NO al silenzio

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IL COMITATO “VERITÀ E VITA”
PRESENTERA’ UNA DENUNCIA
PER OMICIDIO VOLONTARIO

Quando Eluana è morta, era sola. Non c’era nessuno in quella stanza: il padre Beppino Englaro era a Lecco, come pure la madre. Non c’era un infermiere, un medico, nessuno di quelli che avrebbero dovuto “accompagnarla al riposo con presenza costante ed attenta”, com’è stato scritto da qualcuno.

La verità è molto semplice: Eluana Englaro è stata uccisa nel silenzio.

Ora qualcuno pretende il silenzio. C’è poco da pretendere: il silenzio è già arrivato, in quella stanza di Udine dove Eluana è morta sola.

Ma quando qualcuno viene ucciso, la giustizia degli uomini ha il dovere di indagare le responsabilità penali personali di coloro che hanno commesso il fatto criminoso.  Non di fare silenzio.

Per questo motivo il Comitato Verità e Vita presenterà quanto prima una denuncia alla Procura della Repubblica di Udine con l’ipotesi del reato di omicidio volontario.

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Hanno ucciso Eluana Englaro

Comunicato Stampa N. 70, 10 febbraio 2009

Morire è una condizione naturale, un fatto ineluttabile della nostra condizione umana. Ma quella di Eluana Englaro non è stata una morte naturale. La verità è molto semplice: Eluana Englaro è stata uccisa. E quando qualcuno viene ucciso, la giustizia degli uomini ha il dovere di indagare le responsabilità penali personali di coloro che hanno commesso il fatto criminoso. Per questo motivo – senza alcuna esitazione e senza alcun ripensamento – confermiamo quanto annunciato nelle scorse settimane: Verità e Vita presenterà quanto prima una denuncia alla Procura della Repubblica di Udine con l’ipotesi del reato di omicidio volontario. Verità e Vita si batterà – insieme a tutti coloro che vorranno invocare giustizia – affinché i colpevoli di questo abominevole delitto vengano processati e condannati da un tribunale dello Stato Italiano.
Ci sono delle responsabilità penali, e toccherà alla magistratura accertarle. Ma vogliamo dire – con la nostra abituale schiettezza – che esiste anche una colpa morale, esiste una responsabilità che sfugge alle aule dei tribunali, ma che non può sottrarsi a un Giudizio più profondo e decisivo.
Noi vogliamo dirlo forte: sono in molti ad avere sulla coscienza questo delitto.
L’uccisione di Eluana pesa innanzitutto sulla coscienza di suo padre Beppino, anche se fortissimi sono i condizionamenti che ha dovuto subire. Appare lui il principale artefice di questa infernale procedura, nella quale i padri vagano alla ricerca di un giudice che li autorizzi a togliere di mezzo i propri figli.
L’uccisione di Eluana pesa sulla coscienza di quegli avvocati che hanno abilmente difeso le ragioni della morte contro quelle della vita, continuando a conservare una cattedra come docenti in quella Università cattolica che fu fondata da Padre Agostino Gemelli, non certo per propagare in Italia il diritto a uccidere i malati per fame e per sete.
L’uccisione di Eluana pesa sulla coscienza di quei magistrati che in questi anni hanno scritto decisioni di morte. O che non hanno impedito la consumazione del delitto.
L’uccisione di Eluana pesa sulla coscienza di quei medici che, in spregio alla loro vocazione e alla deontologia ippocratica – hanno dichiarato ai mass media che “Eluana era già morta 17 anni fa”.
L’uccisione di Eluana pesa sulla coscienza di quei politici che, in spregio al loro dovere di agire per il bene comune, hanno detto che si poteva lecitamente far morire per fame e per sete una donna inerme.
L’uccisione di Eluana pesa sulla coscienza di quegli altri politici “moderati”, che hanno spiegato che bisognava “abbassare i toni”. Come se – di fronte a uno che sta affogando nelle acque di un fiume – l’importante fosse non disturbare la quiete pubblica urlando con quanto fiato abbiamo in corpo “aiuto!”.
L’uccisione di Eluana pesa sulla coscienza del Presidente della Camera Gianfranco Fini, che con le sue esternazioni si candida a raccogliere l’eredità politica non di Silvio Berlusconi, ma di Marco Pannella.
L’uccisione di Eluana pesa sulla coscienza del senatore a vita Giulio Andreotti che, dopo aver firmato nel 1978 la legge 194 sull’aborto, in questa occasione ha parlato per dire che lo Stato non doveva intervenire per salvare Eluana. Ha parlato, e sarebbe stato meglio se avesse taciuto: non avrebbe aggiunto al computo tremendo dei 5 milioni di italiani uccisi dall’aborto di Stato un’altra vittima innocente.
L’uccisione di Eluana pesa sulla coscienza di tutti coloro che in questi mesi hanno riempito le nostre orecchie con il loro assordante silenzio: credenti e non credenti, intellettuali e gente comune, laici e vescovi, che – forse per codardia – hanno taciuto, abbandonando questa vittima muta al suo destino.
L’uccisione di Eluana pesa – soprattutto – sulla coscienza del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. E’ stato lui a rifiutarsi di firmare un decreto che avrebbe letteralmente salvato la vita di questa donna. Questione di due-tre giorni: i due-tre giorni che sono serviti per ucciderla.
Può darsi che, adesso, la grande macchina organizzata per togliere di mezzo Eluana si metta a fare baccano per impedire che si dicano queste verità. A noi la cosa non fa paura. Andremo avanti, e chiediamo a tutti di fare lo stesso. Perché non ci sia, mai più, un’altra Eluana ammazzata così.
 
Per il Comitato Verità e Vita
Mario Palmaro, Presidente
Marisa Orecchia, Vicepresidente
Mario Paolo Rocchi, Vicepresidente
Giuseppe Garrone, Segretario
Paolo Gregori, Tesoriere
Giovanni Ceroni, Socio
Elena Baldini, Socia
 
 
 
Quando Eluana è morta, era sola
 
L\’editoriale di Massimo Micaletti
 
Eluana è morta. Ora, almeno, sono tutti d’accordo che lo sia. Nelle sue ultime ore, si consumava lo scontro tra chi difendeva la vita e chi venerava la propria personalissima e dubbia idea di Costituzione, ponendola al di sopra della vita di un essere umano indifeso; l’inattesa resistenza del Governo e di ampia parte dell’opinione pubblica a quel che stava succedendo aveva lasciato germogliare un incredulo sussurrato ottimismo. Ma poteva essere ottimista solo chi non avesse conoscenza del deserto ideologico in cui la povera Eluana era stata trascinata.
In effetti, già poche ore dopo l’avvio del “Protocollo di disidratazione” che avrebbe portato Eluana a morire di fame e di sete l’équipe di disidratatori che la seguiva aveva dichiarato che le procedure sarebbero state accelerate. Il senso era chiaro: mettere il Paese, e la politica dinanzi al fatto compiuto. E ci sono riusciti.
Adesso il padre di Eluana chiede silenzio, vuol restare solo. Strano, in questa vicenda, il rapporto di Beppino Englaro con i media e l’opinione pubblica: quando otteneva un provvedimento favorevole alle proprie tesi, che apriva ad Eluana le porte del camposanto, aveva bisogno di star solo, di chiudersi nel silenzio; non appena interveniva qualche intoppo che poteva far dubitare che sua figlia sarebbe stata effettivamente uccisa, allora lo si ritrovava sui giornali, anche internazionali, in tv, alla radio, sul web che dichiarava, meditava, esitava. C’era lui, sempre lui, non sua figlia.
Ma quando Eluana è morta, era sola.
Non c’era nessuno in quella stanza: il padre Beppino Englaro era a Lecco, come pure la madre. Non c’era un infermiere, un medico, nessuno di quelli che avrebbero dovuto “accompagnarla al riposo con presenza costante ed attenta”, com’è stato scritto da qualcuno.
Ad Udine c’è un procuratore che dinanzi alla pioggia di esposti, prima ancora di acquisire le risultanze istruttorie ad essi relative aveva dichiarato che non avrebbe comunque interrotto l’esecuzione di Eluana – pardon – l’esecuzione del decreto della Corte d’Appello di Milano. Adesso magari l’autopsia ordinata da quello stesso procuratore ci dirà che è tutto a posto, che va bene così, tutto in ordine. I tecnici scelti da quello stesso procuratore ci diranno rassicuranti che è cosa normale che una persona la cui sopravvivenza alla fame ed alla sete era stata stimata in almeno quindici giorni dallo stesso neurologo che la seguiva, Prof. De Fanti, si spenga dopo novantasei ore di fame, sete e sedativi. Le norme sono state rispettate, il dettato dei giudici adempiuto, giustizia è fatta: Eluana doveva morire ed è morta.
L’équipe di disidratatori sarà forse indagata e certamente assolta, come nel caso Welby.
Nessuno dei magistrati interessati ricorderà che la deprecabile sentenza del 2007 della Corte di Cassazione (sulla quale si fonda il decreto della Corte d’Appello di Milano) prevedeva quali presupposti per l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione l’assoluta certezza sulla irreversibilità dello stato del paziente e sulla effettiva volontà dello stesso, certezze che in questo caso erano a dir poco evanescenti. Quella sentenza, tanto sbandierata dai pro morte quando uscì, i giudici di certo non se la ricorderanno; del resto hanno dimenticato anche le tante altre norme che avrebbero potuto e dovuto salvare Eluana. Ma dobbiamo comprenderli, si tratta di norme secondarie, perse nelle pieghe dell’ordinamento, cavilli e busillis come l’articolo 2 della Costituzione (diritti inviolabili dell’uomo), l’art. 3 della Costituzione (principio di uguaglianza formale e sostanziale tra tutti gli esseri umani), l’art. 32 della Costituzione (tutela del diritto alla salute), l’articolo 579 del Codice Penale (omicidio del consenziente), l’articolo 580 del Codice Penale (aiuto o istigazione al suicidio), l’articolo 5 del Codice Civile (divieto di atti di disposizione del proprio corpo), la Legge 833/78 (istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale). Povero Diritto.
Con questa storia triste e violenta, la mentalità di chi vede nella morte un rimedio ha gettato la maschera. Nulla di dolce c’è stato nell’addio di Eluana, che in meno di una settimana è stata strappata alle cure di chi l’accudiva e portata a morire da sola tra gli ”inspiegabili” e continuati accessi di tosse che l’hanno presa da quando è stata portata via da Lecco.
Questa mentalità, che si ammanta di un assurdo rispetto per le idee di chi vuol la morte e non tollera che altri difendano la realtà oggettiva ed indiscutibile della vita, abbraccia politici laici e “cattolici”, da Gianfranco Fini a Livia Turco, da Walter Veltroni a Benedetto Della Vedova, rd annovera tra i suoi seguaci figurine à la page come il Dalai Lama e Roberto Saviano, e tutta quella ridda di persone che hanno dichiarato che andava bene così, che un padre che chiede la morte della figlia va compreso, rispettato, assecondato.
Ora qualcuno pretende il silenzio. C’è poco da pretendere: il silenzio è già arrivato, in quella stanza di Udine dove Eluana è morta sola.
Ora altri accelerano per una legge sul testamento biologico, che con questa vicenda nulla c’entra quantomeno perché Eluana non aveva fatto testamento biologico e molto difficilmente l’avrebbe fatto, a diciannove anni.
Altri ancora diranno che non si pentono di quel che hanno fatto, che lo rifarebbero ancora. Ma sì, in fondo se nel ventunesimo secolo qualcuno muore di fame e di sete per mano medica è bene che gli altri stiano zitti. In fondo, è stato detto, è una liberazione. Ma per chi? Eluana è morta. Ora, almeno, sono tutti d’accordo che lo sia. Nelle sue ultime ore, si consumava lo scontro tra chi difendeva la vita e chi venerava la propria personalissima e dubbia idea di Costituzione, ponendola al di sopra della vita di un essere umano indifeso; l’inattesa resistenza del Governo e di ampia parte dell’opinione pubblica a quel che stava succedendo aveva lasciato germogliare un incredulo sussurrato ottimismo. Ma poteva essere ottimista solo chi non avesse conoscenza del deserto ideologico in cui la povera Eluana era stata trascinata.
In effetti, già poche ore dopo l’avvio del “Protocollo di disidratazione” che avrebbe portato Eluana a morire di fame e di sete l’équipe di disidratatori che la seguiva aveva dichiarato che le procedure sarebbero state accelerate. Il senso era chiaro: mettere il Paese, e la politica dinanzi al fatto compiuto. E ci sono riusciti.
Adesso il padre di Eluana chiede silenzio, vuol restare solo. Strano, in questa vicenda, il rapporto di Beppino Englaro con i media e l’opinione pubblica: quando otteneva un provvedimento favorevole alle proprie tesi, che apriva ad Eluana le porte del camposanto, aveva bisogno di star solo, di chiudersi nel silenzio; non appena interveniva qualche intoppo che poteva far dubitare che sua figlia sarebbe stata effettivamente uccisa, allora lo si ritrovava sui giornali, anche internazionali, in tv, alla radio, sul web che dichiarava, meditava, esitava. C’era lui, sempre lui, non sua figlia.
Ma quando Eluana è morta, era sola.
Non c’era nessuno in quella stanza: il padre Beppino Englaro era a Lecco, come pure la madre. Non c’era un infermiere, un medico, nessuno di quelli che avrebbero dovuto “accompagnarla al riposo con presenza costante ed attenta”, com’è stato scritto da qualcuno.
Ad Udine c’è un procuratore che dinanzi alla pioggia di esposti, prima ancora di acquisire le risultanze istruttorie ad essi relative aveva dichiarato che non avrebbe comunque interrotto l’esecuzione di Eluana – pardon – l’esecuzione del decreto della Corte d’Appello di Milano. Adesso magari l’autopsia ordinata da quello stesso procuratore ci dirà che è tutto a posto, che va bene così, tutto in ordine. I tecnici scelti da quello stesso procuratore ci diranno rassicuranti che è cosa normale che una persona la cui sopravvivenza alla fame ed alla sete era stata stimata in almeno quindici giorni dallo stesso neurologo che la seguiva, Prof. De Fanti, si spenga dopo novantasei ore di fame, sete e sedativi. Le norme sono state rispettate, il dettato dei giudici adempiuto, giustizia è fatta: Eluana doveva morire ed è morta.
L’équipe di disidratatori sarà forse indagata e certamente assolta, come nel caso Welby.
Nessuno dei magistrati interessati ricorderà che la deprecabile sentenza del 2007 della Corte di Cassazione (sulla quale si fonda il decreto della Corte d’Appello di Milano) prevedeva quali presupposti per l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione l’assoluta certezza sulla irreversibilità dello stato del paziente e sulla effettiva volontà dello stesso, certezze che in questo caso erano a dir poco evanescenti. Quella sentenza, tanto sbandierata dai pro morte quando uscì, i giudici di certo non se la ricorderanno; del resto hanno dimenticato anche le tante altre norme che avrebbero potuto e dovuto salvare Eluana. Ma dobbiamo comprenderli, si tratta di norme secondarie, perse nelle pieghe dell’ordinamento, cavilli e busillis come l’articolo 2 della Costituzione (diritti inviolabili dell’uomo), l’art. 3 della Costituzione (principio di uguaglianza formale e sostanziale tra tutti gli esseri umani), l’art. 32 della Costituzione (tutela del diritto alla salute), l’articolo 579 del Codice Penale (omicidio del consenziente), l’articolo 580 del Codice Penale (aiuto o istigazione al suicidio), l’articolo 5 del Codice Civile (divieto di atti di disposizione del proprio corpo), la Legge 833/78 (istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale). Povero Diritto.
Con questa storia triste e violenta, la mentalità di chi vede nella morte un rimedio ha gettato la maschera. Nulla di dolce c’è stato nell’addio di Eluana, che in meno di una settimana è stata strappata alle cure di chi l’accudiva e portata a morire da sola tra gli ”inspiegabili” e continuati accessi di tosse che l’hanno presa da quando è stata portata via da Lecco.
Questa mentalità, che si ammanta di un assurdo rispetto per le idee di chi vuol la morte e non tollera che altri difendano la realtà oggettiva ed indiscutibile della vita, abbraccia politici laici e “cattolici”, da Gianfranco Fini a Livia Turco, da Walter Veltroni a Benedetto Della Vedova, rd annovera tra i suoi seguaci figurine à la page come il Dalai Lama e Roberto Saviano, e tutta quella ridda di persone che hanno dichiarato che andava bene così, che un padre che chiede la morte della figlia va compreso, rispettato, assecondato.
Ora qualcuno pretende il silenzio. C’è poco da pretendere: il silenzio è già arrivato, in quella stanza di Udine dove Eluana è morta sola.
Ora altri accelerano per una legge sul testamento biologico, che con questa vicenda nulla c’entra quantomeno perché Eluana non aveva fatto testamento biologico e molto difficilmente l’avrebbe fatto, a diciannove anni.
Altri ancora diranno che non si pentono di quel che hanno fatto, che lo rifarebbero ancora. Ma sì, in fondo se nel ventunesimo secolo qualcuno muore di fame e di sete per mano medica è bene che gli altri stiano zitti. In fondo, è stato detto, è una liberazione. Ma per chi?