MINACCIA SOTTOVALUTATA

  • Categoria dell'articolo:Terrorismo

di MAGDI ALLAM. ROMA – Al Qaeda? Non esiste. Osama bin Laden? E’ uno dei tanti predicatori. Il terrorismo islamico in Italia? E’ il frutto di servizi segreti deviati e della sete di protagonismo di qualche magistrato.

A poco più di due anni dall’11 settembre nel nostro Paese è in atto un processo di revisionismo su un tema che resta la principale emergenza internazionale. Basta leggere qualche atto giudiziario, una certa saggistica e talune inchieste giornalistiche per rendersene conto. Ignorando il fatto che l’Italia è già una “fabbrica di kamikaze” e che almeno in cinque si sono fatti esplodere in Iraq. Che ospita centinaia di combattenti islamici reduci dalla Bosnia e dall’Afghanistan. Che i nostri tribunali hanno emesso decine di condanne per il reato di terrorismo internazionale. Che diverse moschee italiane sono succursali di organizzazioni integraliste e estremiste transnazionali, infiltrate dall’ideologia della jihad , la guerra santa, e del shahid , il martire islamico. Luoghi di culto trasformati in centri di indottrinamento, arruolamento, finanziamento e smistamento degli aspiranti mujahidin .


Anche ieri, dagli arresti ordinati dal tribunale di Brescia, emerge un altro “martire” islamico nostrano: Ahmed el Bouhali, marocchino, probabilmente morto in Afghanistan. E’ stato l’imam della moschea di Cremona da cui presero avvio le indagini sfociate nell’individuazione del traffico di combattenti islamici “italiani” diretti in Iraq.


Ebbene, il processo di revisionismo si basa sull’assunto che fintantoché non si trovano delle armi significa che non c’è terrorismo. La riprova starebbe nel fatto che finora in Italia non si è verificato un solo attentato di matrice islamica. Fa leva su una serie di indubbi errori investigativi conclusisi con il rilascio dei fermati o l’assoluzione degli imputati. Si giustifica con una interpretazione iper-garantista dell’articolo 270 bis del Codice penale (associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico). Arrivando a sostenere che dovremmo salvaguardare il diritto di chi predica la violenza e perfino di chi combatte da volontario per la causa di Allah, perché si tratterebbe di libertà individuali, da perseguire soltanto se e quando il pensiero eversivo e l’attività sovversiva si sostanzino in un attentato terroristico.


Un documento emblematico è l’ordinanza con cui il giudice per le indagini preliminari Umberto Antico, del tribunale di Napoli, ha contestato circa un mese fa la richiesta di arresto nei confronti di 26 algerini, indagati per associazione sovversiva con finalità di terrorismo internazionale. Nell’ordinanza di custodia cautelare avanzata dal pm Michele Del Prete si specifica che gli indagati hanno realizzato in Italia “una rete di sostegno logistico all’organizzazione eversiva di matrice confessionale denominata Gspc (Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento), funzionalmente collegata all’organizzazione terroristica internazionale denominata Al Qaeda, allo scopo di commettere atti di violenza contro lo Stato algerino e atti aventi finalità di terrorismo internazionale”.


Ebbene il gip scardina dalle fondamenta l’impianto accusatorio mettendo in discussione la stessa esistenza del Gspc. Dopo aver premesso che “la storia dell’Algeria non appartiene al patrimonio di conoscenze comuni che il giudice può porre a fondamento della sua decisione sotto il profilo del fatto notorio”, il gip sostiene: “L’approccio problematico non riguarda evidentemente solo le azioni, ma la stessa esistenza del Gruppo. Quali elementi sono in possesso di questo giudice per affermare che in Algeria esiste un’organizzazione denominata Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento?”. Ed è così che il gip di Napoli nega l’esistenza di un gruppo terroristico che ha apertamente rivendicato la strage di decine di migliaia di algerini; contro cui è in corso una sanguinosa guerra da parte dell’esercito regolare in Algeria; che è ufficialmente inserito nella lista nera delle Nazioni Unite e dell’Unione europea dei gruppi terroristici affiliati a Al Qaeda; di cui il tribunale di Milano ha riconosciuto la presenza sul territorio italiano condannando dei suoi affiliati.


Merita particolare attenzione la valutazione del gip di Napoli dei capi d’imputazione avanzati dal pm sulla base delle intercettazioni telefoniche: “Il tenore delle conversazioni è riconducibile a normali e non sorprendenti conversazioni intercorse tra persone che, animate da un forte e comune sentimento religioso musulmano, contestano le scelte americane di entrare in Iraq e si augurano che l’esercito americano sia sconfitto, criticano la condotta dei musulmani che non seguono la sharia, sono affascinati dalle predicazioni degli imam, commentano e criticano le scelte politiche o i contrasti politici del loro Paese di origine, seguono i discorsi di Osama bin Laden o di altri predicatori, si impegnano nello Jihad (secondo chissà quale dei numerosi significati del termine), giungono talvolta anche ad affermare singolarmente di voler uccidere un pilota americano, di voler incendiare la bandiera americana, di voler uccidere chi ha ammazzato il proprio fratello, ma che mai, in nessuna conversazione, evidenziano chiaramente (in modo processualmente serio e incontestabile) le finalità del Gspc come sostenute dal pm o un sostegno materiale di una qualsivoglia struttura a tali finalità”.


Qualificare bin Laden uno dei tanti “predicatori” islamici è una palese negazione della realtà così come si evince dalle sue stesse rivendicazioni di una lunga serie di attentati terroristici, tra cui l’11 settembre. Più in generale il gip dimostra una difficoltà concettuale a comprendere la specificità del terrorismo di matrice islamica, in particolar modo nella dimensione del “martirio”. Questo terrorismo fa perno sull’individuo trasformato in “strumento di morte” dall’indottrinamento ideologico. Proprio quando il militante manifesta apertamente la disponibilità a uccidere il “nemico” infedele per vendicare il “fratello” islamico, si è completato il processo che lo rende maturo per realizzare un attentato terroristico. A questo stadio lui diventa “l’arma”.


“Quando si ha a che fare con il terrorismo islamico è sbagliato ritenere che se non si trovano armi allora non ci saranno attentati – spiega il pm di Milano Stefano Dambruoso -. Se il 10 settembre 2001 avessero fermato i 19 dirottatori kamikaze, avrebbero potuto contestare loro il possesso di documenti falsi. Ma nessuno aveva armi. L’attentato alle Torri gemelle è stato attuato con dei coltellini di plastica”. Dambruoso sottolinea la difficoltà del nostro ordinamento giuridico a fronteggiare il terrorismo islamico: “Se ad esempio l’intelligence americana ci dice che Lotfi Rihani, dopo aver soggiornato tra Milano e Bologna, si è fatto esplodere in Iraq, noi potremmo con una rogatoria internazionale sentire l’ufficiale americano che ci ha dato l’informazione. Lui potrebbe rifiutare di testimoniare se l’informazione fosse secretata. Tuttavia, anche nel caso in cui testimoniasse, il giudice non terrebbe conto delle testimonianze rese al pm dal momento che in ogni caso il teste non potrebbe essere presente in dibattimento per essere ascoltato dalla difesa. Ed è così che noi abbiamo la prova d’intelligence che dall’Italia partono dei kamikaze per farsi esplodere in Iraq, ma questa prova non ha nessun valore per il giudice italiano perché non può diventare una prova giuridica. Il risultato è che noi dobbiamo dimostrare che Al Qaeda esiste. Perché per i nostri giudici Al Qaeda non esiste se non ci sono prove della sua esistenza giuridica dimostrabili in Italia”.


E’ in questo contesto strutturalmente complesso, misterioso, sfuggente e difficoltoso che operano i nostri servizi segreti e gli apparati di sicurezza. Con esito soddisfacente. Se finora in Italia non si sono verificati attentati terroristici islamici, lo si deve all’opera di contrasto dei nostri 007 dentro e fuori l’Italia. E’ ormai confermata la presenza sul nostro territorio di “cellule dormienti” legate ad Al Qaeda. Che potrebbero anche attuare un cambio di strategia, decidere di colpire l’Italia. Un magma incandescente e imprevedibile. Di qui, lo stato di allerta generale. Che porta i nostri agenti a non sottovalutare nessun indizio, per arginarlo. Commettendo anche errori. Che diventano clamorosi quando vengono dati in pasto all’opinione pubblica. Ma la minaccia del terrorismo islamico è seria e attuale. Volenti o nolenti ci riguarda tutti.



(2 – Fine. La prima puntata è stata pubblicata il 24 febbraio)



 


Magdi Allam
Corriere della sera 25/02/2004 Prima Pagina