«Mao era terrificante». Parola del suo segretario personale

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«Mao, un despota brutale»

Parla Li Rui, per anni segretario e confidente del Grande Timoniere. In questa rara intervista, l’ottantottenne dirigente comunista ripercorre la storia della Repubblica Popolare…

Il suo gigantesco ritratto troneggia all’ingresso della Città Proibita, il suo corpo imbalsamato sta in un mausoleo al centro di Piazza Tienanmen, la sua effigie è la sola a comparire sull’ultima serie di banconote. A quasi trent’anni dalla sua morte, Mao è sempre la figura più centrale della Cina ma qui non c’è traccia di dibattito.
Una nuova biografia inglese curata da Jung Chang, l’autrice di «Cigni selvatici», definisce Mao il più grande assassino di massa della storia.
Del libro però non si parlerà nei caffè e nei ristoranti di Pechino, né le sue tesi riempiranno le pagine dei giornali cinesi. Perché in Cina il libro non verrà pubblicato e difficilmente se ne troveranno accenni su Internet.
Secondo Li Rui, l’uomo che fu segretario personale di Mao nel periodo più sanguinoso del Grande Timoniere, è questo rifiuto di confrontarsi con gli episodi più bui del passato cinese e di sottoporli a revisione a impedire che il Paese conquisti il proprio potenziale.
In questa rara intervista, Li Rui sostiene che il problema maggiore della Cina moderna è la sua incapacità di fare i conti con la storia. I cui orrori pochi conoscono meglio di questo signore di 88 anni, che per avere espresso apertamente le proprie opinioni ha conosciuto prima il centro del potere a Pechino, poi la brutalità dei campi di lavoro nella provincia glaciale dell’Heilongjiang.
Gran parte delle punizioni erano distribuite dal suo mentore e principale tormentatore, Mao, i cui peggiori crimini sono ancora un argomento tabù.
«E’ il più grande problema della Cina. Mao era troppo autocratico. Non sopportava dissensi. Aveva la convinzione superstiziosa di essere sempre e assolutamente nel giusto. Ma il problema di Mao è anche un problema del sistema. Era causato dal sistema del partito».
Lei non ha ancora letto il nuovo lavoro su Mao, ma la tesi secondo la quale fu colpevole della morte di decine di milioni di cinesi durante il Grande Balzo in Avanti e la Rivoluzione Culturale non sarà probabilmente una sorpresa…
«Il modo di pensare e di governare di Mao era terrificante» e trema dalla rabbia appena gli si chiede della personalità del presidente.
«Non dava valore alla vita umana. La morte degli altri non significava niente per lui. Proprio non mi piaceva».
Nonostante le critiche insolitamente aspre, Li Rui non è un dissidente. Al contrario, è un uomo del partito a tutto tondo, un quadro sopravvissuto a uno dei tumulti politici più crudi del ventesimo secolo con la reputazione intatta. E la sua abitazione di Pechino, nella Casa dei ministri, un condominio riservato ai dirigenti comunisti in pensione, ne è la prova. Ma i suoi violenti commenti pubblici sono del tutto coerenti con una storia personale fatta di ribellioni, spesso pagate a caro prezzo, contro quanti abusavano del potere. Da liceale nella provincia di Hubei guidò le proteste studentesche contro i signori della guerra locali, all’università si buttò nel movimento contro il Giappone e subito dopo fu arrestato dagli uomini del Kuomintang di Chang Kai-shek per aver distribuito libri di testo marxisti. Una volta libero si unì alle forze comuniste di Mao a Yanan, dove scriveva pungenti editoriali per il giornale del partito, Liberazione . A seguito di una brutale purga contro i «reazionari», trascorse un anno in carcere con l’accusa di spionaggio.
Inizialmente la sua indipendenza di pensiero le valse una promozione nella cerchia più vicina a Mao, dove occupò la posizione consultiva di segretario personale. Ma nel 1958 quella stessa franchezza la portò per due anni in un campo di lavoro: aveva osato criticare pubblicamente la politica disastrosa del Grande Balzo in Avanti e, per estensione, un leader che stava cominciando a proiettare un’immagine di infallibilità…
«Già nel 1958 Mao diceva che il culto della personalità era necessario. Durante la Rivoluzione Culturale, era ormai diventato un culto del male. I metodi di Mao erano anche più duri di quelli degli imperatori dei tempi antichi. Mao cercava di controllare le menti delle persone».
Eppure, nonostante le sofferenze vissute in prima persona, Li Rui accetta il giudizio ufficiale del Partito comunista secondo il quale Mao è stato per tre parti cattivo e per sette buono: i suoi successi rivoluzionari nell’espellere le potenze coloniali furono superiori ai suoi insuccessi una volta andato al potere. Dalla follia della Rivoluzione culturale la Cina è cambiata al punto di essere quasi irriconoscibile. I cinesi sono più ricchi e assai più liberi di muoversi e di esprimere le loro opinioni in privato e davanti agli stranieri, se non ancora in pubblico.
«Oggi posso parlare con lei. In passato, se avessi parlato così sarei stato ucciso o messo in prigione» dice Li Rui.
Tuttavia, le sue poesie e i suoi saggi contro la corruzione, la distruzione dell’ambiente e la censura interna vengono pubblicati a Hong Kong. Quando un giornale continentale, il Southern Metropolitan , ha riportato le sue proposte per una divisione tripartita del potere, le autorità ne hanno bloccato la diffusione e hanno cambiato il direttore. Per quanto i campi di lavoro non costituiscano più una minaccia, a parlar chiaro si corrono rischi considerevoli. Lo si è visto con i frequenti arresti di giornalisti, il più recente quello di Ching Cheong dello Straits Times di Singapore, accusato di spionaggio per aver cercato di ottenere degli appunti delle interviste segrete con il defunto premier Zhao Ziyang che si era opposto alle uccisioni di Piazza Tienanmen il 4 giugno 1989.
Li Rui parla di questo argomento delicato come di qualsiasi altro con franchezza: «La leadership non capì gli studenti. Temeva che fossero organizzati dalle potenze straniere e facessero parte di un tentativo di presa del potere da parte di qualcuno all’interno del partito. La leadership prese misure sbagliate. Le richieste degli studenti di maggior democrazia e meno corruzione erano giuste».
L’anno scorso, nel quindicesimo anniversario di Tienanmen, funzionari di primo piano chiesero di riconsiderare gli atti di repressione, che il governo aveva sempre motivato come una misura necessaria contro una rivolta che minacciava la stabilità. Li Rui è uno dei pochi che rischia una punizione da parte delle autorità perché è intervenuto pubblicamente con un appello del genere. «Dovremmo parlarne. Dovremmo riconsiderare – dice – quanto accadde il 4 giugno. Ma dobbiamo farlo come si deve, non ora». Come per il nazismo in Germania o per la dittatura militare nella Corea del Sud, un giudizio finirà per essere dato dalla storia. «Ma è difficile dire se ci vorranno cinque, quindici o vent’anni».


di Jonathan Watts


The Guardian 2005 (Traduzione di Monica Levy)


Corriere della Sera 3 giugno 2005