in cui il Dio biblico è agápe, amore che si dona gratuitamente, ed è anche eros, amore che vuole unire intimamente l’uomo a sé (cfr Deus caritas est, 9-15). Così la fede biblica riconcilia tra loro quelle due dimensioni della religione che prima erano separate l’una dall’altra, cioè il Dio eterno di cui parlavano i filosofi e il bisogno di salvezza che l’uomo porta dentro di sé e che le religioni pagane tentavano in qualche modo di soddisfare. Il Dio della fede cristiana è dunque sì il Dio della metafisica, ma è anche, e identicamente, il Dio della storia, il Dio cioè che entra nella storia e nel più intimo rapporto con noi. E’ questa, secondo J. Ratzinger, l’unica risposta adeguata alla questione del Dio della fede e del Dio dei filosofi.

4. Torniamo ora all’articolo di Habermas, per affrontare il punto centrale del suo dissenso dal discorso di Regensburg e più ampiamente dall’impostazione di fondo del pensiero e dell’insegnamento di Benedetto XVI. Habermas persegue con sincerità personale e intellettuale un’alleanza tra ragione secolarizzata e “illuminata” e ragione teologica, ma in realtà concepisce questa alleanza su basi nettamente diseguali. Infatti, mentre la ragione teologica dovrebbe accettare l’autorità della ragione secolare postmetafisica, quest’ultima, pur non impancandosi a giudice delle verità religiose, “da ultimo” accetta come “ragionevole” soltanto ciò che si mostra traducibile nei suoi discorsi, quindi, alla fine, non le stesse verità religiose nel loro principio trascendente (il Dio che si rivela) e nel loro contenuto sostanziale e decisivo. Nella stessa linea “Gerusalemme” è accolta come facente parte, accanto ad “Atene”, della genesi storica della ragione secolare, ma non come attualmente ragionevole. In ultima analisi Habermas non esce da quella “chiusura” su se stessa in cui J. Ratzinger vede il limite della ragione soltanto empirica e calcolatrice.

Ben diversamente aperta è invece la prospettiva dello stesso J. Ratzinger – Benedetto XVI. Egli infatti, a Regensburg e più ampiamente in altri testi che ho già richiamato, sostiene sì con decisione che all’origine dell’universo vi è il Lógos creatore, sulla base dell’esame delle strutture e dei presupposti della conoscenza scientifica, e in particolare della corrispondenza che non può non sussistere tra la matematica – che è una creazione della nostra intelligenza – e le strutture reali dell’universo (di tale corrispondenza penso ci parlerà il Prof. Boffi), dato che, se questa corrispondenza non ci fosse, le nostre previsioni matematiche e le nostre tecnologie non potrebbero funzionare: tale corrispondenza implica però che l’universo stesso sia strutturato in maniera razionale e pone la grande domanda se non debba esservi un’intelligenza originaria, fonte comune di questa realtà “razionale” e della nostra razionalità.

Anche con altre motivazioni J. Ratzinger mostra che la razionalità non può essere spiegata con l’irrazionale e che il soggetto umano non può essere ricondotto ad un oggetto né conosciuto adeguatamente attraverso i modi e i metodi con cui si conoscono gli oggetti. Egli è però pienamente consapevole non solo che questo genere di considerazioni e argomentazioni vanno al di là dell’ambito della conoscenza scientifica e si pongono al livello dell’indagine filosofica, ma anche che sullo stesso piano filosofico il Lógos creatore non è l’oggetto di una dimostrazione apodittica, ma rimane “l’ipotesi migliore”, un’ipotesi che esige da parte dell’uomo e della sua ragione “di rinunciare a una posizione di dominio e di rischiare quella dell’ascolto umile”. In concreto, specialmente nell’attuale clima culturale, l’uomo con le sue sole forze non riesce a fare completamente propria questa “ipotesi migliore”: egli rimane infatti prigioniero di una “strana penombra” e delle spinte a vivere secondo i propri interessi, prescindendo da Dio e dall’etica. Soltanto la rivelazione, l’iniziativa di Dio che in Cristo si manifesta all’uomo e lo chiama ad accostarsi a Lui, ci rende davvero capaci di superare questa penombra (cfr L’Europa di Benedetto, pp.59-60; 115-124).

Proprio la percezione di una tale “strana penombra” fa sì che l’atteggiamento più diffuso tra i non credenti oggi non sia propriamente l’ateismo – avvertito come qualcosa che supera i limiti della nostra ragione non meno della fede in Dio – ma l’agnosticismo, che sospende il giudizio riguardo a Dio in quanto razionalmente non conoscibile. La risposta che J. Ratzinger dà a questo problema ci riporta verso la realtà della vita: a suo giudizio infatti l’agnosticismo non è concretamente vivibile, è un programma non realizzabile per la vita umana. Il motivo è che la questione di Dio non è soltanto teorica ma eminentemente pratica, ha conseguenze cioè in tutti gli ambiti della vita. Nella pratica sono infatti costretto a scegliere tra due alternative, già individuate da Pascal: o vivere come se Dio non esistesse, oppure vivere come se Dio esistesse e fosse la realtà decisiva della mia esistenza. Ciò perché Dio, se esiste, non può essere un’appendice da togliere o aggiungere senza che nulla cambi, ma è invece l’origine, il senso e il fine dell’universo, e dell’uomo in esso. Se agisco secondo la prima alternativa adotto di fatto una posizione atea e non soltanto agnostica; se mi decido per la seconda alternativa adotto una posizione credente: la questione di Dio è dunque ineludibile (cfr L’Europa di Benedetto, pp. 103-114). È interessante notare la profonda analogia che esiste, sotto questo profilo, tra questione dell’uomo e questione di Dio: entrambe, per la loro somma importanza, vanno affrontate con tutto il rigore e l’impegno della nostra intelligenza, ma entrambe sono sempre anche questioni eminentemente pratiche, inevitabilmente connesse con le nostre concrete scelte di vita.

Proprio nel considerare la prospettiva credente come un’ipotesi, sia pure quella migliore, che come tale implica una libera opzione e non esclude la possibilità razionale di ipotesi diverse, J. Ratzinger – Benedetto XVI si mostra sostanzialmente più aperto di J. Habermas e della “ragione secolare” di cui Habermas si pone come interprete: essa accetta infatti come “ragionevole” soltanto ciò che si mostra traducibile nei suoi discorsi. In questa “assolutizzazione” della ragione secolare abbiamo in qualche modo il corrispettivo, a livello teoretico, di quella “dittatura” o assolutizzazione del relativismo che si verifica quanto la libertà individuale, per la quale tutto è finalmente relativo al soggetto, viene eretta a criterio ultimo al quale ogni altra posizione deve subordinarsi (vedi la mia prolusione al Forum del 2 dicembre 2005).

5. Aggiungo una riflessione personale, che può sembrare limitata ad un punto specifico, proprio del dibattito filosofico, ma che a mio giudizio è una chiave difficilmente preteribile per quel nuovo incontro tra la fede e la ragione del nostro tempo che è il grande obiettivo del Pontificato di Benedetto XVI e anche del progetto culturale a cui stiamo lavorando. Penso inoltre che tale riflessione ci permetta di chiarire ulteriormente il punto decisivo del discorso che intende risalire a Dio dall’intelligibilità dell’universo. Mi riferisco in concreto alla questione delle condizioni di possibilità della conoscenza scientifica, a cui Benedetto XVI sostanzialmente si rifà per riaprire il discorso razionale al Lógos creatore, ma che ben prima era stata al cuore della riflessione del pensatore forse più importante e decisivo per il percorso della modernità, I. Kant. Quest’ultimo infatti ha compiuto la sua “rivoluzione copernicana” – in virtù della quale non è la nostra conoscenza a doversi regolare sugli oggetti, ma al contrario gli oggetti sulla conoscenza, e pertanto la realtà in quanto tale non è conoscibile dalla “ragione pura” – proprio per assicurare le condizioni di possibilità non della sola matematica (geometria) ma anche della fisica (al suo tempo quella di Newton, ben diversa da quella di oggi: a mio avviso però queste differenze, per quanto grandi, non sono decisive per la questione che qui ci interessa): è questa la motivazione di fondo del cammino che Kant ha percorso dalla Dissertazione del 1770 alla Critica della ragion pura del 1781.

Personalmente ritengo che la riflessione sulle condizioni di possibilità del sapere scientifico rimanga anche oggi un compito fondamentale della filosofia (rimane molto interessante a questo proposito, anche se il baricentro della sua attenzione è in parte diverso, il libro Insight di B. Lonergan). Proprio a questo livello, però, va corretta sostanzialmente la scelta compiuta da Kant, nel senso e per la ragione di fondo, tanto semplice quanto solida, che ha indicato Benedetto XVI, riprendendo e riformulando una linea di pensiero spesso proposta nella critica alla Critica di Kant. Il nucleo di tale ragione è appunto la corrispondenza tra la matematica, creazione della nostra intelligenza, e le strutture reali del mondo fisico, corrispondenza che è continuamente verificata dai successi delle scienze e delle tecnologie e che implica una conoscibilità di fondo – per quanto imperfetta e sempre in progresso – del reale da parte della nostra intelligenza. Si rovescia così il punto centrale della posizione kantiana e si ripropone inevitabilmente – per il dinamismo stesso dell’intelligenza umana, che non si arresta davanti ad alcun problema aperto – la domanda sull’origine di tale corrispondenza e quindi sulla “ipotesi” dell’Intelligenza creatrice, ossia di Dio.

A questo punto sorge spontanea l’obiezione che in questo modo si ritorna a prima di Kant e tendenzialmente si rifiutano gli sviluppi della cultura degli ultimi due secoli. Personalmente ritengo che un tale ritorno e rifiuto non sia affatto connesso inevitabilmente alla contestazione di quel punto, per quanto centrale, del pensiero di Kant. Si tratta infatti di prendere pienamente sul serio la sua domanda di partenza sulle condizioni di possibilità delle scienze e di darvi una risposta diversa che – oltre a tener conto delle grandi trasformazioni intervenute nel frattempo nelle scienze stesse – non implichi una “rivoluzione” o rottura rispetto alla grande tradizione precedente, ma sia ugualmente capace di far propri gli sviluppi positivi della ragione moderna e postmoderna, non necessariamente riconducibili alla “rivoluzione” di Kant.

A mio modesto parere una simile risposta diversa potrebbe anzi rivelarsi più idonea a propiziare il cammino ulteriore che sta davanti a noi. In altri termini, penso valgano qui le parole pronunciate da Benedetto XVI a Verona sul “taglio coraggioso che diviene maturazione e risanamento”, che è tipico del rapportarsi della fede cristiana alle culture e alle forme di razionalità di tutte le diverse epoche e che non esclude affatto, ma al contrario garantisce e favorisce l’accoglienza e lo sviluppo dei loro valori autentici. Questo è, chiaramente, soltanto un postulato, o una speranza, che avrebbe bisogno di essere declinata e inverata nel concreto della cultura e della storia. Mi sembra però, come già dicevo, solido quel punto di partenza che J. Ratzinger – Benedetto XVI ha posto alla base di una tale speranza e dei percorsi che potrebbero scaturire da essa.


Fonte: http://www.chiesacattolica.it/pls/cci_new/bd_Edit_doc.edit_documento?p_id=12468