Una guerra che esige compattezza

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SCENARI. L’OCCIDENTE DIFRONTE ALL’AGGRESSIONE TERRORISTICA


Alfredo Mantovano


POLITICA Anno I, n. 1 15 novembre 2004. Supplemento al n. 5 di Percorsi.

Prevenire e contrastare il terrorismo di matrice islamica non dipende in modo esclusivo dall’efficienza dei servizi e delle forze di polizia, che pure è importantissima. Dipende, anche e soprattutto, dalla tenuta delle popolazioni interessate dalle “attenzioni” dei terroristi, e dalla tenuta della politica nel suo insieme, e in particolare di chi è chiamato alle scelte più impegnative. La resistenza e la controffensiva psicologica sono precondizioni indispensabili per il successo degli eserciti e delle forze dell’ordine. Per questo va sgomberato il terreno da un insieme di luoghi comuni che continuano ad aleggiare in ambienti non soltanto “di sinistra estrema” e che condizionano negativamente quella tenuta; provo a farne una rapida rassegna.



Luogo comune n. 1: “col governo Berlusconi l’Italia non è più amica degli arabi” – Questo assioma parte da un presupposto errato: quello secondo cui l’effettiva tolleranza che negli anni 1970 e 1980 i vertici istituzionali italiani assicurarono a personaggi che si muovevano nell’area del terrorismo, soprattutto palestinese, avrebbe tutelato la Penisola da attentati. Scorrendo l’elenco degli episodi di terrorismo accaduti in quegli anni, rimasti senza che sia mai stato accertato giudizialmente un responsabile e un movente, è lecito nutrire dubbi sul rispetto effettivo della polizza concordata. Ma le considerazioni più importanti sono altre: e riguardano il carattere globale che oggi ha l’aggressione terroristica, tale da esigere una solidarietà nella risposta, al di fuori di valutazioni di convenienza. Di più; nel 1970 il terrorismo aveva sì una matrice araba, ma essa era in prevalenza laico-nazionalista e non fondamentalista: il che poteva far ritenere utile, pur se era moralmente censurabile, i tentativi di accordo con il capo banda di turno. La configurazione attuale del terrorismo vede dominare la componente religiosa: non cogliere questo aspetto, ipotizzare soggettive deviazioni da parte di una religiosità altrimenti moderata significa condannarsi all’incomprensione. E, come nell’Islam manca una struttura gerarchica – non vi è un Pontefice chiamato a dire la parola risolutiva, e nessuno può arrogarsi il diritto di definire chi è dentro e chi è fuori dall’ortodossia –, così le aggregazioni terroristiche che si richiamano all’Islam non appartengono sempre e necessariamente a una o più strutture centralizzate, bensì costituiscono un network di cellule ciascuna delle quali ha autonomia operativa. Dunque, il tentativo di combine con chi si presenta come il capo di taluna di esse non fornisce alcuna garanzia in termini di tranquillità. Il che non vuol dire che questa o quella struttura non possano raggiungere fra di loro un raccordo operativo per realizzare azioni coordinate e contestuali. Significa che nessuno può ritenersi tutelato: la Francia, che si è più volte palesemente dissociata dall’intervento in Iraq e che più di altri Paesi ha sostenuto Arafat, direttamente e tramite l’UE, si è poi ritrovata con due suoi cittadini sequestrati e con la richiesta – per ottenerne il rilascio – di revocare una legge approvata dal proprio Parlamento; e questo nonostante Hamas, Moqtada al Sadr, Jihad islamico, Hezbollah e perfino Carlos, dalla sua cella avessero, subito dopo il fatto, chiesto all’Esercito islamico in Iraq, autore del sequestro, di tornare sui propri passi.



Luogo comune n. 2: “c’è il terrorismo perché c’è la miseria” – La miseria, a sua volta, nasce dalla oppressione che l’Occidente, e in particolare gli USA, esercitano sui popoli del Terzo e del Quarto mondo. In quest’ottica, l’opzione militare è sbagliata, o nella migliore delle ipotesi è insufficiente. In realtà, il comune denominatore di chi ha seminato e semina morte e terrore a Bagdad, a Gerusalemme, ad Ankara, a Casablanca, a Bali, a Beslan, a New York, a Madrid… è l’appartenenza all’ultrafondamentalismo islamico; il profilo medio degli attentatori dell’11 settembre non è quello di disperati privi di tutto, bensì di persone provenienti dal ceto medio, istruite, in taluni casi benestanti. E il terrorismo di matrice islamica gode di sostegni economici consistenti, in network finanziari che affiancano e riforniscono le cellule attentatrici. Gli shaid di Hamas non reagiscono a condizioni di sfruttamento o di miseria, non contrattano il loro sacrificio in cambio di denaro da corrispondere ai familiari che restano in vita: obbediscono a quello che sono convinti (o sono stati convinti) essere il percorso privilegiato per giungere alla presenza di Allah. I loro genitori – è un dato terribile, e al tempo stesso significativo – danno il consenso al suicidio: è una delle condizioni perché il candidato al “martirio” sia selezionato; quale povertà può mai spingere un padre o una madre a gioire pubblicamente perché il proprio ragazzo si è fatto esplodere? Eppure interviste contenenti queste affermazioni sono trasmesse con frequenza dalla rete televisiva dell’Autorità nazionale palestinese.



Luogo comune n. 3: lo scontro di civiltà – Si dice che la guerra al terrorismo è stata impostata da chi l’ha messa in opera come un inammissibile scontro di civiltà. Ma la realtà del conflitto si propone anzitutto all’interno del mondo islamico, pur se con riflessi pesanti sugli scenari americano ed europeo. Quale è allora la ragione degli attentati contro obiettivi presenti in Europa o negli USA? È quella di indurre singoli Stati occidentali a indebolire il legame con quel mondo islamico conservatore con il quale si è alleati o con il quale si possono consolidare legami di amicizia: si colpisce Madrid perché attenui il suo rapporto con il Governo del Marocco, poco rigoroso nell’applicazione della shari’a e poco disponibile al progetto di ricomposizione della ‘umma; si punta all’Italia, minacciando attentati sul suo territorio e realizzandoli contro il contingente militare a Nassirija, perché si allontani dall’Iraq Una volta che il sostegno occidentale venisse meno, sarebbe più agevole vincere le resistenze infraislamiche alla ricostituzione del califfato. Senza trascurare che gli attentati più devastanti riguardano contesti a maggioranza musulmana, contesti arabi o orientali, a cominciare dalla Turchia, che, nella prospettiva ultrafondamentalista, è l’esempio negativo per eccellenza: un governo islamico democraticamente eletto e alleato dell’Occidente; per arrivare, passando per Algeria, Marocco, Egitto, fino a quell’Arabia i cui governanti wahabiti sembravano vicini agli ultrafondamentalisti, e da qualche mese cominciano a patire attacchi e a organizzare una reazione.



Luogo comune n. 4: la guerra al terrorismo è fallita – La rassegna dei luoghi comuni non può, infine, ignorare il più diffuso: quello secondo cui nei tre anni seguenti all’11 settembre l’opzione delle armi, la risposta militare e di polizia, non ha conseguito alcun risultato, e anzi ha provocato risentimenti e ha fatto crescere gli odi, culminati con l’intervento in Iraq. Anche questa affermazione non è accompagnata da elementi oggettivi che la sostengano; il confronto fra la situazione esistente nel 2001 e quella attuale permette di affermare che dei passi in avanti sono stati compiuti, e di importanza non marginale. “All’inizio del 2001 gli ultra–fondamentalisti consideravano veramente islamici solo due Stati: il Sudan e l’Afghanistan, con qualche dubbio sull’Iran (…). Controllavano di fatto zone dell’Algeria e del Pakistan. Godevano inoltre di un certo sostegno di “Stati canaglia”(…): la Libia, la Siria, l’Irak. Dopo l’11 settembre la situazione è cambiata. In Afghanistan c’è un governo islamico conservatore amico dell’Occidente. In Sudan il governo militare ha rotto con i fondamentalisti e riallacciato i rapporti con Stati Uniti. In Irak la situazione è quella che è, ma Saddam Hussein non c’è più e i terroristi feriti altrove non possono più farsi curare (come facevano fino al 2002) negli ospedali di Bagdad. La Libia ha fiutato l’aria e cambiato bandiera in modo spettacolare. (…) In Algeria i terroristi controllano solo non più di tre o quattro oasi, e in Pakistan le remote vallate dove si nascondevano i capi di Al Qaida sono circondate (…) da ingenti forze americane. Non c’è un solo Stato dove gli ultra-fondamentalisti siano più vicini al potere di quanto lo fossero nel 2001. (…) il terrorismo sta perdendo, in tutto il mondo islamico” (Massimo Introvigne, Ultrà islamici all’angolo, “Il Giornale, 29/04/2004).


A proposito dell’Afghanistan, si commenta da sé la circostanza che per la prima volta ha visto svolgere sul proprio territorio libere elezioni, valutate regolari dagli osservatori di vari organismi internazionali. Se talora gli attentanti sembrano rispondere a vere e proprie campagne terroristiche, coordinate e collegate a eventi politici di grande rilievo mediatico, ciò accade per demoralizzare gli occidentali, per convincerli a non combattere e ad allentare la presa, per farli battere in ritirata. Per concludere. Proprio alla luce dei risultati ottenuti, e nella consapevolezza che l’aggressione del terrorismo islamico durerà, e durerà parecchio, è indispensabile affiancare alla corretta comprensione del fenomeno la coscienza che questa guerra, come e più di ogni guerra, ha dei costi ed esige compattezza. Tanto per cominciare, non può e non deve derogare dalla regola, ovvia nella enunciazione, meno ovvia nell’applicazione, che il terrorismo si combatte individuando, arrestando, processando e condannando i terroristi; andandoli a cercare, come è stato fatto in Afghanistan, nelle loro basi di addestramento e di indottrinamento; bloccando le loro fonti di finanziamento; scoraggiando qualsiasi appoggio istituzionale, anche indiretto. Quando – lo ha fatto di recente il presidente del Senato Marcello Pera – si parla di unità della comunità internazionale, simile a quella che ha riguardato singoli Paesi interessati in passato da altri fenomeni terroristici, come avvenne in Italia all’epoca delle Brigate rosse, si dice qualcosa di profondamente giusto. Unità vuol dire che ogni singolo Stato deve considerarsi direttamente interessato da un attentato, o da un rapimento,che riguardi cittadini di un altro Stato, e deve prestare ogni possibile collaborazione per prevenirlo o, una volta accaduto, per scoprire i responsabili.



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