Marta Sordi: Includere gli stranieri? Il paradigma di Roma

INTERVISTA
Parla la storica Marta Sordi: «Impariamo dai latini che l’integrazione può avvenire solo condividendo valori radicati»


«Tutti erano cittadini della stessa patria. Il fattore unificante era in primo luogo politico, la condivisione della medesima “civitas”. L’Urbe madre dei popoli sapeva superare tutte le divisioni»


Di Edoardo Castagna
(C) Avvenire, 25 agosto 2005

«Hai fatto una città di ciò che prima non era che un globo». Nel V secolo, quando la millenaria storia di Roma volgeva malinconicamente al termine, i versi del gallo Rutilio Namaziano esprimevano la gratitudine di un provinciale verso la civiltà che l’aveva trasformato in un cittadino. Come il suo coevo, il cristiano Orosio, coglieva il grande servigio reso da Roma all’Europa e all’Occidente: l’integrazione di popoli diversi in un’unità, intorno a valori condivisi. Le etnie più disparate non furono escluse dal crogiolo dell’impero: Roma aveva saputo fonderle nonostante le differenze, e diffondendo anzi uno stesso senso di appartenenza. Un modello che potrebbe rivelarsi produttivo anche per l’Europa, in questi tempi di dibattito sull’integrazione e sull’identità culturale del Vecchio continente. «Sulla questione della purezza etnica – illustra la storica Marta Sordi – Greci e Romani avevano impostazioni radicalmente diverse».


Qual era la differenza, professoressa Sordi?


«I Greci dell’età classica (IV-V secolo a.C.) vantavano la propria unità di sangue, di lingua e di costumi, tanto da considerare una debolezza misture come quelle della Sicilia, dove i Greci convivevano con Italici e Cartaginesi. I Romani, al contrario, hanno sempre avuto la consapevolezza di essere nati da un incontro di popoli: dietro al mito di Enea, esule da Troia, c’è proprio la coscienza di discendere dalla fusione degli elementi latini, sabini ed etruschi, ovvero orientali. Anche per questo i Romani si ritenevano i rappresentanti dell’intero Occidente: Roma è “cattolica” fin dai suoi albori, con una straordinaria potenzialità di inclusione. Cicerone esaltava la sua capacità di trasformare il nemico di ieri nel cittadino di oggi. Il processo si è allargato progressivamente: prima gli Italici, poi le Gallie e la Spagna, e infine, con l’editto di Caracalla del 212, tutte le province dell’impero».


Su quali basi poggiava l’integrazione?


«Sulla capacita di assimilazione: tutti erano cittadini de lla stessa patria. Il fattore unificante era in primo luogo politico, la condivisione della medesima civitas. Roma, madre dei popoli, affermava con forza i propri valori, magari a volte traditi nella pratica, ma sempre in grado di superare le divisioni».


Di quali valori si trattava?


«Innanzitutto, l’identificazione dell’imperium con la pax. E poi, il diritto. Per comprendere la sua forza, basta raffrontare la schiavitù romana e quella greca. Per la filosofia greca lo schiavo era tale per natura, anche se veniva liberato. A Roma, al contrario, gli schiavi affrancati diventavano cittadini. Questa concezione giuridica è fondamentale fin dalle origini, e la si vede anche nel rapporto con la divinità: con gli dei vigeva la pax deorum, un’alleanza concettualmente non dissimile da quella stipulata con Dio dal popolo ebraico».


A un certo punto, però, l’assimilazione non ha più funzionato.


«Con le invasioni barbariche nuovi popoli si immisero in massa nell’impero, che non riuscì ad assorbire l’urto. L’assimilazione funziona finché può avvenire in modo graduale».


Un insegnamento valido ancora oggi?


«Una differenza fondamentale tra la tarda antichità e il momento attuale è il fatto che, allora, si trattava di invasioni militari. Però è vero che ci sono alcune analogie, e che dobbiamo accompagnare l’accoglienza con una sana prudenza. In questi anni siamo già davanti a un’immigrazione di massa dentro i confini europei».


È per questo che l’Europa fatica a integrarle?


«Non è solo una questione di dimensioni del fenomeno. Quello che manca all’Europa di oggi è una forte identità, politica e culturale. Roma riconosceva il proprio debito originario nei confronti dell’Oriente, ma considerò sempre quello dei troiani come un viaggio irreversibile. L’identità romana coincideva con la difesa della libertà – pur nel rispetto delle leggi naturali – propria dell’Occidente. Fu la capacità di integrare tutti i popoli dell’impero in questa visione a garantire la stabilità del modello romano».


È l’immagine del «melting pot» che si usa per descrivere la società statunitense?


«Sostanzialmente, sì: a Roma come negli Stati Uniti, le diverse e nuove componenti etniche vengono incluse nella nazione grazie alla condivisione di certi valori. Un processo magari doloroso e non sempre lineare, ma che l’America ha saputo compiere proprio grazie alla forza della propria identità e a valori condivisi e radicati».


L’Europa non cammina su questa strada?


«Per nulla, mi sembra. Qui si negano le proprie radici classiche e cristiane; non mi sorprende che poi molti europei rifiutino, non appena ne hanno la possibilità, l’attuale modello di Unione. Se ci si vergogna delle proprie radici, non può affermarsi nessuna identità. E, di conseguenza, non ci può essere assimilazione. Soltanto con una forte identità propria si può impedire che il meticciato di popoli e culture scada nel relativismo culturale».