Verità negate sulla FIV

Dalla provetta alla culla, una corsa a ostacoli


La fecondazione artificiale in vitro (Fiv), come ogni procedimento scientifico, procede per ipotesi, tentativi, prove e riprove. I medici che la praticano utilizzano tabelle in cui segnano successi e insuccessi. Avviene esattamente come al buon Galilei, che faceva rotolare la pallina di ferro sul piano inclinato per capire cosa sarebbe successo…



di Francesco Gomez


La fecondazione artificiale in vitro (Fiv), come ogni procedimento scientifico, procede per ipotesi, tentativi, prove e riprove. I medici che la praticano utilizzano tabelle in cui segnano successi e insuccessi. Avviene esattamente come al buon Galilei, che faceva rotolare la pallina di ferro sul piano inclinato per capire cosa sarebbe successo.

L’unica differenza è che in questo caso l’uomo da fine dell’esperimento diviene mezzo: non è più l’uomo che sperimenta sulla natura, ma l’uomo che sperimenta su un altro uomo. Non è più solo la pallina che può ammaccarsi, ma l’embrione su cui si manipola, la donna sottoposta a trattamenti di cui non si conoscono gli effetti, l’eventuale nascituro, chiamato a essere terapia per il dolore di altri. È per questo che, dopo ben trent’anni, non vi sono ancora regole scientifiche nel vero senso della parola. Non esiste cioè la formula per “fare” artificialmente bambini, ma esistono mille modalità, più o meno soddisfacenti, più o meno innocue, più o meno originali; più o meno care, a seconda del prestigio e della bravura dei medici del centro in questione.


Per fare un esempio, basti pensare alla crioconservazione del seme, cioè il suo congelamento. Per gran parte dell’opinione pubblica si tratta di una questione semplicissima, banale: sappiamo crioconservare, bisogna stabilire soltanto se è morale o non lo è. Invece non è assolutamente così! Il seme congelato è soggetto a degrado biologico, tanto che «è meno attivo, sul piano della capacità di fertilizzazione, del seme normale» (Carlo Flamigni, «La procreazione assistita», il Mulino, 2002). Nessuno inoltre ne conosce la data di scadenza. Essa varia dai due anni della legge austriaca ai dieci di quella inglese. Occorre provare. Così un medico inglese ha ritenuto che fosse lecito inseminare una donna con seme congelato da ben 21 anni, per vedere se “funzionava”: solo tra un po’ di anni sapremo con quali risultati («la Repubblica», 25 maggio 2004).


Anche riguardo al congelamento degli ovociti si aprono mille perplessità. Alcune legislazioni lo vietano, dal momento che i più ritengono difficile scongelarli mantenendoli vivi e biologicamente integri. Ma non manca chi vi ricorre, specie in Italia, senza alcuna certezza. Un dispaccio Ansa del 13 settembre 2004 avverte della nascita di tredici bambini con questa tecnica (unico frutto da ben 737 ovociti congelati). Si dice anche che «gli esperti intendono continuare gli studi per assicurare che la complessa procedura non causi anormalità genetiche nei feti». A ciò si aggiunga che gli ovociti di cui si parla non sono quelli prodotti dalla donna naturalmente, ma vengono ottenuti con un bombardamento ormonale detto iperstimolazione ovarica: presentano quindi già in origine una rilevante presenza di alterazioni genetiche.
Possiamo fare un discorso simile anche per il congelamento degli embrioni: quanto resistono in quei terribili contenitori di ghiaccio? Nessuno lo sa con precisione: per gli svedesi un anno, per gli austriaci due, per gli inglesi massimo cinque, mentre in alcuni Stati non vi è alcun limite… L’unica cosa che si sa è che nella fase di scongelamento dal 30 al 50% degli embrioni muoiono, mentre altri rimangono danneggiati. Bisogna allora ricorrere a una manipolazione che rimuova «i blastomeri danneggiati ripristinando almeno parzialmente il precedente potenziale di sviluppo» (dal sito del centro di Fiv «Tecnobios»). Cosa nascerà da embrioni congelati, scongelati, e infine manipolati a quel modo? Ma anche: fino a che punto possono arrivare le manipolazioni? Sappiamo infatti che il dottor Carl Wood, il primo medico a far nascere un bambino da un embrione crioconservato, in Australia nel 1984, caldeggiava «la possibilità di influenzare geneticamente le caratteristiche psicofisiche dei neonati, eliminando ad esempio l’istinto maschile dell’aggressività mediante iniezioni di ormoni femminili negli embrioni maschili».


E ancora: quanti embrioni impiantare nell’utero di una donna? Anche qui le posizioni più diverse. Chi ne impianta tanti, per avere maggior possibilità di successo; chi uno solo, con meno probabilità di ottenere il figlio sperato, ma anche senza il rischio di parti multipli, pericolosi sia per la vita della madre che per la salute dei nascituri. In Italia, prima della legge 40, si potevano impiantare embrioni a piacere, causando anche parti di otto gemelli: molti, se non quasi tutti, andavano incontro alla morte, mentre per gli altri vi era il forte rischio di deficit fisici e/o mentali. Oggi se ne possono impiantare non più di tre, ma i radicali e i loro alleati vogliono alzare questo limite massimo. In Belgio e in Svezia invece i medici propendono per lo più per un solo embrione; in Russia «solo due al massimo tre» («la Repubblica», 22 maggio 2004); in Germania, per legge, non più di tre, benché l’Ordine dei medici consigli un massimo di due, «anche a discapito di una maggior possibilità di successo, onde prevenire i disagi sia di salute sia socio-psicologici che una gravidanza plurigemellare può creare al nascituro e alla famiglia» («Il Foglio», 2 febbraio 2005)…
Potremmo continuare interrogandoci sul medium di coltura della provetta: come è fatto? Quale è la formula che permette che esso sia in grado di ricreare per l’embrione l’ambiente naturale della tuba, così essenziale per un suo sano sviluppo? Anche qui nulla di certo. Scrive Carlo Flamigni, il “maestro” italiano della Fiv: «I terreni di coltura adatti all’incontro tra gameti, frutto, un tempo, delle sudate fatiche dei biologi all’interno dei singoli laboratori, si trovano oggi in commercio, con caratteristiche ogni anno in via di miglioramento» (op.cit., p.41). La rivista «Le Scienze», edizione italiana di «Scientific American», (settembre 2004), aggiunge: «La composizione del medium di coltura potrebbe non essere ancora perfetta e provocare un cambiamento nell’espressione dei geni».


Intanto si esperimenta: sulla durata del seme; sulla vitalità e la qualità degli ovociti e degli embrioni scongelati; sul numero di embrioni da impiantare… tutto sulla pelle delle donne e dei nascituri! Ma non finisce qui: vi sono una gran quantità di altre sperimentazioni. In America, ad esempio, si è tentata la fusione di due ovuli femminili per creare una sorta di superovulo (transfer citoplasmatico): sono stati “prodotti”, con questa modalità, ben 30 bambini, dopo di che tale modalità è stata vietata perché nociva («Le Scienze», cit.; «la Repubblica», 4 febbraio ’99). In Giappone e in Italia si è provato a portare a maturazione il seme maschile nei testicoli di topo: ora la pratica sembra abbandonata («Corriere della Sera», 3/2/’99).


Dopo questa introduzione si comprende facilmente come i rischi per i nati da fecondazione artificiale possano essere davvero notevoli. La stampa ha portato alla luce fatti sconvolgenti, come quello del bambino di Chiavari nato down, con due gravissime malformazioni al cuore e allo stomaco, dopo diagnosi pre-impianto e fecondazione artificiale («la Repubblica», 19 settembre 2004). Il già citato dottor Flamigni, entusiasta sostenitore della Fiv in tutte le sue forme, ammette: «Resta il dubbio relativo alla possibile comparsa di una anomalia tardiva – e pensiamo soprattutto a malattie di tipo degenerativo, riguardanti il sistema nervoso e i muscoli –, dubbio che riguarda anche i nati da Fivet, il più vecchio dei quali non ha ancora compiuto 24 anni… Solo il tempo potrà chiarire (certamente non a me, che ho già 68 anni) questo mistero». E aggiunge: «Alcune di queste tecniche potrebbero essere causa di malconformazioni nei bambini con vari meccanismi: cito, ad esempio, la fecondazione da parte di spermatozoi atipici, gli effetti citotossici e teratogeni di alcuni reagenti e di varie manipolazioni. Sembra dunque giustificato il timore di un aumento delle malconformazioni fetali» (op.cit., pp.54 e 74).


Persino il segretario dei Radicali, Daniele Capezzone, in una intervista, si è lasciato sfuggire qualcosa, pur con la solita ambiguità: «Pensiamo all’obbligo di impianto dei tre embrioni stabilito a prescindere dall’età della donna, con rischio di parti gemellari e possibilità maggiori di produrre handicap nei nati» («Il Foglio», 23 settembre 2004). Capezzone, cioè, sostiene che il rischio handicap sarebbe imputabile all’impianto di più di un embrione, in questo caso di tre: ma, come si è già detto, è proprio lui col suo partito a voler alzare ancora questo tetto massimo, già di per sé inaccettabile invece, non solo per un cattolico, facendo così aumentare la percentuale di rischio!


Nel nostro Paese in realtà non esistono studi attendibili sulla vera consistenza dei rischi in cui incorrono i bambini concepiti artificialmente. Non così in alcuni Paesi esteri: la ginecologa Patrizia Vergani afferma che dal 2002 al 2004 ben 19 articoli, di cui tre su «Lancet» e 2 sul «New England Journal of Medicine», hanno segnalato la pericolosità della Fiv. L’autorevolissima rivista «Lancet» per esempio suggerisce che «i bambini nati con Icsi potrebbero soffrire di ritardi nello sviluppo» («Panorama», 26 luglio 2001); sottolinea inoltre l’alta percentuale di paresi cerebrali, ritardo mentale, disturbi del comportamento nei nati da Fiv (Stromberg B. et al., «Neurological sequelae in children born after in-vitro fertilisation: a population-based study», «Lancet» 2002; 359:461-5).


Per fare un altro esempio Emily Niemitz, della John Hopkins University of Medicine di Baltimora, e Michael De Baun, della Washington University School of Medicine di St. Louis, hanno esaminato un archivio contenente i dati clinici di pazienti affetti dalla sindrome di Beckwith-Wiedemann (Bws), una malattia dovuta all’iper-accrescimento di vari tessuti, associata a sordità, lieve ritardo mentale e tendenza allo sviluppo di tumori. I risultati hanno indicato che la sindrome era sei volte più probabile nei bambini nati con la Fiv (fonte: www.Italiasalute.it). In Australia invece sono stati analizzati da alcune ricercatrici più di 1.000 bambini concepiti artificialmente, «scoprendo che circa il nove per cento di essi soffriva di almeno una malformazione congenita grave rilevabile a un anno di età, a confronto con un 4,5 per cento tra i bambini concepiti naturalmente… Altri autori hanno rilevato nei nati con fecondazione assistita una prevalenza statisticamente significativa di difetti del tubo neurale, di atresia dell’esofago, e di malformazioni cardiache» («Le Scienze», op. cit.).


L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma mi limito a rimandare all’ottimo libretto di Giorgio Maria Carbone, «La fecondazione extracorporea» (Esd, 5 euro). È bene però concludere lasciando la parola ad altri esperti del settore, e cioè a quanto scritto nei consensi informati di due centri di fecondazione artificiale italiani. Ebbene il consenso informato del centro Sismer di Bologna, uno dei più famosi in Italia, afferma al punto 12: «Qualora si instauri una gravidanza trigemellare (nel 7% dei casi, ndr) esiste un aumentato rischio che ciascuno dei gemelli abbia deficit fisici e/o mentali». E al punto 14: «Non esistono attualmente tecniche che possano assicurare che l’embrione trasferito o da trasferire non sia affetto da patologie infettive, congenite o geniche». Il consenso di «Restoincinta» invece recita così: «(nel caso di Icsi) esiste un probabile aumento di rischio di anomalie genetiche… Esiste una probabilità di trasmettere alla prole di sesso maschile una condizione clinica (sterilità) identica o simile a quella del padre». E in conclusione si afferma: «In caso di gravidanza ottenuta con qualsiasi metodo è consigliabile amniocentesi o villocentesi». Quest’ultima frase, benché sibillina, appare di straordinaria gravità. Amniocentesi e villocentesi infatti sono esami invasivi, non senza una certa pericolosità per il feto, che vengono suggeriti non a tutte le mamme ma solo a quelle con possibilità di malattie genetiche ereditarie, o a quelle al di sopra dei 35 anni, la cui prole è a maggior rischio di handicap. Il fine? Consigliare l’aborto in casi di malformazione. Ma allora perché proporre detti esami a tutte le mamme trattate con Fiv, senza eccezioni, anche qualora non vi siano i tradizionali requisiti, se non perché si è consapevoli che il rischio di malformazioni è più alto che nella fecondazione naturale? In questo modo si potrà sempre dire: è venuto male, signora, ma basta eliminarlo!


Avvenire 21 febbraio 2005