Scienza priva di limiti: orrenda catena di montaggio

La notizia è semplice e dirompente: nei laboratori di un’università della Corea del Sud sono stati clonati 30 embrioni umani e sono stati coltivati, fino allo stadio in cui è stato possibile trarne cellule staminali embrionali, in grado di «riparare», nelle prospettive dei ricercatori, ogni tipo di tessuto umano danneggiato

La notizia è semplice e dirompente: nei laboratori di un’università della Corea del Sud sono stati clonati 30 embrioni umani, e sono stati coltivati per alcuni giorni, fino allo stadio in cui è stato possibile trarne cellule staminali embrionali, altrimenti dette totipotenti, cellule cioè in grado di «riparare», nelle prospettive dei ricercatori, ogni tipo di tessuto umano danneggiato. Nelle ambiziose mire degli scienziati, in Sud Corea si è fondata, tanto per farci capire, la prima grande fucina di pezzi di ricambio embrionali, vergini e ottimali quindi per ogni funzione.


Subito interrotta, certo, la breve vita di quei trenta cloni, copia geneticamente esatta delle madri. Nessuno ha intenzione, in Corea, di creare legioni di ominidi uguali, né di giocare alla fantascienza. Far crescere quei cloni fino a farne bambini, ha dichiarato il direttore dell’esperimento professor Hwang, sarebbe un crazy attempt, un folle tentativo. Invece, lui e i suoi colleghi tentano di vestire i panni dei benefattori: con quelle cellule duttili, fresche, vergini impareranno presto a riparare i tessuti distrutti dall’Alzheimer, dal Parkinson, dalle malattie degenerative che non si riesce ancora a curare.


Il che, diranno in molti – e cercheranno pure di convincerci- è splendido, è l’agognata, definitiva vittoria sulla sofferenza. Peccato che la fucina che sforna questi splendidi ricambi, questi gioielli di umana tecnologia, all’inizio della catena di montaggio preveda lo smembramento di un qualcosa, un clone, che vivo non abbiamo visto mai, ma del quale – se le sue cellule sono identiche alle nostre tanto da usarle come ruote di scorta – possiamo tragicamente supporre che, qualora nascesse, non sarebbe all’apparenza distinguibile da un uomo.


Ma è per il bene dell’umanità sofferente, alzano le spalle i fautori di questa scienza senza limiti, seccati dai dubbi che loro respingeranno puntualmente come vuoti sentimentalismi. Ma sarà bene guardarla in faccia la realtà, senza maschere accomodanti per le coscienze. Ebbene, solo una minima parte dell’Occidente più ricco potrebbe un giorno godere di cure per malattie degenerative per lo più riguardanti le fasce più anziane della popolazione – come l’Alzheimer, o il Parkinson. Dunque, cure nemmeno per tutti, ma per i più ricchi, e a caro prezzo, nell’interesse di chi disporrà dei brevetti di queste preziosissime terapie. Un business colossale, altro che benefattori. I veri benefattori sono quelli che cercano un vaccino contro l’Aids, di cui muoiono ogni anno nel Terzo mondo milioni di poveri cristi. Ma lì – lo sappiamo – non c’è da arricchirsi.


E il mondo, che correva dietro alle dichiarazioni di certe sette improbabili, di certi medici da rotocalco, sempre pronti ad annunciare: ecco il clone, lo facciamo, l’abbiamo fatto. Quanto si sbagliava quel mondo. Non era solo dal laboratorio di piccoli Frankestein che bisognava guardarsi, ma dalla scienza seria, quella che fa le cose pulite e perbene, e ci annuncia commossa che presto ci guarirà da tutti i nostri mali. Va bene, usando, all’inizio della filiera, degli embrioni umani. Ma vuoi mettere il rapporto costi/ benefici? Cos’erano quei trenta, rispetto ai risultati ottenuti? Ognuno, un nulla. Oppure, ognuno l’infinito.


Marina Corradi
Avvenire 13/02/2004