Terra Santa: donne cristiane indotte a sposare uomini musulmani

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GERUSALEMME, sabato, 18 dicembre 2004 (ZENIT.orgVeritas).- Riportiamo di seguito una traduzione dell’articolo di Padre Artemio Vítores, OFM, Vicario della Custodia dei Luoghi Santi, pubblicato dall’agenzia “Veritas”, sui casi di “donne cristiane che si sposano con musulmani: un’altra conseguenza della situazione dei cristiani in Terra Santa”. Domenica 2 febbraio 2003, alla festa della Presentazione di Gesù al Tempio, o festa della Candelora, i fedeli affollavano la parrocchia latina di Gerusalemme. C’erano anche i frati del convento. Dopo l’omelia, il parroco ha portato una candela accesa dall’altare fino al fondo della chiesa, dove si trovava una donna di circa trent’anni. I due, con le candele, hanno iniziato una processione verso l’altare. Lì il parroco le ha dato un bacio di pace e la donna si è seduta al primo banco della chiesa. Abbiamo assistito ad una riammissione nella Chiesa di una “pubblica peccatrice”. A tutti noi, ben sapendo di chi si trattava, ci è venuto un nodo alla gola.

Che peccato aveva commesso quella donna? Lei nubile, era andata con un uomo, lui sposato. Entrambi cattolici di Gerusalemme. Non esistendo il matrimonio civile – e questo vale sia per la Chiesa cattolica come per la religione ebraica o islamica -, decisero di farsi musulmani per potersi unire in matrimonio. La cerimonia è molto semplice: si va alla casa di uno sheih (chierico musulmano), che presiede il tribunale islamico. Lì si recita la formula shahada (testimonianza), o “professione di fede”, alla presenza di due testimoni che a loro volta recitano la formula shahada, e si convertono in musulmani.

L’unione si era rotta e lei aveva deciso di tornare alla sua fede cristiana. Dopo un anno di “prova” era stata riammessa alla Chiesa, poiché chi lascia la Chiesa cattolica e si fa ad esempio musulmano, è un apostata della fede ed è scomunicato. Potrà poi essere assolto da questa scomunica, dall’Ordinario del luogo, secondo il Codice di Diritto canonico (c. 1355, co. 2). Lei stessa aveva voluto che, poiché il suo allontanamento era stato pubblico, anche il suo ritorno alla fede fosse visibile per tutta la comunità. L’uomo intanto continua ad essere musulmano.

Immagino la reazione dei molti lettori occidentali di fronte a questa scena che sembra tratta dalle notti più buie del Medioevo. Suppongo che nelle nostre nazioni cristiane, dove prevale un forte laicismo o persino una falsa concezione della libertà religiosa, questo fatto non avrà molta importanza. Ma sì lo ha per una comunità, come quella cristiana in Terra Santa, che si trova vicino all’estinzione.

Anche se la conversione all’Islam di questi due cristiani era stata piuttosto “interessata” per entrambi ed abbia avuto un lieto fine, visto che la donna è tornata alla fede cristiana e i due figli, frutto di questa unione, sono stati battezzati, non si tratta di un caso isolato, che può essere più o meno curioso. Questa è invece la situazione nella quale si trovano o si possono trovare molte donne cristiane in Medio Oriente, e specialmente in Terra Santa.

Il matrimonio è un ideale e una liberazione per le donne del Medio Oriente

Che il matrimonio sia un ideale e una realizzazione per la maggior parte delle donne – e degli uomini -, non è cosa nuova, anche se oggi vi sono molte donne, specialmente nei Paesi occidentali, che preferiscono vivere sole o convivere senza unirsi in matrimonio. Tuttavia, la cultura e l’influenza religiosa del Medio Oriente portano la donna a considerare il matrimonio come unica via per affrontare il futuro. Le donne vogliono sposarsi e sposarsi ad ogni costo.

Le donne si vogliono sposare perché il matrimonio è il più grande ideale per la donna. In Medio Oriente, a prescindere dal suo carattere cristiano, musulmano o ebreo, continua a prevalere l’ideale biblico, come appare nel libro della Genesi: “Crescete e moltiplicatevi”. La sessualità feconda è un dono di Dio e ad essa è intimamente legata la storia della salvezza, come appare evidente nel caso di Abramo.

Per l’ebraismo il celibato era considerato, nei tempi antici, come un ostacolo alla santità, e la verginità, il celibato o la sterilità significavano ignominia. Il bene più grande della donna israelita era di essere madre, poiché in tale condizione godeva non solo di grande considerazione, ma anche della stessa autorità del padre: “Onora il padre e la madre…”.

E anche oggi, sia per gli ebrei che per i musulmani e anche per i cristiani, i figli non sono solo un appoggio per i genitori, ma anche una condizione imprescindibile per il rafforzamento della religione. Quando nasce un figlio musulmano si suole dire: “Un credente in più della fede islamica”. Considerato tutto ciò, si capisce il significato di un antico proverbio di quella religione: “O il matrimonio o la tomba!”.

Le donne vogliono sposarsi ad ogni costo perché il matrimonio rappresenta la liberazione per la donna. Solo così possono lasciare la servitù della casa paterna, per potersi dedicare a curare la propria casa. Il ruolo della donna nella casa materna è molto debole; è sempre condizionato non solo dai genitori, ma anche dai fratelli e da altri membri della famiglia.

Specialmente se la donna non lavora, la sua condizione è molto difficile, poiché, specialmente nei territori dell’Autorità palestinese, non sono previste pensioni, o altri tipi di sussidi. Il matrimonio è un’emancipazione e una realizzazione per qualunque donna. E ciò vale anche per le donne cristiane.

Magari poi non la ottengono, come avviene per il diritto matrimoniale ebraico, dominato dal principio patriarcale, e in cui di fatto, la donna, con il fidanzamento si sottrae al potere del padre per passare sotto quello del marito, al quale essa deve fedeltà assoluta.

La situazione delle donne religiose ebree può essere riassunta nella preghiera che la donna e l’uomo recitano ogni mattino. Secondo Tosefta Berakoth, 7,18, la donna dice umilmente: “Ti benedico Signore perché mi hai fatto secondo la tua volontà”; questa preghiera, trasmessa dal Rabbino Jehuda, che si trova negli attuali libri di preghiere, si contrappone a quella che il pio ebreo recita ogni mattina: “Ti benedico Signore perché non mi hai fatto né donna, né pagano, né schiavo”. E questo è ciò che avviene, talvolta, quando una donna cristiana si sposa con un musulmano.

La legge islamica e il matrimonio tra un musulmano e una donna cristiana

Secondo la tradizione islamica (Hadit), è proibito per un cristiano sposarsi con una donna musulmana se lui non si converte all’Islam. Di fatto questo caso è assai raro e avviene solo nelle famiglie più liberali e non condizionate dalla religione. La famiglia in questo caso non rappresenta un ostacolo. Per una donna musulmana, secondo la giurisprudenza islamica accettata dalla Comunità musulmana, è assolutamente proibito sposarsi con un uomo di altra religione, poiché si apre al rischio di abbracciare la religione del marito.

Qualora lo facesse, le conseguenze potrebbero essere molto gravi, e potrebbero arrivare persino alla morte, procurata dai propri familiari o da fanatici o anche dalle autorità dello Stato, qualora questo avesse come legge fondamentale la Sharia, considerata dai musulmani come una legge divina. In Israele questa soluzione così radicale non esiste, almeno per ora, visto che l’Autorità palestinese non ha il potere sufficiente per imporre la legge islamica.

Ma potrebbe essere possibile in un futuro prossimo, o almeno così si deduce dalla bozza della futura Costituzione palestinese che contempla la legge islamica o Sharia come legge fondamentale dello Stato, nonché da molte dichiarazione dei capi religiosi e politici musulmani. Per questo le autorità religiose cristiane vedono con apprensione questo testo fondamentale del futuro Stato palestinese.

Il caso è diverso quando è un uomo musulmano a sposare una cristiana. Il Corano pone come principale impedimento per il matrimonio la disparità di religione e vieta ai musulmani di sposarsi con donne infedeli o pagane. Un versetto dell’inizio della “rivelazione medinese” dice: “Non sposate le [donne] associatrici [infedeli, pagane] finché non avranno creduto, perché certamente una schiava credente è meglio di una associatrice, anche se questa vi piace” (Sura II, v. 221).

Consente, tuttavia, di sposarsi con “le donne del Libro” (ebree o cristiane). Dice infatti un’altra Sura: “[Vi sono inoltre lecite] le donne credenti e caste, le donne caste di quelli cui fu data la Scrittura prima di voi” (Sura V, v. 5). La tradizione musulmana va anche oltre, considerando lodevole che un musulmano si sposi con una cristiana. E la ragione è facile da intuire: l’uomo otterrà, con le buone o con le cattive, che la donna si converta all’Islam, guadagnando con ciò meriti di fronte a Dio.

In teoria la donna cristiana non è obbligata ad abbracciare l’Islam, ma sarebbe troppa la pressione che dovrebbe sopportare da parte della famiglia e dall’ambiente, che sarebbe molto difficile poter continuare ad essere cristiana. In ogni caso, i figli nati da quel matrimonio sarebbero sempre musulmani, a prescindere dal fatto che il Codice di Diritto canonico insiste sulla necessità che i figli nati da questi matrimonio – che sono validi per la Chiesa – siano educati alla fede cattolica (cc. 1125-1229).

Vi è anche un altro problema importante che va contro la donna ed in particolare contro la donna cristiana: è il divorzio e il ripudio. Sia nella società ebraica che in quella musulmana – la legislazione è molto simile -, esiste il divorzio, che viene concesso dai tribunali religiosi. In entrambe le religioni, solo l’uomo può chiedere il divorzio; alla donna non è permesso farlo, e ancor meno se questa è cristiana.

A questo si aggiungono motivi economici che indurranno la donna cristiana ad abbracciare la fede musulmana. Secondo la legge islamica, un cristiano, ad esempio, non può ereditare da un musulmano e, in caso di divorzio o di ripudio, il musulmano non è obbligato a pagare gli alimenti (nafaqua) a una donna non musulmana. Alla donna cristiana rimangono quindi poche alternative!

Quando non esiste la libertà religiosa

La vita di un cristiano in Terra Santa non è mai stata facile e sicuramente non lo sarà mai. Egli è costretto a vivere in un ambiente sociale, politico e religioso che lo condiziona. Una delle difficoltà maggiori è la mancanza di libertà religiosa, nel senso che viene negato il diritto di ogni uomo “a venerare Dio, secondo i dettami della propria coscienza, di professare la religione in pubblico e in privato e di godere della dovuta libertà religiosa”, per poter scegliere liberamente di abbracciare una determinata religione.

Tutti i Paesi di quell’area limitano radicalmente questo diritto riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (art. 18), o semplicemente lo negano ad alcuni cittadini. Esiste, è vero, in quasi tutti i Paesi la libertà di culto, ovvero la facoltà di praticare la fede cristiana a casa o in chiesa. Ma di fatto i cristiani sono tollerati ( dhimmi: “protetti”), in maggiore o minore misura, a seconda del capriccio o della politica del momento.

Sono cittadini di seconda classe nel proprio Paese, poiché, specialmente nei Paesi musulmani ove vige la Sharia come legge fondamentale dello Stato, la tendenza è quella di imporre la propria legge religiosa anche alle altre comunità, con tutte le conseguenze che ciò comporta per la vita quotidiana. Cosicché vedono restringersi i propri diritti, soprattutto nell’ambito dell’istruzione superiore, del lavoro, dell’amministrazione pubblica e locale.

In Terra Santa vi è inoltre un problema aggiuntivo per i cristiani: chiusi tra due grandi gruppi, quello giudaico e quello islamico, che uniscono strettamente la religione allo Stato, i cristiani si trovano a dover accettare un modello di società e di vita che non gli è proprio: si sentono come corpi estranei in questo mondo mediorientale.

Questa situazione genera a volte tensioni tra musulmani e cristiani, che arriva a insulti, minacce e vessazioni. Inoltre i musulmani – e questo è molto grave – vedono i cristiani come complici del sionismo e soprattutto li identificano con la politica dei Paesi cristiani, specialmente gli Stati Uniti. Si comprendono quindi le difficoltà con le quali un cristiano che non vuole farsi musulmano deve convivere, spinto talvolta fino a desiderare di lasciare tutto e cercare nuovi orizzonti.

Per quanto riguarda le conversioni, è vietato dalla legislazione islamica per un musulmano farsi cristiano e le sanzioni, in caso di conversione al Cristianesimo, possono arrivare fino alla morte. Questa legislazione, invece, concede al cristiano ogni possibilità per convertirsi all’Islam. Cosa che rappresenta una discriminazione inammissibile. Lo stesso avviene in Israele, dove, dal 1977, esiste una legge che vieta il “proselitismo religioso”, sanzionando la conversione degli ebrei al Cristianesimo, ottenuta con mezzi aggressivi o per mezzo di vantaggi materiali. Questa legge non ha mai trovato applicazione per mancanza di trasgressori.

La libertà religiosa è la cartina di tornasole di una vera democrazia. Per questo, nell’ “Accordo Fondamentale” tra la Santa Sede e lo Stato di Israele, del 30 dicembre 1993, all’articolo 1, comma 1, si legge: “Lo Stato d’Israele […] afferma il proprio permanente impegno a sostenere e osservare il diritto umano alla libertà di religione e di coscienza, nei termini in cui è definito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e negli altri atti internazionali cui aderisce”.

All’articolo 1, comma 2, la Santa Sede aderisce al medesimo impegno. L’Autorità nazionale palestinese e la Santa Sede, nell’Accordo firmato il 15 febbraio del 2000, promettono di garantire questo diritto. Il rispetto della “libertà di coscienza” individuale, la quale sebbene possa non essere sempre bene esercitata, può pur sempre essere autenticamente sincera, è la base fondamentale della libertà religiosa. E questo rispetto non esiste nell’Islam. La libertà religiosa, diceva Giovanni Paolo II, “è il cuore dei diritti umani”, se questa non esiste, non esisteranno gli altri diritti. L’inviolabilità di questo diritto è talmente forte – afferma il Papa – che “esige il riconoscimento persino della libertà della persona di cambiare religione, ove la sua coscienza lo richieda”.

Perché una donna cristiana si sposerebbe con un musulmano?

È una domanda che si dovrebbero porre anche gli uomini e le donne dei nostri Paesi occidentali, dove la presenza di tanti immigrati musulmani può essere occasione per una donna di incontrare e di innamorarsi di un uomo musulmano e di volerlo sposare. Di fatto conosciamo molte donne spagnole e di altre nazioni, sposate con musulmani e che vivono in Terra Santa o in altri Paesi del Medio Oriente. In Occidente il contesto è diverso, esiste il matrimonio civile, il divorzio e la cultura consente di godere di una maggiore libertà. Ma soprattutto non si conosce bene la situazione nella quale si troverà la futura sposa, qualora andasse a vivere in un Paese musulmano.

Ma una donna cristiana di Betlemme o di Gerusalemme, che conosce bene cosa significhi sposarsi con un musulmano, perché lo fa? Le ragioni possono essere molto varie.

In primo luogo – e non è una novità – per amore. In una società aperta, come quella israeliana, le diverse comunità religiose non sono più separate tra loro come erano prima. È normale allora che, specialmente all’università, ragazzi e ragazze di diverse religioni entrino in rapporto tra loro, si innamorino e vogliano affrontare un futuro insieme uniti in matrimonio. In questi casi sarà molto difficile convincere la donna del fatto che la sua decisione potrà avere determinate conseguenze. Riterrà che “l’amore supera ogni cosa” e ne sarà convinta. Ancor peggio, vedrà nell’opposizione da parte della propria famiglia, un tentativo di rovinarle la vita e la felicità. Accade anche che la coppia si incontri di nascosto e che la donna si trovi ad essere sola, senza che nessuno le abbia potuto spiegare le conseguenze della sua decisione. O che gli stessi genitori non osino contrariare la propria figlia.

In secondo luogo, perché i giovani cristiani in età di matrimonio sono pochi. Molti cristiani palestinesi hanno abbandonato la Terra Santa perché non trovano le condizioni minime e più elementari come l’abitazione, il lavoro, la sicurezza, l’educazione, gli aiuti sociali, ecc., per poter condurre una vita degna e sperare in un futuro che valga la pena.

Per cercare un futuro migliore, i giovani ragazzi se ne vanno dalla Terra Santa. Dei quasi 2000 cristiani palestinesi che sono emigrati in questi ultimi due anni, la maggior parte erano maschi in età di matrimonio. È molto difficile – nella cultura, nella religione e nella mentalità mediorientale – che una giovane ragazza si avventuri in una vita, quella dell’emigrazione, che comporta oggi tante incognite e difficoltà. I ragazzi invece lo fanno più facilmente.

E così ci troviamo di fronte ad un problema molto serio: non vi è un numero sufficiente di giovani in età di matrimonio. Solo un esempio per illustrare questa situazione. Betlemme è uno dei centri cristiani più importanti. Secondo uno studio effettuato dai parroci francescani della Città di Davide, nella parrocchia latina vi erano normalmente ogni anno circa 120 battesimi (più o meno 60 bambini e 60 bambine). Dei 60 bambini, solo 25 o 30 si sono sposati a Betlemme, mentre gli altri sono emigrati. Inoltre, poiché le donne di Betlemme sono molto esigenti con i giovani (chiedono vestiti costosi, celebrazioni sfarzose sia per il fidanzamento che per il matrimonio, ecc.), molti giovani hanno preferito sposarsi con donne di altre zone. E cosi, di queste 60 bambine, solo una quindicina si sono sposate. Conclusione: rimangono le altre 45 in attesa di matrimonio. Queste statistiche, grosso modo, possono applicarsi anche agli altri centri cristiani.

La conseguenza di tutto questo è evidente: essendo il matrimonio un ideale assoluto e una liberazione per la donna, è facile che questa cercherà un marito anche tra i musulmani, senza preoccuparsi troppo delle conseguenze o senza tenerne affatto conto. Per questo negli ultimi anni, sei donne cristiane di Betlemme si sono sposate con musulmani, con tutto ciò che questo implica, tra cui in particolare il fatto che i figli che nasceranno non saranno mai cristiani.

Un ulteriore problema è che non vi sono risorse sufficienti per affrontare un matrimonio. Un ragazzo giovane ha oggi poche possibilità di sposarsi, perché scarseggiano i due elementi fondamentali: il lavoro e la casa. Le famiglie musulmane, solitamente molto numerose, fanno il possibile e l’impossibile per aiutare il giovane ad avere almeno la casa; questo non avviane tra i cristiani che sono meno solidali tra loro. E per questo motivo i francescani hanno intrapreso, da diversi secoli, il compito di costruire case per i cristiani. Anche se il loro lavoro è manifestamente insufficiente.

Che soluzione si può dare a questo problema?

È difficile dare una soluzione ad un problema così complesso. Ma crediamo che esiste qualche misura che sarebbe importante adottare.

È necessaria anzitutto una formazione religiosa più profonda. E questo è responsabilità dei pastori, specialmente dei parroci. Le catechesi cristiana e matrimoniale devono essere approfondite non solo nei contenuti della fede, ma anche nelle conseguenze che implica un matrimonio misto. L’ignoranza su questi temi può essere molto pericolosa per la donna.

In secondo luogo deve esservi un maggiore sforzo da parte dei cristiani palestinesi e anche da parte dei governi occidentali, per la democratizzazione delle strutture politiche degli Stati musulmani. Questo vale in modo particolare in questi momenti nei quali si prepara il progetto di Costituzione del futuro Stato palestinese. Non è accettabile che, nonostante la collaborazione politica ed economica dell’Europa, si crei uno Stato palestinese che non rispetti i diritti fondamentali dell’uomo e in particolare il diritto alla libertà religiosa e alla libertà di coscienza.

In terzo luogo, è necessario aiutare maggiormente i cristiani. I cristiani si sentono abbandonati dai governi dell’Occidente e dalle società di carità cristiana. La frase che viene spesso ripetuta dai politici: “Noi non aiutiamo i cristiani; aiutiamo i palestinesi”, può avere, ed ha, un senso in Occidente. Qui non viene compresa. La religione pervade ogni aspetto della vita di ogni gruppo e il conflitto che si vive in Terra Santa è anzitutto un conflitto religioso.

I cristiani si sentono traditi dai propri fratelli occidentali, cosa che non avviene per gli ebrei e per i musulmani. Non avendo questa prospettiva, gli aiuti del mondo cristiano arrivano anche ai musulmani e agli ebrei. E si verifica un amaro paradosso per cui l’aiuto dei cristiani procura un rafforzamento delle maggioranze, lasciando ai margini la minoranza cristiana, che si vede così obbligata ad emigrare. Tutti siamo responsabili nei confronti dei nostri fratelli cristiani in Terra Santa.

Come ultima considerazione, che forse è quella più importante, occorre sottolineare l’urgenza, per le religioni e le culture, di riconoscere alla donna la sua piena dignità e i suoi diritti inalienabili nella società. Si tratta di un capitolo della storia non ancora concluso, specialmente in Medio Oriente.

[Traduzione a cura di ZENIT]


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